20130226-lavoro

“Creare lavoro” è la frase ricorrente, sentita troppo spesso uscire dalla bocca dei monopolisti e degli affaristi a caccia di denaro pubblico.

 

Sono in molti a riempirsi  la bocca della parola “lavoro”. “Creare lavoro” è la frase ricorrente. Confesso che   mi dà sempre più un senso di rigetto, anche perché l’ho  sentita troppo spesso uscire dalla bocca dei monopolisti e degli affaristi a caccia di denaro pubblico. E perché alla sua martellante ripetizione non corrispondono le  proposte, e a maggior ragione i fatti.

E’ ancora molto diffuso il pensiero lineare, e tarda ad affermarsi il pensiero sistemico.

L’esempio più corrente del pensiero lineare consiste nell’idea che basterebbe che lo stato  si mettesse a spendere senza limiti per ottenere come risultato  automatico la soluzione del problema della disoccupazione. Senza approfondire a sufficienza, e  anzi spesso rimuovendo, l’indagine su    quanto, come,  per che cosa spendere, e con quali effetti collaterali.

Il pensiero sistemico esige non solo che si tenga conto delle interdipendenze tra elementi spesso distanti tra loro, ma anche dei tempi in cui gli interventi producono i loro effetti,  delle possibili retroazioni, dei ritardi. Esige una visione d’insieme e dinamica della realtà, e di lungo termine, per poi individuare quegli interventi da fare subito, magari  pochi ma dotati di un forte moltiplicatore,  che possono veramente modificarne il corso.

Ora, la realtà in cui viviamo è estremamente dinamica, e incide in modo drammatico sul lavoro. La avvisaglie non sono nuove. Senza dover arrivare con la memoria  all’introduzione  dei  telai meccanici nel primo ottocento, che i seguaci del  movimento guidato da un certo Luddy sfasciavano perché toglievano loro il lavoro, basta pensare all’occupazione in agricoltura nel nostro Paese, passata in  circa mezzo secolo  dal 50% al 10% dell’occupazione totale. E poi, all’automazione e informatizzazione crescente nelle attività manifatturiere (sempre parlando del tessile e della mia esperienza, in una sala telai dove negli anni ‘50 lavoravano cento  operai, oggi questi si contano sulle dita di una mano). E ormai, al fatto che questo processo inesorabile attacca anche i servizi (si pensi a quelli bancari, o al “fai da te” alle casse nei supermercati), per fare le stesse cose in sempre meno tempo, con meno fatica e con  un numero decrescente di occupati. Con ritmi sempre più serrati, rendendo più attuale che mai quella che già negli anni venti  del secolo scorso Joseph A. Schumpeter chiamava  “distruzione creativa”.

Questo processo genera fatalmente grandi migrazioni degli esseri umani verso luoghi e attività diverse, accompagnate da sofferenze spesso  insopportabili. E il fatto che a distanza di tempo  produca un miglioramento delle condizioni di vita, l’uscita dalla povertà e dalle malattie  di un numero crescente di persone, come fanno rilevare gli adoratori  del progresso tecnologico alla  Bill Gates, non giustifica il fatto di trascurare la transizione. Quando John M. Keynes diceva: “A lungo andare siamo tutti  morti”, intendeva proprio questo.

Fatta eccezione per chi pensa di ritornare a un mondo bucolico, fatto di pochi, finti e ricchi pastori e pastorelle e di milioni di  miserabili,  quasi  tutti convengono che per fermare il declino e tornare alla  crescita (o quanto meno a un equilibrio  compatibile con la sopravvivenza della biosfera) occorre ancora puntare sulla  ricerca scientifica, sulla innovazione,  e alla fine sulla produttività, fondamento della famigerata competitività (che è un dato della tragicommedia umana  non meno della auspicabile cooperazione). Ma  dovrebbe essere altrettanto evidente per  tutti che l’aumento della produttività non dipende dalle ore lavorate, quando queste sono già al limite di accettabilità per l’essere umano. Secondo dati recenti, i lavoratori italiani lavorano in media 1744 ore all’anno, contro le 1444 degli americani e le 1411 dei tedeschi. Eppure, la produttività dei lavoratori italiani è stata stimata in 45 dollari per ora lavorata, contro i 55 dei tedeschi e i 61 degli americani. In base a questi dati, appare  evidente che la proposta di un  recente documento programmatico della Confindustria, di aumentare di 40 ore all’anno le ore lavorate pro capite in Italia, è insensata. E’  ancora un esempio di pensiero lineare, e particolarmente  stupido.

