Per ridurre le disuguaglianze, per per il lavoro occorrerebbe agire a livello internazionale e nazionale su salario minimo, orario massimo, flexsecurity, nuova sindacalizzazione, estesa al lavoro autonomo a tempo pieno, priorità degli investimenti per la scuola.
In due articoli precedenti per Vorrei, avevo rilevato l’assurdità del fatto che, nonostante il progresso tecnologico renda inevitabile una riduzione drastica del numero di persone occupate e degli orari di lavoro, da un parte vi siano imprese in cui si continua a lavorare con il tempo pieno di 40 ore settimanali ed oltre, dall’altra cresca il numero dei disoccupati. E riproponevo il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” (Vorrei, 03/12/2011, “Lavorare tutti, lavorare meno. Vale ancora?” ; Vorrei, 26/02/2013, “Lavoro o Produttività? Questo è il problema”.
Successivamente ho posto il problema a Pietro Ichino, che aveva appena pubblicato “Il lavoro spiegato ai ragazzi, e anche ad alcuni adulti” (Mondadori, 2013). Mi rispose a stretto giro di email (incredibile!), rinviandomi a un suo libro precedente (“Il lavoro e il mercato”, Mondadori 1996), nel quale argomentava in modo documentato e convincente che provvedimenti miranti a “lavorare meno, lavorare tutti” avevano fallito in passato e potevano essere addirittura dannosi.
Il fatto che Ichino, nel n. 336 del 09/03/2015 della sua esemplare newsletter, abbia riproposto integralmente il capitolo IV del libro del 1996 (“sollecitato da alcune domande rivoltemi in questi giorni”) dimostra che la questione è ancora calda.
In quel capitolo Ichino tratta diffusamente di tutte le versioni possibili degli orari di lavoro, da quello pieno, allo short full time, al part time, alle forme solidaristiche.
Ma tra il lavoro a tempo pieno e le altre forme di lavoro c’è una notevole differenza. Molte di quelle diverse dal tempo pieno vengono adottate per andare incontro ad esigenze particolari, a volte dell’impresa, a volte degli stessi lavoratori (come delle giovani donne con figli), o per adattarsi a situazioni contingenti. Al contrario, il lavoro a tempo pieno dovrebbe corrispondere alla necessità, per un lavoratore e la sua famiglia, di vivere in condizioni di benessere e sicurezza. Tali, ad esempio, da fargli ottenere agevolmente un mutuo per l’acquisto di una casa.
Io vorrei soffermarmi solo su quest’ultimo, con uno sguardo anche al lavoro autonomo nelle sue forme assimilabili al tempo pieno.
Ora, è naturale chiedersi perché, se il progresso tecnologico consente ad una impresa di fare le stesse cose con meno personale e meno ore di lavoro, non sia possibile ridurre gli orari di lavoro, ad esempio al livello di 30 ore settimanali. Ovviamente, pagando le 30 ore nella stessa misura delle quaranta e oltre ore del passato, e magari di più, aumentando il livello di benessere dei meno abbienti.
Ichino rileva che il limite dell’orario di lavoro a trenta ore, imposto in Francia nel 1982, non ha funzionato. In realtà esso si è rivelato inutile, sorpassato dalla realtà di molte imprese occidentali. Infatti, almeno in Europa, nel secolo scorso la durata media annua del lavoro risulta quasi dimezzata, da 3000 ore a 1600. E nei paesi del nord Europa la durata del lavoro è ormai inferiore alle 1500 ore, equivalenti a un orario settimanale di 27 ore, 5 ore e mezzo per cinque giorni.
Il vero nodo del problema si trova in queste dichiarazioni di Horst Neumann, capo del personale della Volkswagen, alla Suddeutsche Zeitung, riportata dal Sole 24 Ore del 08/10/14, che preannuncia una riduzione nei prossimi anni del personale di quell’impresa, che non ha mai licenziato:
“Quando i lavoratori del baby boom postbellico si ritireranno... non saremo in grado di rimpiazzarli con nuove assunzioni... Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è pari a oltre 40 euro l’ora, nell’Europa Orientale 11 euro, in Cina 10 euro. Eppure, già oggi, il costo di un sostituto meccanico per il lavoro ripetitivo è intorno ai 5 euro. E la prossima generazione di robot sarà presumibilmente ancora più economica”.
Ma in che misura questa prospettiva di un lavoro svolto sempre più da robot, guidati da pochissime persone altamente qualificate e altrettanto retribuite, può essere generalizzata?
Probabilmente nella stessa Germania potranno esserci situazioni diverse, in particolare tra le grandi e le piccole e medie imprese. Ma soprattutto non così potrà essere nei paesi più arretrati. Per competere con la Germania, questi dovranno continuare a far lavorare la gente con impianti e competenze meno sofisticati, con orari più pesanti e retribuzioni più povere.
Per riequilibrare la situazione, occorrerebbe allora promuovere il progresso tecnologico e l’istruzione nei paesi meno avanzati, a partire addirittura dal nostro. Ma allora, porre limiti più ristretti allo sfruttamento, in termini di salari sempre più risicati ma anche di orari massacranti, a livello mondiale e sia pure in forme articolate, potrebbe costituire un incentivo a ridurre le disuguaglianze. Si potrebbe anche aumentare il costo per le imprese delle ore eccedenti il massimo consentito, alla stregua delle ore straordinarie o del lavoro festivo e notturno.
