A giugno la Banca d’Italia ha pubblicato “Economie Regionali. L’economia della Lombardia”. Ecco che cosa contiene
Ho già osservato qualche tempo fa che noi italiani (ma probabilmente non solo noi) siamo portati a generalizzare fatti specifici (a fare “salti d’inferenza”, per usare l’espressione delle scienze cognitive), concludendo affrettatamente, ad esempio, che se un albanese ha commesso un delitto tutti gli albanesi sono da evitare.
Ma c’è un’altra caratteristica che credo ci contraddistingua maggiormente: quella di ragionare e di vivere nel breve termine, convinti che serva poco lanciare lo sguardo più lontano, sia all’indietro che nel futuro. Il famoso verso di Orazio: “Carpe diem, quam minimum credula postero” (afferra il giorno, credi il meno possibile nel futuro) si addice particolarmente a noi italiani. Combinato con la furbizia di ritenere, a volte a ragione ma per lo più a torto, di essere capaci di sorpassare tutti con uno sprint all’ultima curva.
Se così è, faccio eccezione: mi interessano più le tendenze di lungo termine che i fatti specifici e immediati. Pago lo scotto di essere considerato “un teorico”, per non dire uno fuori dal mondo.
In questo spirito ho letto l’importante studio dal titolo “Economie Regionali. L’economia della Lombardia” prodotto nel giugno scorso dalla Banca d’Italia, nell’ambito di un insieme di ricerche a dimensione europea (Eurosistema).
E naturalmente mi sono soffermato soprattuto sul paragrafo dal titolo “Le modifiche strutturali dell’economia lombarda negli anni duemila”, in cui si confronta la situazione della Lombardia al 2011 rispetto a quella del 2001. I dati degli ultimi anni considerati riflettono quindi almeno in parte gli effetti della crisi economica ed occupazionale in atto.
Il primo dato interessante riguarda il numero degli addetti alle unità locali delle imprese e delle istituzioni: essi sono aumentati nei dieci anni di circa il 3%, toccando i 4 milioni.
Questo dato è la risultante di un aumento degli addetti nei servizi privati contro una diminuzione di quelli nei comparti manifatturieri e delle istituzioni pubbliche.
E’ interessante notare che le istituzioni hanno perso circa 50 mila addetti nel decennio. Il che peraltro non significa tanto uno snellimento delle pubbliche amministrazioni o una diminuzione delle prestazioni, quanto una tendenza a una privatizzazione di tali servizi (ad esempio nella sanità).
Segnala poi il rapporto: “Tra il 2001 e il 2011 il peso della manifattura sul totale degli addetti lombardi è calato dal 30,6% al 23,5%”. Ciononostante gli addetti alla manifattura in Lombardia superano ancora di ben 12 punti percentuali (24,1% contro il 12,6%) quelli di un campione di regioni europee confrontabili con la nostra regione. Due dati importanti: 1. Gli addetti ai i comparti a contenuto tecnologico medio-alto sono aumentati, quelli a contenuto tecnologico medio-basso hanno perso ben un quarto degli addetti. 2. La percentuale di addetti ai comparti a contenuto tecnologico medio-alto della Lombardia non è inferiore a quella delle regioni europee di confronto. Spiccano gli addetti ai prodotti metallici e meccanici (ad esclusione dei mezzi di trasporto, per i quali la nostra regione è di gran lunga al di sotto di quelle europee). Resta importante in Lombardia il tessile-abbigliamento, ormai quasi sparito nelle altre regioni europee considerate. Se mai, può essere discutibile che il TA attuale, differenziato e sofisticato, sia ancora considerato un settore a basso contenuto tecnologico.
Il ridimensionamento delle attività industriali (di cui la manifattura è la maggior parte) è proseguito negli ultimi anni: la produzione industriale è scesa ancora dell’11% tra il 2007 e il 2013. Ciononostante è aumentata nei settori alimentare (3,4%) e in quello chimico-farmaceutico (1,7%).
Non vi sono purtroppo analisi di medio-lungo periodo sulla composizione dei servizi (alle persone, alle imprese, del commercio, dei servizi pubblici) , che comunque continuano ad aumentare complessivamente rispetto alle attività industriali.
In questo ambito sarebbe molto importante conoscere l’andamento dei servizi alle imprese, e in particolare del terziario innovativo (informatica, consulenza direzionale, ingegneria, marketing, pubblicità). L’indagine rileva solo, per questo comparto “un proseguimento nel 2013 della ripresa iniziata nel 2012, pur con elementi di incertezza”.
Un paragrafo del rapporto è specificamente dedicato all’high-tech e all’innovazione, con particolare riguardo alle biotecnologie. La Lombardia è prima tra le regioni italiane nella domanda di brevetti internazionali biotech, occupando la 22esima posizione su 329 territori censiti nell’UE, con l‘1,3% del totale. Certo, occorre rilevare che ben il 21% delle domande di brevetti biotech dell’UE è stato presentato da tre soli territori: l’Ile de France (Parigi), Copenhagen e Monaco di Baviera.
Interessanti sono anche i dati sugli scambi con l’estero. “Dopo la forte contrazione subita nel 2009, il valore dell’export regionale è cresciuto complessivamente del 31,4% tra il 2009 e il 2013 superando, nel 2013, del 3,8% i livelli raggiunti nel 2008”. Il contributo maggiore a questo successo è stato dato dal settore farmaceutico (21% in più dal 2008 e il 2013) e dal made in Italy, che include il settore del mobile, specifico della Brianza, aumentato del 4%.
Anche per l’esportazione di servizi ci sono buone notizie. Nel 2013 si è verificato un aumento dell’8% rispetto al 2012, “proseguendo il trend positivo in atto dal 2009” e superando il livello dei servizi importati.
