Qualche mese fa ho messo in luce il profilarsi di alcuni nuovi modi d’intendere l’economia, proposti da due economiste, tanto da immaginare un XXI secolo economico al femminile. Kate Raworth ha evidenziato l’impossibilità di continuare a misurare lo sviluppo economico con un unico indicatore, il prodotto interno lordo (PIL), e ha descritto un’economia simile a una ciambella (Doughnut Economics), fatta in modo da non traboccare all’esterno verso la distruzione ambientale e, all’interno, da svuotare la povertà. Proponendo un paradigma economico finalizzato alla prosperità qualitativa piuttosto che alla crescita quantitativa, ha posto una pietra tombale sulla figura dell’homo oeconomicus, guidato esclusivamente dall’utilità e dall’avidità. Ester Duflo, insieme ad altri, ha messo in guardia contro gli schematismi delle teorie economiche da una parte, e dall’altra contro le percezioni di un’opinione pubblica schiava di modelli mentali errati o superati. Per risolvere i problemi delle disuguaglianze e dell’ambiente occorre studiare le diverse situazioni specifiche.
Ho anche segnalato un cambiamento negli “statuti” su cui si basano i comportamenti degli operatori economici, statuti formalizzati da parte di esponenti delle maggiori corporation internazionali. Soprattutto, essi hanno statuito che la finalità delle imprese non deve più consistere nel solo profitto degli “shareholder” (gli azionisti) ma deve essere estesa ai più generali interessi degli “stakeholder” (tutti coloro che, dai clienti ai dipendenti ai fornitori alle comunità territoriali, sono coinvolti dai comportamenti aziendali).
Propongono un nuovo paradigma economico anche due importanti associazioni che riuniscono numerose espressioni del volontariato italiano: l’AsVis (Associazione Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) e l’ADD (Associazione Disuguaglianze e Diversità). Enrico Giovannini e Fabrizio Barca, economisti di lungo corso con vaste esperienze internazionali, rappresentanti di queste associazioni, hanno recentemente pubblicato un dialogo/pamphlet dal titolo “Quel mondo diverso. Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare” (Laterza 2020), nel quale illustrano le analisi e le proposte su cui le due associazioni convergono. Il cambio di paradigma che essi propongono si può riassumere nell’inversione dell’obiettivo fondamentale delle politiche economiche: quest’obiettivo non deve essere più lo sviluppo in quanto tale, debolmente condizionato dalla riduzione delle disuguaglianze e dalla compatibilità ambientale. Al contrario, sono proprio la sostenibilità e l’inclusione a dover costituire l’obiettivo dello sviluppo.
E’ importante osservare che le loro proposte sono suffragate in modo ampiamente documentato da cambiamenti in atto nelle due forme organizzative in cui si esprime la società umana: da una parte le istituzioni (ONU, FMI, WTO, OCSE, Unione Europea, stati, regioni, comuni, città…), dall’altra la miriade di organizzazioni non governative e associazioni spontanee.
La domanda che tutto ciò suscita è: sarà possibile il cambiamento prefigurato, magari favorito dalla crisi globale innescata dal coronavirus, o tutto tornerà come prima o peggio?
Per orientarsi nelle previsioni (che com’è noto non colgono quasi mai nel segno) sembrano giungere al momento opportuno due libri che fanno immaginare due futuri contrapposti, una distopia e un’utopia, ambedue ben documentati: “Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro” dell’economista Branko Milanovic (Laterza, 2020) e “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” (Feltrinelli 2020), best seller del sociologo Rutger Bregman.La domanda che tutto ciò suscita è: sarà possibile il cambiamento prefigurato, magari favorito dalla crisi globale innescata dal coronavirus, o tutto tornerà come prima o peggio?
Milanovic risuscita senza mezzi termini l’homo oeconomicus, come anima del capitalismo imperante, nelle sue due forme del capitalismo “liberale” (democratico) e “politico” (autoritario). Le istituzioni capitalistiche sono tutte guidate da un fine: l’arricchimento. Ma quel che è peggio, nella società moderna questo fine è calato nei comportamenti individuali. L’avidità e la corruzione si sono diffusi nella misura in cui la società si è iper-commercializzata, abbandonando le remore etiche del passato, legate anche a una religiosità oggi in declino. «In passato le persone rispondevano sia alle leggi sia ai limiti autoimposti. La situazione attuale è caratterizzata dalla scomparsa di questi ultimi… La moralità, che a livello interiore ormai non esiste più, è stata completamente esternalizzata: da noi stessi alla società nel suo complesso». «Le società di tutto il mondo sono strutturate in modo tale da esaltare il successo e il potere, che in una società commercializzata si esprimono solo in denaro». In una visione di tradizione positivista, intrinsecamente pessimista, secondo Milanovic «non abbiamo nessuna alternativa praticabile al capitalismo ipercommercializzato. Le alternative che il mondo ha sperimentato si sono rivelate peggiori, alcune di molto». Nessuna considerazione sembra nutrire per le acquisizioni dell’economia comportamentale, secondo la quale le motivazioni degli umani sono ben più complesse rispetto alla sola utilità.
