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 La causa principale del problema del lavoro sta nel progresso tecnologico. Assisteremo a una grande ulteriore contrazione del lavoro dipendente e a un grande aumento di attività indipendenti, più rispondenti alle vocazioni delle singole persone, al limite tra lavoro e svago

 

Il problema del lavoro e dell'occupazione è sempre di più al vertice delle preoccupazioni dei governi perché, al di là delle ragioni umanitarie, se ne temono i contraccolpi sulla coesione sociale  e sulla stabilità delle istituzioni. Ma esso viene per lo più affrontato in modo disorganico, da soggetti e con interventi slegati l'uno dall'altro. E prevalentemente a livello locale. Si tratta invece di uno dei problemi più tipicamente "glocal", che dovrebbe essere affrontato congiuntamente a livello locale e globale, in modo sistemico.

Per molti versi la possibilità, per gli esseri umani, di svolgere una attività il più possibile coerente con le proprie vocazioni e tale da assicurargli condizioni di vita e di sviluppo personale sempre migliori è un problema pari, per importanza, a quello della tutela dell’ambiente e a quello della neoplasia finanziaria che tende a distruggere l’economia reale.

La causa principale del problema del lavoro sta nel progresso tecnologico

La causa principale del problema del lavoro sta nel progresso tecnologico, che ha consentito nel corso dei secoli, e in particolare tra l’otto e il novecento, di "fare di più con meno" in misura sempre crescente. Nel lungo termine, il progresso ha generato condizioni di vita migliori per un numero crescente di abitanti del pianeta. Ma paradossalmente, nel suo svolgersi, ha causato anche gravi squilibri e costi umani, che tuttora non cessano di verificarsi.

Già con l’inizio della prima rivoluzione industriale, a cavallo tra il XVII e il XIX secolo, il progresso tecnologico si svolse tra gravi scompensi. E’ dei primi dell'ottocento il movimento chiamato luddismo, dal nome del suo leggendario leader, Ned Ludd: esso incitava i lavoratori tessili rimasti senza lavoro e ridotti alla fame a distruggere i nuovi telai meccanici, colpevoli delle loro disgrazie. Ma anche negli anni trenta del novecento l’introduzione delle macchine agricole negli USA costrinse milioni di agricoltori ad emigrare dalle terre del Middle West verso il Far West. Il quale, in pochi decenni, è diventato uno degli stati più ricchi del pianeta: la California.

Nel corso dei secoli XIX e XX, e nonostante la crescita esponenziale della popolazione globale, le condizioni di vita di un numero crescente di esseri umani abitanti in vaste aree geografiche sono migliorate perché l’innovazione tecnologica, se da un parte distruggeva posti di lavoro, dall’altra partoriva nuove imprese che offrivano prodotti standard in grande quantità e a prezzi decrescenti, prodotti prima inesistenti o  riservati a pochi. Anche paesi come la Cina e l’India, dove nel passato la povertà e la fame sembravano endemiche, hanno conosciuto sul finire del novecento miglioramenti prima impensati nelle condizioni di vita e di lavoro.

Ma con il nuovo millennio,  la velocità delle innovazioni fa temere che la distruzione di posti di lavoro possa non essere compensata da una ulteriore moltiplicazione dei bisogni e dei prodotti, tali da generare nuova occupazione. L’Economist, giornale liberista portato a credere nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità e alla mano invisibile che in economia sistemerebbe sempre le cose, ha tuttavia riportato studi da cui risulta che il 47% delle attuali occupazioni sono ad alto rischio di sostituzione dalle macchine e dai dispositivi elettronici 1)

Il costo del lavoro in Germania è di 40 euro all’ora, contro 11 in Europa dell’Est e 10 in Cina

La Volkswagen, che si è sinora distinta per la scelta di non licenziare, facilitata peraltro dall’aumento di quote di mercato a scapito dei concorrenti, prevede di ridurre tra il 2015 e il 2030 il proprio personale di 32 mila unità, sostituendoli con robot. Horst Neumann, capo del personale dell’azienda, fa notare che “il costo del lavoro in Germania è di 40 euro all’ora, contro 11 in Europa dell’Est e 10 in Cina”, ma soprattutto che “il costo di un sostituto meccanico per le operazioni di routine è intorno ai 5 euro e presumibilmente ancor meno in futuro”. Aggiunta non irrilevante: “I robot libereranno i lavoratori delle attività più monotone e faticose”.