Sempre nell’ambito degli scambi con l’estero, è interessante la bilancia degli investimenti. “Gli operatori lombardi hanno complessivamente investito all’estero 24,1 miliardi; gli stranieri hanno disinvestito dalla Lombardia 1,3 miliardi”. Siccome non ho una visione mercantilista (secondo cui esportare è bello, importare è brutto), vecchia di tre secoli ma dura a morire, credo che sarebbe meglio che i due dati si mantenessero su un equilibrio dinamico. E cioè, che gli stranieri investissero di più in Lombardia. Più in generale, credo che sarebbe meglio sorvegliare e perseguire questo equilibrio anche a livello nazionale, piuttosto che stracciarsi le vesti per singole operazioni (acquisti di nostre imprese da parte di gruppi stranieri, nostre delocalizzazioni), con pericolose tentazioni protezionistiche.
Il rapporto dedica un interessante paragrafo all’istruzione universitaria. Da esso risulta che “gli immatricolati 18-20enni (che rappresentavano nell’anno accademico 2012-2013 quasi il 90% del totale), sono aumentati del 2,7% tra il 2003-04 e il 2012-13”, segnando però una diminuzione negli ultimi quattro anni. “Il calo delle immatricolazioni negli ultimi anni in Lombardia e, in maniera più accentuata, in tutto il Paese non trova riscontro nei principali paesi avanzati, nei quali gli immatricolati sono aumentati proprio in corrispondenza agli anni di crisi”.
Il sistema universitario lombardo è riconosciuto come di altro livello. Ma in particolare mi sembrano da segnalare le migliori prestazioni degli atenei lombardi per quanto riguarda la “terza missione” (rispetto alle prime due: didattica e ricerca), che consiste “nelle attività di valorizzazione e di impiego della conoscenza per contribuire allo sviluppo della società”, tra cui il trasferimento dei risultati delle ricerche universitarie ai settori produttivi.
Occorre rilevare che questa superiorità è rispetto alle altre università italiane. Sarebbe più utile un confronto a livello internazionale.
In complesso, gli indicatori mostrano una Lombardia che ha resistito alla lunga crisi più del resto d’Italia. Il calo del Prodotto Interno Lordo (PIL), pur superiore al 5% tra il 2008 e il 2013, è stato più contenuto rispetto al resto d’Italia. La disoccupazione è giunta all‘8,1%, rispetto al 12,2% nazionale. Ma credo che sia difficile essere lieti in un contesto di sofferenza, come denunciano gli ultimi dati sulla povertà, anche dal freddo punto di vista economico: senza la domanda nazionale di prodotti e servizi, anche per la Lombardia l futuro non è roseo.
In conclusione, il rapporto presenta un quadro di luci ed ombre. La riduzione degli addetti alle attività industriali rispetto ai servizi è fisiologica, dati i progressi tecnologici in atto. Progressi che oramai incidono fortemente anche sui servizi (banche, grande distribuzione, pubblica amministrazione, eccetera) fatta eccezione per i servizi alle persone.
In questa situazione, e centrando l’attenzione soprattutto sui problemi occupazionali del futuro, sembra auspicabile una azione pubblica che favorisca la formazione superiore e universitaria, invertendo la tendenza attuale, orientandola verso le attività che mostrano maggiori prospettive di sviluppo.
Il rapporto non include purtroppo una valutazione degli investimenti nelle infrastrutture e della loro evoluzione negli anni passati (in particolare nelle reti, da quelle ferroviarie a quelle telematiche). E' l'area nella quale l'intervento pubblico può maggiormente influire sullo sviluppo.
Per non appesantire la lettura, ho trascurato tutta la parte finanziaria del rapporto. Sicuramente, una migliore gestione del credito potrebbe favorire il rilancio dell’economia regionale. Ma è da rilevare che anche le imprese lombarde presentano una carenza di mezzi propri rispetto a quelli bancari (meno di un terzo) che ne riduce la redditività e la solidità. Una migliore combinazione di imprenditorialità (cioè di propensione al rischio) e redditività degli impieghi produttivi sarebbe auspicabile, e da favorire.
Un breve accenno finale alla situazione della provincia di Monza-Brianza rispetto alle tendenze regionali. I settori manifatturieri nei quali MB è più rappresentata risultavano nel 2007 (ultimi dati disponibili) quelli della meccanica (44,3% del totale delle attività manifatturiere provinciali contro il 41,0% regionale), il legno e arredo (10,5% contro il 3,6%), la chimica-farmaceutica (l‘11,5% contro il 10,0%). Si tratta di settori che, anche grazie a profonde ristrutturazioni, prospettano notevoli prospettive di crescita.
Ultimamente, e anche a seguito di importanti modifiche strutturali, occupazionali e proprietarie del quadro produttivo italiano (Electrolux, Ducati, Lamborghini, Giugiaro...), è tornato in auge il tema universale degli orari di lavoro, in una nuova e più concreta considerazione del vecchio slogan del “lavorare meno per lavorare tutti”.
Una sorprendente intervista dell’irriducibile leader della Fiom, Maurizio Landini, ad Affari & Finanza de la Repubblica (30/06/2014), dimostra che una strada si è aperta, con quella prospettiva, anche nel nostro Paese. Orari vicini alle 30 ore settimanali, e anche meno, a parità di salario, sono la nuova realtà al di là delle ideologie. Ed è forse la strada decisiva per far fronte agli effetti dirompenti sull’occupazione del vorticoso progresso tecnologico.
Se sono rose fioriranno. Anche in Lombardia.