Dossier: Vecchie povertà, nuovi mestieri. Come i massimi sistemi generano indigenze: la cura economica provoca la malattia, da Francoforte al tinello di casa
Narra la Banca d’Italia: «Tra il 2007 e il 2012 il PIL è diminuito complessivamente di 7 punti percentuali in termini reali. La produzione industriale è diminuita del 25%» (fonte: analisi dei prestiti deteriorati). Ma va, non ce ne eravamo accorti, tra disoccupati, operai sui tetti e proteste varie.
In soldoni, le cifre attestano l’impoverimento netto di una nazione, in perfetta continuità con quanto sta accadendo in Portogallo, Spagna, Grecia e (in parte) Irlanda. No, non si tratta di filosofia ma di dolore reale. Questa volta è l’Istat a parlare con il suo report “La povertà in Italia”: «Nel 2012, il 12,7% delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 3 milioni 232 mila) e il 6,8% lo è in termini assoluti (1 milione 725 mila). Le persone in povertà relativa sono il 15,8% della popolazione (9 milioni 563 mila), quelle in povertà assoluta l’8% (4 milioni 814 mila)».
Verrebbe da dire su due piedi: amen (nel senso proprio di estrema unzione), considerato che “relativamente povero” significa tirare avanti con 990,88 euro al mese per una famiglia di due componenti. La povertà aumenta dovunque, con valori percentuali come sempre più elevati a Sud ma incidenze relative di aumento più marcate a Nord.
In valore assoluto, in un solo anno, si tratta di 450mila famiglie in più nell’area di poverta relativa e 428mila in più in quella di poverta assoluta.
Se questo è il desolante quadro della situazione, è necessario interrogarsi sulle ragioni del fenomeno tenuto conto che negli ultimi anni non sono mancati i “sacrifici” volti a raddrizzare la barra economica nazionale con manovre di bilancio, tagli di spesa e contemporanee nuove tasse proprio nella prospettiva di generare le condizioni di una crescita duratura e di un conseguente maggiore benessere.
Se si guarda ai numeri, è di tutta evidenza che la cura somministrata è inefficace. Nel 2007 il rapporto debito/PIL era pari al 103,6%. Dopo mille manovre, nel 2013 chiuderà al 130,30%. Banalmente, vuol dire che tutti gli sforzi profusi, le lacrime e sangue, le energie spese non sono servite a nulla di nulla. Anzi, come colui che cade nelle sabbie mobili, ci siamo dimenati tanto da peggiorare la situazione. Con o senza Berlusconi, con o senza governi tecnici, a prescindere da sinistra e destra: non un povero è stato tratto fuori dalla sua condizione ma altri ne sono stati generati.
È la stessa cura ad essere generatrice del male (il giornalista Paolo Barnard, che da tempo si occupa di informazione macroeconomica animando insieme ad altri il sito memmt.info, la chiama “chemioeconomia”). La dinamica involutiva è chiarissima e può essere volgarizzata così: io Stato ti do 100 e ti chiedo 120, perchè con quei 20 addizionali (avanzo primario, ossia surplus di bilancio al netto del pagamento degli interessi) costruisco la provvista per diminuire il mio stock di debito e dunque liberare risorse future per la popolazione. Peccato che, così facendo, la popolazione possa contare su minore capacità di spesa personale, che vuol dire minori consumi, che vuol dire meno lavoro, che vuol dire meno gettito fiscale e un incasso non di 120. Pertanto il debito rispetto al PIL aumenta lo stesso e lo Stato chiede ora 130, di conseguenza la popolazione diminuisce ancora il proprio tenore di vita (del resto non potrebbe fare altrimenti), provocando un gettito fiscale inferiore alle attese e via di questo passo. Si chiama spirale negativa al collasso, è quella che stiamo vivendo , è quella che ottusamente i vari governi succedutisi stanno perseguendo senza distinzione alcuna di colore (ammesso che il colore conti ancora qualcosa).
La conseguenza ultima è il già citato impoverimento netto, che si traduce in povertà dei singoli. Altre prove vengono dall’indice dei salari unitari reali (ossia al netto dell’inflazione). Se poniamo il salario reale medio del 2005 uguale a 100, nel 2012 siamo già scesi ad valore di 95,9. Ossia siamo tornati ai valori del 1990 [analisi tratta dal sito memmt.info da un articolo a firma di Daniele Della Bona]:
Se preferite i grafici alle tabelle (la fonte è sempre l’analisi di Dalla Bona), il risultato è altrettanto impressionante: a partire dall’introduzione dell’euro, i salari reali italiani diminuiscono (da notare che in Germania, nonostante la crescita economica, la dinamica salariale disegna un trend poco più che piatto: anche lì c’è qualche problema di fondo).
In altre parole, da quando si è iniziato a sposare un certo approccio economico, il potere di acquisto dei lavoratori italiani è diminuito, arrivando al collasso quanto più si stringevano le maglie con manovre correttive e governi sobriamente tecnici. Ovviamente, ne ha drasticamente risentito anche la storica capacità di risparmio delle famiglie italiane (intesa come reddito lordo meno le spese per consumi finali espresso in termini percentuali). Ecco quanto certificato dall’Istat:
I numeri, incontrovertibili, sono questi e certificano un quadro che vede meno soldi in circolo, meno capacità di risparmio, impoverimento generale. La domanda pertanto sorge spontanea e suona blasfema nell’attuale ortodossia di approccio: se tutte le evidenze dicono che con le attuali ricette economiche la situazione peggiora e non migliora, vorrà forse dire che è una grande cazzata affermare che il bilancio di uno Stato è come quello di un’azienda e deve essere in attivo o almeno in pareggio? Vorrà forse dire, se si fanno girare gli ingranaggi della logica, che il debito dello Stato (ben speso, ben investito, ben gestito) è la condizione per creare ricchezza e trasferirla ai cittadini (a meno di voler credere che tutti e 18 i paesi aderenti all’euro possano diventare per magia esportatori netti) ed è controproducente accanirsi nel volerlo abbattere?
Chiosa finale: se tutto va male (per privati cittadini, aziende nazionali, entrate dello Stato) a chi giova una situazione del genere? A voler essere cinici e guardare solo al dato finanziario immediato, giova a chi può spostare capitali con facilità da una nazione all’altra, a chi ha necessità di contenere i salari per produrre a prezzi inferiori e poi esportare, a chi vuole acquistare asset a prezzi inferiori. L’identikit disegna profili ben netti e ognuno lo associ a chi crede.
Per aiutare un po' l'associazione dell'identikit a nomi, cose e istituzioni, è significativo leggere questa fantastica prosa di Jp Morgan tratta da una analisi del 28 maggio scorso (pagina 12) e riferita ai paesi del Sud Europa: «The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that left wing parties gained after the defeat of fascism […] constitutional protection of labor rights […] the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo». Ma sì, è colpa dei diritti costituzionali se la crescita economica è debole.
A seguire i consigli di JP Morgan (e della BCE e dell’FMI), si finisce come in Grecia dove, nel 2013, il salario minimo legale è stato abbassato da 586 euro lordi mensili a 490 (427 se hai da 15 a 24 anni) e le istituzioni europee suggeriscono di abbassarlo ancora a 350 euro introducendo il “posto di lavoro di base” con minori tutele e finalità di stimolo economico. Avete letto bene: si scrive “stimolo economico” e si legge “omicidio di una nazione”. La parabola italiana è la stessa, purtroppo.