Ma al rischio di una crescente disoccupazione nel pianeta si aggiunge quello della contrazione delle retribuzioni per la maggior parte dei lavoratori. L'aumento della produttività causato dal progresso tecnologico, infatti, non può più essere frutto di un aumento del lavoro delle persone oltre i limiti fisiologici e della umana dignità. Può essere attribuito solo in parte alla crescita culturale dei lavoratori, legata peraltro al loro rapporto con strumenti tecnologicamente avanzati. L'aumento della produttività è ormai frutto della quantità e qualità degli investimenti e conseguentemente i relativi frutti economici vengono fatti propri dai detentori del capitale e dai suoi manovratori, i manager. Questo processo, insieme alla crescente disoccupazione, fa sì che le retribuzioni della maggior parte dei lavoratori subisca una forte pressione verso il basso. Per questa vicenda non ci sono più confini: da una parte le aziende trasferiscono le unità produttive nei paesi a basso costo di lavoro, dall’altra ingenti masse di persone migrano verso supposte terre promesse. Tornano così ad incombere il marxiano “esercito di riserva” dei lavoratori disoccupati e l'ottocentesca “legge bronzea dei salari”, mandata in soffitta nel novecento, secondo cui le retribuzioni tendono alla sola riproduzione della forza lavoro. Ai giorni nostri, la situazione dei lavoratori che non arrivano con il salario alla fine del mese .E’ così che il rapporto sopra citato dell’Economist conclude con l’ipotesi non certo attraente che “la crescita e l’innovazione assicureranno guadagni soddisfacenti alle persone istruite (e soprattutto detentrici di grandi risorse finanziarie, direi io), mentre gli altri resteranno legati ad impieghi precari e a salari stagnanti”.

Insomma, la prospettiva che miliardi di persone si ritrovino in futuro senza lavoro, e che chi lavora venga retribuito con un salario ridotto allo stretto necessario o addirittura insufficiente, è rilevante. E le iniziative per combatterla non possono essere svolte solo a livello locale, ma richiedono una azione a più livelli.

Le linee di un’azione di contrasto possono apparire relativamente semplici. Considerato che la prospettiva di poter lavorare a vita nella stessa azienda diventa un eccezione, la prima azione da svolgere è 1. il facilitare l’incontro tra i giovani che si affacciano al mercato del lavoro e i lavoratori espulsi dalle imprese che licenziano con le nuove imprese in crescita. Si tratterebbe inoltre 2. di garantire ovunque un salario minimo che assicuri non solo la sopravvivenza, ma anche lo sviluppo umano e culturale dei lavoratori e delle loro famiglie. Per contrastare la tendenza alla disuguaglianza, 3. si potranno agganciare le retribuzioni all’aumento della produttività delle imprese. Ma soprattutto, considerata la possibile eccedenza delle capacità produttive rispetto ai bisogni da soddisfare, si dovrà puntare 4. a ridurre drasticamente gli orari di lavoro a parità di retribuzione e comunque con il vincolo del salario minimo (“lavorare tutti, lavorare meno”). Sono questi sostanzialmente i punti riassunti nella espressione “flexsecurity”, o gestione attiva del mercato del lavoro. Il tutto, tuttavia, andrà inserito 5. in un sistema universale di “reddito minimo o di cittadinanza” (da non confondere con il salario minimo), che garantisca a chiunque si trovi in condizioni di disoccupazione prolungata, di insufficienza di reddito, di povertà, di ricevere dalle pubbliche istituzioni un sostegno economico totale o integrativo per consentire “a sé e alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa” (Costituzione Italiana, art. 36).