Su posizioni completamente opposte è Rutger Bregman, che non a caso viene citato da Milanovic, insieme a Kate Raworth, come espressioni di un mondo ingenuo e inesistente.
Bregman affronta il problema alle radici, risalendo addirittura sia all’evoluzione dell’essere umano nelle diverse ere geologiche, sia all’eterna contrapposizione tra la visione “hobbesiana” (homo homini lupus) e quella “rousseauiana” (il buon selvaggio originario). Rutger si schiera decisamente a favore di quest’ultimo, descrivendo una miriade di ricerche che dimostrano il prevalere nell’essere umano dello spirito di collaborazione su quello del conflitto. Prevalenza tuttavia compromessa da un evento storico e dalle vicende dell’informazione. L’evento storico è il passaggio dall’uomo cacciatore/raccoglitore all’uomo coltivatore/cittadino, con l’affermarsi della proprietà privata rispetto alla proprietà collettiva dei territori. Quanto all’informazione, essa tende a dare rilievo molto più agli eventi conflittuali e violenti rispetto ai comportamenti solidali e pacifici, diffondendo una percezione della natura umana molto più negativa di come sia in realtà.
In una prospettiva di lungo termine, credo che non si possa negare il miglioramento della convivenza tra gli esseri umani rispetto al passato. Nonostante tutto, al giorno d’oggi si può andare in giro senza una spada al fianco per difendersi dai malintenzionati. Secondo alcuni studi, nel Medio Evo circa il 12% della popolazione subiva una morte violenta, contro l’1% attuale. D’altra parte non si possono dimenticare i bagni di sangue delle due guerre mondiali, e il fatto che nell’ultimo mezzo secolo le disuguaglianze sono molto aumentate e l’antropocene sta portando a una distruzione dell’ambiente che potrebbe avere conseguenze catastrofiche.
Forse la globalizzazione porterà a una marginalizzazione delle guerre, in quanto nessuno potrebbe più pensare di dominare il mondo. Anche se il futuro, dopo la pandemia, sembra essere più nelle mani imperscrutabili di Dio che in quelle degli uomini.
Per concludere in modo positivo, mai sembra che si debba cercare di trasformare in auspicio e obiettivo quello che Milanovic propone come un’alternativa possibile, sia pure insieme ad altre meno auspicabili, contraddicendo in qualche modo le sue analisi: la possibile «capacità del capitalismo liberal-democratico di muoversi verso uno stadio più avanzato, quello del capitalismo popolare». Che comporterebbe le seguenti politiche: 1. Alleggerimento delle imposte fino ai ceti medi, e ritorno a imposte di successione elevate; 2. Aumento significativo dei finanziamenti e miglioramento della qualità delle scuole pubbliche; 3. Favorire le migrazioni senza provocare reazioni nazionalistiche; 4. Finanziamento limitato ed esclusivamente pubblico della campagne elettorali.
Ma alla base di tutto mi sembra che sia necessario favorire in tutti i modi e accogliere le indicazioni dell’associazionismo volontaristico, per sottrarre quote crescenti di individui alle suggestioni che incitano al sospetto, alla paura dell’altro e soprattutto del diverso, all’odio, all’invenzione del nemico. Trasformare in tal modo un numero sempre più vasto d’individui in cittadini, in animali politici.
D’altra parte, occorre tener presenti le difficoltà di tutte le istituzioni, internazionali e nazionali, e in particolare dei vecchi stati-nazione, a tener dietro alla velocità dei cambiamenti sociali e culturali indotti dal progresso scientifico in atto. Queste difficoltà sono acutamente esplorate da Piero Bassetti nel recente “Oltre lo Specchio di Alice. Governare l’innovazione nel cambiamento d’epoca” (Guerii e Ass., 2020). E’ possibile e auspicabile che la pandemia globale faccia da detonatore per una rivoluzione anche istituzionale. Alcuni segnali, dall'ONU, all'OCSE, al Famigerato FMI, e soprattitto all'Unione Europa, fanno bene sperare.
Mi sembra infine valida l’idea di Fabrizio Barca di «un vero e proprio patto sociale che veda profitto, salario e utilità ambientali alleati contro la rendita», un patto che comporterebbe anche maggiori condizionamenti della proprietà privata rispetto agli interessi collettivi. Ma esiterei a istituzionalizzare questo patto, come propone, un po’ contraddittoriamente, Fabrizio Barca. Preferisco la dialettica trasparente, il “confronto acceso, aperto, informato e ragionevole» auspicato dallo stesso Barca, tra i diversi protagonisti. Sono in particolare dell’idea che tra le divisioni dei poteri dovrebbe essere inserita quella tra pubblico e privato, le cui funzioni sono diverse e spesso contrapposte, e la cui commistione porta spesso a derive corporative nelle quali alla fine prevale la legge del più forte.