Sul finire del secolo scorso si è ritenuto di dover passare dal sistema del “Welfare state”, considerato troppo assistenziale e insostenibile, a un nuovo sistema, definito come “Workfare state”, orientato a promuovere l’occupazione. E’ forse venuto il momento di pensare a un nuovo sistema, che potremmo definire di “Lifefare state”!
Nelle mitologie mediterranee, l’araba fenice era un uccello multiforme e variopinto, trasfigurazione del sole, che continuamente moriva tra le fiamme e rinasceva dalle proprie ceneri.
Uso questa metafora parlando del lavoro, perché gli ultimi dati sulla occupazione negli Stati Uniti contraddicono gli scenari descritti da molti studi, a partire da “La fine del lavoro” di J. Rifkin, di 20 anni fa, che preconizzano una disoccupazione crescente causata dall’avvento di robot e di macchine pensanti.
Gli Stati Uniti sono senza alcun dubbio all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Ebbene: la disoccupazione è scesa al 5,3%, un livello frizionale, quasi fisiologico. E non è un dato di breve respiro: Obama può vantare il fatto che quando è stato eletto “le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l'economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati”.
Tutto ciò, mentre in altri paesi meno progrediti la disoccupazione permane su livelli patologici.
Tre problemi vengono tuttavia segnalati negli USA: i salari sempre più bassi, il ricorso al lavoro straordinario e l’l’aumento di coloro che escono. dal mercato del lavoro.
L’obiettivo, che il governo si pone, di fissare per legge un salario minimo, denuncia il fatto che la forza contrattuale dei lavoratori diminuisce, e con questo le loro retribuzioni. Appare quindi necessario un intervento delle istituzioni sul mercato del lavoro per contrastare lo sfruttamento e assicurare a tutti compensi adeguati a condizioni di vita accettabili.
Anche il lavoro straordinario esprime l’accettazione da parte dei lavoratori di carichi di lavoro disumani per poter sbarcare il lunario. La via suggerita per contrastare questa tendenza non è la fissazione di un limite massimo agli orari di lavoro, ma un aumento delle imposte sul lavoro straordinario, in modo da renderlo più oneroso per le imprese.
Il terzo problema, cioè la decisione da parte di molti di non cercare più un lavoro regolarmente retribuito, esprime alternativamente: o la scelta (e la possibilità) di trovare per vie diverse i mezzi necessari per vivere, o l’esclusione dalla convivenza civile e la caduta nella povertà.
Che considerazioni si possono trarre da questi fatti, con riguardo al futuro del lavoro in un contesto tecnologico che, comunque, tende inesorabilmente a sostituire le tradizionali attività umane?
E’ sicuramente necessario puntare sullo sviluppo di una “learning society”, come teorizzano Joseph E. Stiglitz e Bruce C. Greenwald (“Creating a Learning Society”, Columbia University Press, New York, 2014). In futuro, infatti, saranno necessarie competenze continuamente aggiornate. non solo per svolgere attività tecnologicamente sofisticate, ma anche per aprire una panetteria.
Forse ci sarà lavoro ancora in futuro per moltissime persone, purché dotate di alte competenze professionali. Come scrive Tyler Cowen nel best seller “La media non conta più” (UBE, Milano, 2015, ed. orig. 2013) “mantenere in volo un drone automatico Predator per 24 ore richiede circa 168 persone ingaggiate dietro le quinte... Per fare un confronto, il funzionamento di un caccia F-16 richiede meno di 100 persone per una singola missione”. E’ da sperare che ciò sia vero non solo per il settore militare!
Ma, oltre che degli effetti del progresso tecnologico, occorre tener conto anche della crescente diffusione di tendenze verso una maggiore “frugalità”, che potrebbero contribuire a loro volta alla riduzione della domanda di lavoro come la concepiamo attualmente. Non mi riferisco tanto e soltanto alla “decrescita felice” teorizzata da S. Latouche e da altri, né alla diffusione di forme di economia solidaristiche o di prossimità come le organizzazioni non profit, i gruppi di acquisto solidale, lo scambio di prodotti a chilometro zero, la promozione degli orti e dell’agricoltura in città: progetti, movimenti, iniziative che, presi singolarmente, appaiono marginali rispetto all’economia globale. Mi riferisco invece a segnali che consentono di immaginare un sistema economico globale diverso da quello del passato.