L’attuazione di un programma fondato su questi pilastri è tutt’altro che facile. Ma non impossibile, come dimostrano molti paesi, specialmente in Europa. Proviamo ad esaminarli.

1. Sistemi sofisticati di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e di accompagnamento dei lavoratori disoccupati verso un nuovo impiego sono in atto nei paesi del centro-nord europeo. Essi si basano su due azioni strettamente collegate: a) la conoscenza puntuale della domanda e dell’offerta di lavoro, e soprattutto della ricerca, spesso insoddisfatta, da parte di imprese in crescita di competenze adeguate; e b) la formazione, mirata e permanente, diretta ad accrescere vocazioni e competenze delle persone per metterle in grado di far fronte al continuo flusso innovativo. I paesi che sono riusciti a creare organizzazioni efficienti basate su questi criteri, come la Germania e l’Europa del nord, sono così riusciti a contenere la disoccupazione a livelli fisiologici.

2. In numerosi paesi esiste il salario minimo, fissato per legge o concordato in sede sindacale, anche se in misure estremamente diverse in relazione al potere d’acquisto, alla produttività e ai rapporti di potere: in Europa si va dai 1874 euro mensili del Lussemburgo ai 154 in Romania. In Bangladesh, dopo durissime battaglie sindacali, si è riusciti nel 2013 ad aumentare il salario orario minimo da 38 dollari a 68 dollari, con un aumento del 77%.

Sul piano globale la situazione è ben più drammatica: l’ILO, l’Agenzia dell’ONU che si occupa dei problemi del lavoro, della fame e delle migrazioni, calcola che nel 2013 oltre ottocento milioni di lavoratori, un quarto di quelli censiti a livello mondiale, vive con una retribuzione di meno di 2 dollari al giorno. E’ da notare che l’ILO è partecipata da 185 paesi del globo (sostanzialmente tutti), con le rappresentanze degli imprenditori e dei sindacati. Essa opera, oltre che redigendo rapporti sullo stato di fatto, emettendo, raccomandazioni e codici di condotta e stipulando convenzioni con singoli stati. Azioni che, tuttavia ed evidentemente, sembrano ancora inadeguate.

3. Meno diffuse, e comunque meno efficaci, sembrano essere le iniziative rivolte ad assicurare una più equa distribuzione del maggiore valore aggiunto generato dall’aumento della produttività nelle imprese, e comunque a contenere i crescenti divari tra i profitti e le compensi dei vertici aziendali da una parte, e le retribuzioni dei dipendenti meno pagati. Eppure molto si potrebbe fare in proposito, tenendo conto del fatto che l’ entità dei compensi economici non è l’unica motivazione che muove leader e innovatori, e che anzi, molto spesso, questa motivazione è in contrasto con gli interessi di un’azienda. E’ un problema che si inserisce peraltro in quello più vasto del sistema capitalistico attuale, nel quale la superfetazione delle attività finanziarie, oltre a soffocare l’economia reale, crea enormi diseguaglianze.

4. Orari di lavoro. E’ ormai abusata la citazione di quel passo dell’aurea conferenza tenuta da John M. Keynes nel 1931 2), dove prefigura per i suoi nipoti (i nostri figli e figli dei figli) un orario di lavoro di 15 ore settimanali, più che sufficienti per il conseguimento di una condizione di benessere. La citazione viene per lo più fatta per rilevarne la natura utopistica. E in effetti, I tentativi di fissare per legge un limite massimo di ore lavorative non sembrano avere avuto grande successo. Lo stesso slogan degli anni settanta del secolo scorso, “lavorare meno lavorare tutti”, è finito nel dimenticatoio.

Eppure, al di là del vincolo mummificato e alienante delle 40 ore settimanali, purtroppo tuttora frequentemente violato, i paesi più evoluti hanno compiuto importanti passi verso questa utopia. Negli ultimi cento anni la durata annua del lavoro in Europa si è quasi dimezzata, da 3000 a 1600 ore. E i paesi con la percentuale di persone occupate più alta (superiore al 70%) hanno conseguito orari di fatto inferiori alle 27 ore settimanali3. Molto meno degli orari di lavoro italiani, che secondo diverse valutazioni variano tra le 2000 e le 2200 ore annuali.

