Dossier: Vecchie povertà, nuovi mestieri. Le iniziative del governo Letta, il reddito minimo e i messaggi di Papa Bergoglio
Il
programma dell’attuale governo per promuovere l’occupazione si presenta come un insieme organico di interventi. Queste le azioni previste: 1. Agevolazioni per le imprese che assumono giovani; 2. Semplificazioni per la auto-imprenditorialità; 3. Incentivi alla cooperazione nel campo dei beni culturali e dei servizi alle persone; 4. Stage e tirocini per contrastare il fenomeno dei “NEET” (Not in Education, Employment, Training); 5. Contrasto alla povertà con l’estensione della “Social Card”.
Mi sembra importante che nel programma sia incluso l’intervento contro la povertà. Tuttavia siamo ben lontani dalla realizzazione non tanto di un “salario di cittadinanza”, il cui costo sarebbe proibitivo, quanto almeno di un reddito minimo, che secondo alcuni si potrebbe finalmente realizzare (vedi la Voce 14/06/13, M. Baldini, “Un reddito minimo è possibile”).
Ma la sfida decisiva sta nel contrasto alla situazione dei NEET, e più in generale di coloro che non hanno un lavoro o l’hanno perso. Nel come mettersi al loro fianco per aiutarli a trovare o ritrovare la propria strada nella vita.
Purtroppo questo è proprio il punto debole del nostro sistema. Nella visione burocratico-corporativa ancora dominante, ahimè anche con il contributo dei sindacati, gli uffici del lavoro e i centri di formazione tendono più ad assicurare l’occupazione degli addetti al collocamento e dei formatori che ad assistere i destinatari dei loro servizi. E quando si interviene, come fanno i sindacati, a favore dei lavoratori minacciati di licenziamento, da una parte si difendono i posti di lavoro di imprese senza futuro (vedi le miniere del Sulcis in Sardegna), dall’altra ci si pone il problema, certamente urgente, di reperire risorse per dare di che vivere a chi, disoccupato, è a rischio o già in condizione di povertà. Ma come se la povertà e la disoccupazione fossero uno status permanente, irrimediabile.
Al contrario, la disoccupazione e la povertà che ne deriva dovrebbero essere considerati come una condizione provvisoria, da rimuovere con tutti i mezzi. E questo si fa con la politica attiva del lavoro, che da noi lascia molto a desiderare.
In una intervista concessa lo scorso 10 giugno al Corriere della Sera, la Ministra del lavoro tedesca Ursula von der Leyden ha fatto rilevare che “la Germania 10 anni fa era il malato d’Europa con 5 milioni di disoccupati. La riforma (che ha portato all’avanguardia la Germania nella lotta alla disoccupazione, n.d.r.) si è basata su due pilastri: ha reso più flessibile un mercato del lavoro molto rigido, e ha rivoluzionato il sistema dei servizi all‘impiego. A chi è disoccupato per prima cosa offriamo un lavoro o un corso di formazione, in passato c’era solo il sussidio. Il personale dei servizi all’impiego è tenuto ad eliminare gli ostacoli che ci sono tra la persona disoccupata e il posto di lavoro. Per esempio, i genitori possono ricevere assistenza per i figli piccoli. Dal primo agosto entrerà in vigore una legge che garantisce un posto all’asilo a tutti i bambini di almeno un anno di età”. La riforma fu realizzata da un governo socialdemocratico (Schroeder) e proseguita dai successivi.
Ora, l’Unione Europea ha lanciato un piano denominato “Youth Guarantee”, che obbligherà ogni stato dell’Unione ad “una offerta qualitativamente valida di lavoro (si noti il “qualitativamente valida”, n.d.r.), di proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio” entro quattro mesi dall’uscita di un giovane dal sistema di istruzione o dalla perdita di un impiego. Non è una cosa nuova: esiste già in paesi come Germania, Austria, Olanda, Polonia e ha dato buoni risultati (vedi la Voce, 11 giugno scorso, F. Giubileo, F. Pastore: “Una garanzia europea per i giovani”).
Ma per attuarlo da noi occorrerà potenziare molto, sul piano sia qualitativo che quantitativo, i centri per l’impiego, coinvolgendo anche nel programma le diverse strutture private (società di lavoro interinale, di consulenza, di selezione, associazioni di categoria, eccetera). Impresa impossibile nel breve termine.