Invece che con norme di legge, si potrebbe anche agire per via contrattuale, come è avvenuto nel caso della Nike, nel quale lo scandalo del lavoro minorile in Pakistan per la produzione dei palloni da calcio è stato affrontato anche grazie al coinvolgimento congiunto di imprese e sindacati USA e pachistani, sia pure sotto la pressione dell’opinione pubblica e delle istituzioni internazionali (ILO).
Occorre poi tener presente che vi è una tendenza ininterrotta verso una riduzione del lavoro dipendente, a favore del lavoro autonomo. I problemi di quest’area in espansione dell’attività lavorativa saranno prevalentemente di tipo retributivo, per la ridotta forza contrattuale dei lavoratori. La fissazione di una retribuzione minima sarà essenziale, ma anche per non costringere gli stessi lavoratori autonomi ad orari di lavoro impossibili per sopravvivere.
Insomma: io credo che l’evoluzione spontanea verso il “fare di più con meno” e verso la riduzione degli orari di lavoro non vada lasciata alla “mano invisibile” di smithiana memoria ma vada governata, non solo a livello di singoli paesi o addirittura di singole imprese, ma anche a livello di grandi regioni come l’Europa e a livello globale. E che questo avvenga troppo poco.
Il compito spetta ovviamente prima di tutto alle istituzioni, con politiche che affrontino l’esasperato dinamismo del progresso tecnologico, agevolando il passaggio da un lavoro all’altro, garantendo i necessari paracadute per chi è costretto a periodi di inattività, con la fissazione di salari e redditi minimi e di orari sopportabili. E soprattutto investendo molto nella scuola a tutti i livelli, di cultura generale, istruzione e formazione professionale. Si potrebbe addirittura proporre un trade off tra ore dedicate al lavoro e ore dedicate allo studio, a favore di quest’ultimo!
Ma emerge anche un nuovo compito dei sindacati. I processi in corso diminuiscono sempre più la forza contrattuale dei singoli, sia perché non ci sono più le masse proletarie di lavoratori dipendenti, sia perché aumenta la quota dei lavoratori autonomi.
Sembra strano: nel momento in cui i lavoratori hanno più bisogno di organizzarsi per resistere al predominio del capitale, i sindacati diminuiscono il loro credito e il loro potere. Evidentemente sono loro a dover cambiare, in un recupero non classista, ma ispirato alla difesa dei diritti umani, dello slogan “lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”.
Una quota crescente di tempo libero, liberata dal lavoro dipendente, collegata con una incentivazione dello studio e delle attività volontaristiche, culturali e sociali, darebbe un contributo sia alla libertà dell’individuo che al benessere dell’umanità. Del resto, anche da una ricerca della Commissione Europea citata da Ichino nel suo libro, risultava chiaramente il desiderio dei lavoratori per un orario di lavoro più breve,
Riassumendo: all’interno di una strategia globale finalizzata a ridurre le disuguaglianze, come suggerito da Thomas Piketty nel suo recente libro “Il capitale nel XIX secolo” (attraverso una crescente tracciabilità internazionale dei movimenti di capitali e la generalizzazione di una congrua imposta su capitale/eredità), per il lavoro occorrerebbe agire a livello internazionale e nazionale su:
- Salario minimo
- Orario massimo
- flexsecurity
- nuova sindacalizzazione, estesa al lavoro autonomo a tempo pieno.
- Priorità degli investimenti per la scuola.
Non mi sembra a questo punto fuori tema il constatare che dove prevalgono le piccole imprese e l'imprenditorialità diffusa, anche i lavoratori, molto meno protetti di quelli delle grandi imprese, sono dotati di antenne che li rendono più pronti a cambiare posto di lavoro e attività. Strutture produttive come quella della Brianza, caratterizzate da una ampia articolazione di piccole e medie imprese, rischiano meno di essere colpite dalle crisi, perché più dotate di flessibilità e di resilienza sia economica che occupazionale. Dove invece dominano poche grandi imprese, una crisi aziendale può più facilmente trasformarsi in una crisi occupazionale e sociale di vaste proporzioni. Anche perché il lavoro dipendente, se prolungato e monotono, deprime le capacità creative, il dinamismo, la serendipità delle persone.
Ho sempre in mente una “poesia” inserita in un best seller del management degli anni ottanta:
“Che succede al momento dell’entrata,
al cancello della fabbrica?
Un’aura o un etere che ti lava il cervello, l’anima,
e ti impone: ‘Per otto ore sarai diverso’?
Attimi prima era un padre, un marito,
elettore, amante, adulto.
Ma questo era prima che salisse i gradini,
appendesse la giacca e
pigliasse il suo posto alla catena”.
Thomas J. Peters, Robert H. Waterman Jr., Alla ricerca dell’eccellenza, Sperling & Kupfer, 1984 (ed. or. 1982)
La “catena”, ovviamente, non è solo quella di montaggio di chapliniana memoria.
Il futuro sarà comunque diverso. Se migliore o peggiore, dipenderà in parte da ciascuno di noi.