Ma contemporaneamente accade che l’azienda Foxconn, a Tapei (Taiwan), dove lavorano 600 mila dipendenti, le ore di lavoro extra-contratto, non pagate, arrivano a 80-100 al mese, per produrre tra l’altro gli iPhone di Apple. Gran parte dei giovani dipendenti aspirano per il futuro a un lavoro indipendente, come risulta da una sorprendente inchiesta ma pochi vi riescono. E il tasso di suicidi è a livelli allarmanti.

 

 

Tutto ciò fa veramente pensare che lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” da una parte sia tutt’altro che obsoleto, e tanto meno un’utopia, dall’altra rimosso. Ad esempio nel “Patto globale per l’occupazione” adottato dalla Conferenza internazionale promossa dall’ILO nel 2009, in 15 pagine di buone intenzioni per il rilancio dell’occupazione e di un “lavoro dignitoso”, non c’è una parola sugli orari di lavoro!4 5).

5. E veniamo al cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Ovunque, al giorno d’oggi, esistono pratiche per assistere le persone espulse dal mercato del lavoro e, più in generale, in condizioni di povertà. Ma molto spesso si tratta di iniziative caritatevoli, svolte da organizzazioni religiose o umanitarie, esemplari e preziose per alleviare le sofferenze dei miseri, ma non inquadrate in un sistema universale. Sarebbe auspicabile che la buona volontà di coloro che animano queste iniziative fosse integrata da istituzioni che, ai diversi livelli, trasformassero il maggior numero di persone indigenti da destinatari di atti pietosi in soggetti dotati di diritti e doveri e capaci di esercitarli.

In molti paesi europei istituti di questo tipo, che possiamo riassumere nel concetto di reddito di cittadinanza, sono già in qualche misura presenti. Ma se l’Unione Europea deve puntare a diventare una reale comunità politica di livello sovranazionale, dovrebbe avere come funzione principale quella di contrastare gli squilibri causati dalla libera iniziativa e dalle differenze di capacità e di potere tra i diversi paesi che la compongono. Nel difficile cammino verso questa visione, che le rinnovate cariche nelle istituzioni europee sembrano intenzionate a rilanciare, l’istituzione di un reddito di cittadinanza finanziato dall’Unione Europea, commisurato naturalmente ai diversi poteri d’acquisto, costituirebbe un passo di grande importanza. Esistono proposte in questo senso, che è auspicabile vengano tradotte presto in realtà. E perché non pensare a qualcosa di simile a livello globale, unificando e potenziando le diverse iniziative dell’ONU volte a contrastare la povertà? E’ ancora l’ILO ad essere chiamata in causa.

Ma nei paesi più progrediti, il reddito di cittadinanza è integrato da forme di assistenza volte ad assicurare ai meno abbienti la soddisfazione delle esigenze fondamentali: non solo un servizio sanitario universale, già sostanzialmente realizzato in questi paesi, ma anche la sicurezza di una casa e di una mensa e dell’istruzione per i figli. Anche da questo punto di vista, i livelli internazionali di governo dovrebbero fornite un apporto crescente. Infatti, come fa rilevare il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, il reddito è solo una aspetto dell’uguaglianza reale in termini di condizioni di vita dignitose e capaci di consentire la crescita personale 5).

Questo ci porta all’ultimo argomento di meditazione: cosa fa chi non lavora, o perché è fuori del mercato del lavoro o perché disoccupato; chi svolge un lavoro in nero o semplicemente non conteggiato dalle rilevazioni statistiche ufficiali; chi, pur lavorando in un lavoro dipendente, vede ridursi gli orari di lavoro e acquisisce quindi un numero crescente di “ore libere”? Mi sembra un terreno ancora poco esplorato, sicuramente destinato ad espandersi e a configurare nuove strutture del modo di lavorare universale. E’ stato calcolato che in Germania le ore libere sopravanzano ormai quelle del lavoro dipendente.