E’ interessante notare che in Germania, sempre secondo quanto ha dichiarato la Ministra nell’intervista citata, c’è uno “skill shortage”, cioè una domanda insoddisfatta da parte delle imprese di lavoratori con competenze specifiche, di ben un milione di posti di lavoro. E secondo la Intervistatrice, Giuliana Ferraino, anche per l’Italia è stato calcolato un dato analogo pari a mezzo milione di posti di lavoro. Insomma, in un quadro generale di alta disoccupazione, vi sono numerose imprese in crescita che vorrebbero o potrebbero assumere, ma non trovano persone dotate delle necessarie conoscenze e competenze.
Partendo da questi dati, si potrebbe innescare una vasta attività di formazione mirata, capace di creare una occupazione ampia e personalizzata.
Un modello da prendere come esempio è la società Fondimpresa (che ho già citato in un mio precedente articolo), frutto di un accordo tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL, che offre alle imprese la possibilità di fare corsi di formazione per i propri dipendenti. A questo accordo hanno aderito oltre 140 mila imprese, di cui il 90% piccole e medie, che occupano 4 milioni di lavoratori, la metà dei quali ha usufruito di attività formative dal 2007 ad oggi. Fondimpresa interviene per i lavoratori già occupati. Ma la formula potrebbe ben essere estesa a giovani appena usciti dalla istruzione istituzionale e in generale a tutti i disoccupati, integrando il loro bagaglio culturale con le competenze richieste dalle imprese in crescita. Questa proposta è inclusa nel progetto di riforma del mercato del lavoro di Pietro Ichino, che però è stato criticato perché, applicato ai cassaintegrati, formalizza senza veli la perdita del lavoro precedente.
Nello stesso tempo occorre agevolare il più possibile le iniziative imprenditoriali (ad esempio assistendo gli aspiranti imprenditori nella elaborazione di business plan per verificare la validità delle loro idee d’impresa, cosa che ho sperimentato personalmente in una lunga e bella esperienza professionale).
Nell’affrontare il problema della disoccupazione e della povertà che ne deriva, occorre pensare ai cittadini di ogni età, e non solo ai giovani. Certo, i giovani sono il futuro della società, che non può sopravvivere senza la loro energia creativa. Ma altrettanto grave è la perdita dell’apporto di chi, a causa delle innovazioni tecnologiche e organizzative (la famosa “distruzione creativa” di schumpeteriana memoria), rischia di precipitare, insieme alla propria famiglia a uno stato di povertà.
Un’ultima riflessione. Da pochi mesi habemus papam che ha scelto, per la prima volta nella storia della Chiesa, di prendere il nome di Francesco. Cioè di quel santo che aveva eretto la povertà come sistema di vita.
Il nuovo papa ha voluto sin dall’inizio testimoniare il senso di questa scelta, sia con un deciso taglio di rituali dispendiosi, sia con interventi più incisivi, come quello che sembra aver avviato con la riforma dello IOR, la banca del Vaticano.
Ebbene: la povertà, nel messaggio del papa come del santo di cui ha preso il nome, si presenta come un valore da perseguire, e non come il più grave tra i problemi dell’umanità.
In una traduzione terrena e attuale di questa visione, la povertà potrebbe essere accostata alle finalità di chi auspica quella “decrescita felice” teorizzata da Serge Latouche: una società anti-consumistica, sostanzialmente frugale, compatibile con la sopravvivenza dell’ecosistema.
Come conciliare questa visione della povertà come valore, con quella della povertà come dramma dell’umanità, e in particolare di chi non trova o perde il lavoro?
Io credo che il punto d’incontro si trovi nel concetto di libertà. Chi persegue la povertà come valore non intende certo uno stato di inedia, di mancanza di un tetto, dell’impossibilità di curarsi, e tanto meno di non poter crescere culturalmente e spiritualmente. Intende proprio i “poveri in spirito” del Discorso della Montagna: quelli che fanno della sobrietà la propria regola di vita.
E d’altra parte, cosa comporta la lotta contro la povertà come problema umanitario? Comporta proprio il far sì che tutti gli uomini possano nutrirsi, avere una casa, combattere le malattie, e crescere culturalmente. In sostanza, che vedano garantiti quei diritti (secondo una Human, e non solo Youth Garantee!) che l’economista Amartya Sen considera come precondizioni per l’esercizio della libertà.