Allora, se la produttività non può essere aumentata facendo lavorare di più, come si consegue? Molti diranno subito: innovando i  processi produttivi (o anche cambiando l’organizzazione, cosa  meno costosa). Ma pochi traggono le conseguenze spiacevoli di questi incrementi di produttività: l’espulsione di un numero continuo  e crescente  di lavoratori dai vecchi processi produttivi, la chiusura di aziende non più competitive! Ho vissuto anch’io un’esperienza analoga.

Di fronte a questa realtà, molte  proposte e pratiche miranti alla difesa dell’occupazione, del “lavoro”, tacciono. Perché il parlarne farebbe emergere  le contraddizioni di una logica lineare, che non tiene conto degli effetti sistemici. E sarebbe controproducente in termini di consenso. Maglio parlare solo della “creazione del lavoro”, e nello stesso tempo difendere a spada tratta i posti di lavoro nelle imprese in crisi.

Tra queste pratiche difensive rientra a pieno titolo  la nostra cassa integrazione, fino al punto in cui la diga non regge più, e gran parte dei lavoratori vengono abbandonati  al loro destino di disoccupati. Oltre tutto, è una difesa che protegge solo i lavoratori delle grandi aziende, in un paese in cui il 95% delle imprese, che occupano quasi la metà dei  lavoratori,  ha meno di dieci dipendenti.

Dovrebbe invece essere evidente che per far fronte agli effetti inesorabili del progresso tecnologico, occorre spostare il fuoco dei riflettori dalle imprese in declino   alle imprese in crescita, e da queste, a ritroso, a come rendere sopportabili o addirittura gratificanti le  “migrazioni” dalle vecchie imprese a quelle nuove, da un luogo all’altro.

E’ sorprendente che  in una situazione di disoccupazione patologica, molte  nuove imprese non trovino le persone dotate delle competenze necessarie. Nello stesso tempo, un numero crescente di  persone, espulse dal lavoro dipendente, che cercano di immaginarsi attività indipendenti (vedi l’attuale crescita delle partite IVA), scavando nelle proprie esperienze, competenze, vocazioni, incontrano una serie di ostacoli burocratici alle loro iniziative. 

E’ chiaro allora che l’impegno delle istituzioni dovrebbe  focalizzarsi  soprattutto sulla gestione del passaggio  da una attività all’altra. Un compito, tra l’altro,  di alto valore, perché indirizzato ad accrescere le capacità, il ruolo, la visione professionale e culturale dei lavoratori. Bisogna smetterla, a mio parere, di considerare una persona disoccupata come lesa nella sua dignità. E’ molto più dignitoso essere alla ricerca di un nuovo lavoro, vivere il cambiamento,  che restare attaccati a un lavoro  finto e inutile. 

Le istituzioni preposte al lavoro (stato, sindacati, associazioni imprenditoriali) dovrebbero  spostare la loro attenzione dalla sicurezza (“dalla culla alla bara”, secondo la concezione originaria del welfare), all’insicurezza, trasformando quest’ultima  da disvalore (la precarietà) a valore (crescita della persona), garantendo, per tutti, le vere basi della dignità e della libertà umane. Che non stanno in un posto di lavoro qualsiasi, ma nella libertà “sostanziale” che, secondo il premio Nobel dell’economia Amartya Sen, consiste nella  “possibilità  di vivere una vita cui si dia, a buona ragione, valore”. O nelle quattro libertà (di parola, di credo, dal bisogno, dalla paura) che, enunciate  a suo tempo da Franklin D. Roosevelt, sono alla base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.   Un reddito di cittadinanza e servizi adeguati che garantissero   a chiunque i mezzi di sussistenza, una abitazione, l’assistenza sanitaria,  l’istruzione e la   possibilità di crescita umana e sociale, risponderebbero  a questi principi.