Non credo che, come accenna con humour tutto inglese Keynes nella conferenza sopra citata, “rischiamo un esaurimento nervoso, per usare il linguaggio dei nostri giorni (siamo nel 1928, n.d.r.)”, o il diffondersi, secondo un noto proverbio, dei vizi di cui l’ozio sarebbe il padre.

Credo piuttosto in una rivoluzione già in atto del modo di vivere e lavorare che non siamo ancora in grado di immaginare pienamente. Sicuramente assisteremo a una grande ulteriore contrazione del lavoro dipendente e a un grande aumento di attività indipendenti, più rispondenti alle vocazioni delle singole persone, al limite tra lavoro e svago, nelle quali la soddisfazione personale potrà generare o meno un reddito. I movimenti dei “makers”, cioè degli “artigiani tecnologici”, gli strumenti avveniristici come le stampanti 3D, sono gli antesignani di questo nuovo modo di lavorare e di vivere. Potremo assistere a un moltiplicarsi di start-up, che a loro volta potranno crescere fino a diventare delle multinazionali, ma con livelli di occupazione dipendente di gran lunga inferiori alle aziende del passato. Come osserva l’Economist, “quando Instagram, un popolare sito per la condivisione di foto, è stata venduta a Facebook per circa un milioni di dollari nel 2012, aveva 30 milioni di clienti e impiegava 13 persone. La Kodak, che aveva avanzato istanza di fallimento pochi mesi prima, nei suoi tempi migliori impiegava 145 mila persone”.

La stessa imprevedibilità può essere attribuita al futuro della domanda, e alla sua adeguatezza a stimolare o recepire l’offerta di beni e servizi, e a creare così occupazione. Quando in Italia fu liberalizzato il mercato della telefonia Telecom, il monopolista, investì somme ingenti per ricoprire l’Italia di cabine telefoniche, con lo scopo si acquisire un vantaggio competitivo inattaccabile dai futuri concorrenti. Ma queste cabine sono subito diventate microaree dismesse, mentre la telefonia mobile creava in modo inaspettato nuova domanda e nuova occupazione. Un domanda continuamente cangiante, stimolata dal progresso tecnologico, da una offerta sempre più innovatrice, diversificata e personalizzata, da un prevalere delle preferenze verso servizi intangibili piuttosto che verso il possesso di oggetti, potrebbe riservare sorprese positive per l’occupazione futura.

Quel che è certo è che occorrerà investire a tutti i livelli in cultura e solidarietà.

 

 

1 The Economist, “The onrushing wave”, Jan 18th 2014.

2 John M. Keynes: Possibilità economiche per i nostri nipoti, 2009, Adelphi ed., Milano.

3 Riprendo questi dati da Nicola Cacace, Redistribuire il lavoro: bisogna rompere il tabù, l’Unità 1 febbraio 2014, basato su studi dell’ILO, del’UE e del citato rapporto de l’Economist.

4 L’ILO è  tuttora ferma alla “R116 Reduction of Hours of Work Recommendation, 1962”, nella quale si propone una riduzione degli orari di lavoro, ma confermando come standard obiettivo le 40 ore settimanali fissate in precedenti convenzioni del 1935 e, addirittura  del 1919 (quasi un secolo fa!). La raccomandazione, infarcita di eccezioni, dà tuttavia la misura della complessità del problema. Complessità confermata recentemente da una legge della Bolivia, che per combattere la povertà legittima, a certe condizioni, il lavoro dei bambini di 10 anni come lavoratori autonomi, e di 12 anni come dipendenti. Nonostante tutto ciò, vincoli progressivamente più stringenti sugli orari di lavoro, all’insegna del “lavoro dignitoso” che è l’obiettivo base dell’ILO,  costringerebbero i governi e le parti sociali a seguire, con forme di turnazione ampiamente sperimentate, l’esempio dei paesi più progrediti.

5 Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano, 2000.

 

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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