Dossier. Startup, green economy, innovazione. Dalla cooperativa dei soci dell'Unità all'intervista a Maurizio Laini sul rapporto fra sindacato e nuove imprese innovative
Nei primi anni 80 ebbi la ventura di lavorare, fianco a fianco, con Paolo Volponi, grande scrittore, amico di Pier Paolo Pasolini, stimato da Adriano Olivetti che lo fece dirigente con incarichi molto speciali. Con l’esperienza accumulata nella fabbrica di Ivrea si guadagnò successivamente un posto di consulente dello staff dirigenziale della Fiat di Corso Marconi a Torino, lo staff di Gianni Agnelli. E fu nominato presidente della Fondazione che porta il nome della famiglia dell’Avvocato. Allora, negli anni ’80, Paolo era senatore, eletto come indipendente nelle file del Pci. Era un parlamentare, frustrato e molto insoddisfatto. Ma pur sempre un personaggio straordinario. L’Unità aveva grossi problemi di bilancio (e quando mai non li ha avuti!): aveva bisogno di quattrini ma anche di innovazione societaria. L’azienda, sotto la frusta delle necessità politiche, considerate ogni qualvolta irrinunciabili, era diventata una fabbrica di debiti. Bisognava trovare gli uni e mettere un freno agli altri. A Paolo Volponi venne l’idea di portare i lettori nel consiglio di amministrazione della Spa editrice de l’Unità. Lo fece inventando la cooperativa di soci de l’Unità, fatta di lettori e sottoscrittori di quote sociali. E così la cooperativa entrò nel capitale dell’Editoriale. Sede a Bologna. Un paio di dipendenti, un gruppo dirigente qualificato, ben rappresentato nel cda. Un organismo, quest’ultimo, che si era dimostrato, fino ad allora, troppo arrendevole nei confronti di una direzione politica, forte e autorevole, diretta emanazione del vertice del Partito.
La coop dei 25 mila e passa soci de l’Unità avrebbe dovuto esercitare, come azionista di minoranza, un ruolo di cane da guardia, capace di controllare i conti e di dire dei no, contribuire a decidere quel che si poteva fare e respingere quello che era troppo costoso da realizzare. Il momento non era dei più facili. Era assolutamente necessario che qualcuno ricordasse a tutti i settori del giornale le difficoltà del momento e soprattutto che certe decisioni si sarebbero dovute prendere dopo averci pensato bene, non una ma dieci volte. Non che a l’Unità si buttassero i denari dalla finestra, anzi, il giornale come si diceva pagava male, ma certe pensate della direzione politica (ad esempio, l’ apertura di costosissimi uffici di corrispondenza all’estero) si sarebbero dovute mettere perlomeno sotto controllo. Come è andata a finire l’abbiamo tutti sotto gli occhi. E non è stato uno spettacolo esaltante.
Perché questo ricordo ? Perché quella ideuzza di Paolo Volponi avrebbe potuto essere definita, con la terminologia in uso oggi, una startup, relativa al mondo editoriale della sinistra del tempo. Se allora l’avessimo chiamata in questo modo, ci avrebbero presi per matti. Ma quella era innovazione pura, che avrebbe potuto dare anche occupazione. Di lavoro da fare ce n’era e non poco.
Ma tralasciamo i ricordi e veniamo all’oggi. La Brianza sta diventando un cimitero di fabbriche, le chiusure e i licenziamenti sono cronaca quotidiana. Monza — ci dice il segretario della Camera del Lavoro, Maurizio Laini, che abbiamo intervistato per il dossier di Vorrei — è stata quasi completamente deindustrializzata, ormai Ospedale San Gerardo e Comune sono le maggiori fabbriche esistenti. Tanta cassa integrazione e tanti disoccupati. I giovani soprattutto non trovano lavoro. Altro che Brianza felix!
Le startup, che sono le operazioni necessarie per l’avvio di nuove imprese — teoricamente operanti in tutti i settori della economia, agricoltura e servizi compresi — godono di fonti di finanziamento che la Regione e in piccola parte la Provincia mettono a disposizione, attraverso la Camera di Commercio, a condizione che siano presentati dei progetti. Ovviamente seri. La fuffa è senza speranza.
Il sindacato come guarda queste novità?
Con grande interesse. La nostra realtà industriale, di grande e piccole dimensioni, ha essenzialmente bisogno di innovazione e di dare lavoro. Le startup aprono una porta in questa direzione, rappresentano una scommessa, hanno un valore straordinariamente alto. Ma solo una su cinque ce la fa, dice chi le segue con molta attenzione. Non importa, anche quell’uno è importante perché è tutta innovazione. Le nostre aziende in generale sono organizzativamente molto rigide. E le startup potrebbero diventare fonte di idee nuove anche per loro.
Quindi la Cgil è interessata ad avere rapporti anche con questa realtà.
Certamente, avere rapporti con iniziative di alto contenuto tecnologico, con professionalità eccellenti è sempre utile e per noi anche necessario. Ma guai a montarsi la testa. Le startup sono dei semi che nel tempo possono dare ottimi e insperati frutti. In direzione della innovazione, della quale siamo affamati. Potrebbero persino diventare delle microimprese al servizio di grandi imprese.
Ci sono prospettive di sviluppo di un sistema di startup?
Secondo me ci sono. Se due startup riescono e otto falliscono è già un buon risultato. La questione vera è rappresentata da chi ha il compito di esaminare i progetti e di erogare quindi i relativi finanziamenti. Avrà questa commissione la competenza necessaria per giudicare le diverse proposte, alcune delle quali non saranno di semplice lettura? E sarà convenientemente impermeabilizzata dalle raccomandazioni? Io mi auguro che dalle startup, che sono sinonimo di bello, pulito e giovane, arrivi un serio aiuto al sistema delle aziende della nostra provincia “.