Nel nostro Paese, una prospettiva di questo tipo è ancora molto lontana.  Le strutture per il collocamento e la riqualificazione dei disoccupati sembrano servire più sé stesse che i destinatari del loro servizi. Quasi 7 miliardi l’anno vengono spesi dal nostro Stato in corsi di formazione generici, che servono più ad occupare  formatori che lavoratori. E da una ricerca risulta che contro un dollaro investito in Italia per le nuove imprese (start up) se ne investono 18 in Germania e 84 in USA. Non mancano gli esempi positivi, come la recente organizzazione Fondimpresa, nella  quale  sindacati e  associazioni imprenditoriali collaborano per offrire alle imprese servizi formativi mirati. Ma questa sembra una eccezione (per fortuna in grande sviluppo) in ciò che dovrebbe essere una regola universale. C’è un grande “tiraggio” per l’occupazione da parte di nuove imprese in crescita e di persone desiderose di realizzarsi, ma in una cappa piena di ostruzioni. 

In questo quadro, gli investimenti pubblici costituiscono sicuramente una componente importante, ma non determinante per la soluzione dei problemi occupazionali, come è stato dimostrato dalla insufficienza delle   politiche keynesiane nel New Deal americano degli anni trenta. Inoltre, oggi la situazione è ben diversa a  causa degli ingenti debiti pubblici. E se paesi come la Germania possono (e dovrebbero) aumentare la spesa pubblica, paesi come l’Italia debbono operare sulla qualità, piuttosto che sulla quantità, della spesa (la chiacchierata  spending review).

Non vorrei dimenticare un argomento che ho già trattato in un precedente articolo dal titolo “Lavorare tutti, lavorare meno. Vale ancora?”, ma che, non diversamente dalla tassazione sulle rendite e le speculazioni finanziarie, richiede di essere affrontato soprattutto a livello globale (anche se ci sono paesi, come la Germania, che hanno già da soli ottenuto buoni risultati): gli orari di lavoro nelle imprese. Proprio perché il progresso tecnologico consente continuamente di fare di più con meno, appare insensato che nelle imprese di tutto il mondo gli orari di lavoro non diminuiscano più (come avvenuto nel secolo scorso rispetto allo ‘800), ma anzi tendano ad aumentare a causa di una competizione senza regole. Che mentre da una parte gli orari di lavoro diventano sempre più degradanti, dall’altra aumentino le schiere di disoccupati. Che la produzione di oggetti  all’avanguardia della tecnologia, come  gli i-Pad della Apple, venga affidata ad  aziende cinesi che praticano orari privi di ogni regola. 

Il Wuppertal Institut, in uno studio sul “Futuro sostenibile”  (Edizioni Ambiente, 2011), ha prospettato  la possibilità di limitare a 30 ore gli orari di lavoro retribuito. E il tanto citato al giorno d’oggi, anche a sproposito, John M. Keynes, in un prezioso libretto dal titolo “Possibilità economiche per i nostri nipoti” ( Adelphi, 2009), immaginava nel 1931 una società futura in cui il lavoro dipendente, necessario per vivere,  non superasse le 15 ore settimanali: tre al giorno, per cinque giorni settimanali! Il resto da dedicare alla famiglia, alla creatività personale, allo svago, all’ozio.  E cosa propone l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Agenzia dell’ONU? Non mi risulta nulla, non risponde alle domande.

Così come è stata proclamata a suo tempo la condanna del lavoro minorile, occorre che venga sancito  a livello globale il divieto di superare livelli decrescenti degli orari di lavoro dipendente, come lesivi della dignità umana.

 

 

 

 

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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