N. Radiou, J. Prabhu e S. Ahuja, tre indiani che insegnano all’Università di Cambridge e svolgono attività di consulenza strategica per grandi imprese, nel loro “Jugaad Innovation” (Rubbettino, Soveria Mannelli, 1014, ed orig. 2012), immaginano un futuro nel quale le nuove generazioni (la generazione Y, dei nativi digitali, e la generazione Z, dei nati nel terzo millennio), spinte dal degrado dell’ambiente e dall’esaurimento delle risorse globali, rifiuteranno il modello consumistico del passato; le imprese allargheranno la loro azione “oltre il margine” delle fasce di reddito medio-alte, adattando i loro prodotti e servizi alle esigenze dell’area vastissima dei meno abbienti; il sistema produttivo diventerà più piatto e capillare, autonomo e reticolare, inclusivo, in una logica di sussidiarietà (quella vera, verticale, non quella orizzontale, inventata dalla Compagnia delle Opere).
Un segnale analogo viene dal fatto che un grande gruppo bancario francese, BNP Paribas, abbia deciso di realizzare un programma culturale ispirato alla “Ingegnosità collettiva”, denominato WAVE, consistente in una serie di attività di ricerca svolte anche recentemente a Milano in connessione con l’Expo, auspice la Fondazione Bassetti, che si occupa di “responsabilità nell’Innovazione”. Anche questo programma prende le mosse dalla previsione di un mondo dominato dalla scarsità, o comunque dall’esigenza di una economia che tenga conto dei problemi della compatibilità ambientale. Una economia “circolare”, all’insegna di 3 R: Ridurre, Riciclare, Riutilizzare. Una economia capace di “fare di più con meno”, basata su un vasto coinvolgimento di risorse umane a tutti i livelli e a dimensione globale.
Anche un lettura attenta della recente enciclica papale “Laudato si”, che propone una visione olistica del futuro del genere umano e dell’ambiente, si basa su ipotesi scientificamente attendibili sulle possibili evoluzioni della globalizzazione nel senso sopraddetto.
.Tornando alla necessità di costruire una “società che apprende”, mi sembra che Stiglitz e Greenwald abbiano in mente esclusivamente una istruzione tecnico-professionale finalizzata a mettere le perrsone in condizioni di far fronte e di integrarsi con la continua innovazione tecnologica. Io credo che occorra coltivare una visione più ampia dell’istruzione, che alimenti e diffonda non solo le competenze specialistiche, ma anche la cultura in tutte le sue forme.
Si tratta di promuovere la capacità delle persone di perseguire valori non solo utilitari, di fare un uso responsabile della propria libertà. La crescita di “una società che apprende” non è necessaria soltanto per il lavoro, ma anche per il non-lavoro, per il tempo crescente a disposizione degli uomini per le loro libere scelte!
La diffusione di una cultura generale è anche necessaria per alimentare una classe dirigente capace e responsabile la cui carenza, in tutti i campi (economico, culturale, sociale, politico) è più che evidente.
Forse è in via di dissolvimento, nel pensiero e nell’azione delle nuove generazioni, la “cultura del lavoro” come l’abbiamo concepita nella prima e nella seconda rivoluzione industriale, facendone quasi un mito, sostituita da una cultura in cui lavoro e non-lavoro non saranno più separati come nel passato, ma strettamente legati in modo circolare e in una grande varietà di modi. Un nostro sociologo, Domenico De Masi, ha prospettato in modo efficace questa prospettiva già diversi anni fa (”Il futuro del lavoro”, Rizzoli, Milano, 1999)
Ma si tratterà di una prospettiva estremamente dinamica e aleatoria. Per farvi fronte (per non tornare al medio evo!) occorrerà un sistema economico e istituzionale capace di rendere praticabili per tutti i continui passaggi dallo studio alle attività produttive, da un lavoro ad un altro, dal lavoro al non-lavoro, concepito quest’ultimo come un abituale momento sabbatico. Un sistema irrealizzabile senza una forte riduzione delle disuguaglianze, senza ingenti trasferimenti di risorse dai patrimoni inattivi in continua crescita alle istituzioni che erogano i servizi sociali. Un sistema per il quale sono state formulate importanti proposte, in particolare dall’economista francese T. Piketty (“Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani, Milano, 2014)
Sul finire del secolo scorso si è ritenuto di dover passare dal sistema del “Welfare state”, considerato troppo assistenziale e insostenibile, a un nuovo sistema, definito come “Workfare state”, orientato a promuovere l’occupazione. E’ forse venuto il momento di pensare a un nuovo sistema, che potremmo definire di “Lifefare state”!