20180908 graficofonte: F.F. Reichheld con T. Teal, Il Fattore Fedeltà, Il Sole 24 Ore, 1997

L’attività dell’impresa è comunque un’attività competitiva. Essa è però costantemente in bilico tra una gestione opportunistica, di breve termine, attenta ai risultati economico-finanziari immediati, e una gestione strategica, orientata al conseguimento di un “vantaggio competitivo sostenibile” nel lungo termine.

Nel mio ultimo articolo su questa rivista (“Aiutare gli ultimi, i penultimi e i vulnerabili”, 6 luglio 2019) ho richiamato il tema della responsabilità sociale dell’impresa, notando come, nonostante dell’argomento si parli ormai da decenni, la sua applicazione sia ancora praticata da poche imprese eccellenti.
Ed ecco che la Business Roundtable, associazione che riunisce 195 numeri uno delle più importanti Corporation USA, come Apple, Boeing, AT&T, JP Morgan, Bank of America, emana una Dichiarazione (Statement) che ha suscitato molto scalpore nel business e nella stampa internazionale.
Sostanzialmente si rinnega il mantra secondo cui il compito dei manager è quello di “creare valore per l’azionista”, lo “shareholder”, il detentore di quote della proprietà dell’impresa, per affermare che il nuovo compito dell’impresa è quello di creare valore per tutti gli “stakeholder”, per tutti coloro che sono coinvolti, “hanno una posta in gioco” nel comportamento dell’impresa. Non solo quindi coloro che oggi si appropriano della maggior parte del valore aggiunto dell’impresa, cioè i proprietari, nonché i manager e le banche, ma anche i dipendenti, i clienti, i fornitori, i cittadini, senza dimenticare il fisco, cioè lo Stato.
Credo che convenga leggere direttamente lo Statement:


«Anche se ognuna delle nostre imprese è al servizio dei propri obiettivi, noi condividiamo un impegno fondamentale nei confronti di tutti i nostri stakeholder. Noi ci impegniamo a:
- Creare valore per i nostri clienti. Svilupperemo la tradizione delle imprese americane di essere all’avanguardia nel rispondere o sopravanzare le aspettative del cliente;
- Investire sui nostri dipendenti. Cominciando dal compensarli correttamente e dall’offrire loro importanti benefici. Questo include l’istruzione e la formazione per aiutarli a sviluppare nuove abilità adeguate a un mondo in rapida evoluzione. Noi intendiamo promuovere la diversità e l’inclusione, la dignità e il rispetto;
- Commerciare in modo corretto, anche dal punto di vista etico, con i nostri fornitori. Intendiamo comportarci come buoni partner nei confronti delle altre imprese, grandi o piccole, che ci aiutano a perseguire la nostra missione;


- Sostenere le comunità all’interno delle quali le nostre imprese operano. Rispettiamo le persone delle nostre comunità e proteggiamo l’ambiente adottando pratiche sostenibili;
- Produrre valore di lungo termine per gli azionisti, che ci forniscono i capitali che consentono all’impresa di investire, crescere e innovare. Ci impegniamo alla trasparenza e all’attenzione nei loro confronti.
Ognuno dei nostri stakeholder è essenziale. Ci impegniamo a creare valore per tutti loro, per il successo delle nostre imprese, delle nostre comunità, del nostro Paese».


Per chi si occupa di strategie d’impresa, questi concetti non dicono nulla di nuovo. Anzi, fanno riflettere sui tempi lunghi, di decenni, perché i cambiamenti culturali, se ci sono, si realizzino veramente.
Almeno fin dagli anni novanta consulenti delle maggiori imprese segnalavano la convenienza di puntare sulla fedeltà dei clienti per ottenere un solido vantaggio competitivo nel lungo termine. Nei miei corsi usavo spesso uno schema, elaborato dalla Bain & Co (F.F. Reichheld, The Loyalty Effect, Harvard Business School Press, 1996) che mostrava come la soddisfazione dei clienti si riflette nel tempo sulla loro fedeltà e crescita, sull’acquisizione di nuovi e buoni dipendenti meglio retribuiti, sull’aumento della produttività e dei risultati economici, su nuovi e “buoni” investitori, e di nuovo sul valore superiore, in termini di prezzi e qualità, fornito ai propri clienti.

Dieci anni fa ho intervistato per questa rivista Pietro Palella, AD di STMicroeletctronics (“Per produrre in Europa serve il valore aggiunto, frutto dell’innovazione”, 22 novembre 1909).


Nelle risposte egli diede un peso notevole ai rapporti tra impresa e territorio, addirittura considerandolo un fattore competitivo fondamentale. «Essere ecocompatibili è un investimento con un buon ritorno», ha affermato, elencando la strategia di STM nel ridurre i consumi di acqua, energia e materie prime.
Del resto, teorie economiche come quelle sull’economia sociale di mercato e sulla responsabilità sociale dell’impresa, e politiche economiche di orientamento liberalsocialista come la “Terza Via” di Anthony Giddens affondano le loro radici addirittura prima della II guerra mondiale. E la stessa nostra Costituzione del 1947 contiene un articolo, il 41, attribuito alle pressioni del PCI e avversato dalla destra, ma lungimirante come tutta la nostra Carta, secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. E continua: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata e indirizzata a fini sociali”.


L’attività dell’impresa è comunque un’attività competitiva. Essa è però costantemente in bilico tra una gestione opportunistica, di breve termine, attenta ai risultati economico-finanziari immediati, e una gestione strategica, orientata al conseguimento di un “vantaggio competitivo sostenibile” nel lungo termine. Ho vissuto questo contrapposizione nell’impresa in cui lavoravo, che vedeva il contrasto tra i manager finanziari e commerciali da una parte e i vertici strategici dall’altra, purtroppo vinto dai primi con esiti disastrosi.
Quindi, nulla di nuovo sotto il sole, dal punto di vista dei contenuti. Ma la novità sta proprio nel fatto che le maggiori imprese americane abbiano concordemente enunciato un cambiamento di paradigma aziendale. Una presa di coscienza del fatto che gli interessi dell’impresa non sono a priori indifferenti o in contrasto con quelli del suo contesto interno ed esterno, ma al contrario vengono meglio perseguiti facendo nel contempo gli interessi dei soggetti coinvolti dalla sua attività e quelli della collettività nel suo insieme.
I latini dicevano: “Jus sine moribus esse non potest”, la legge non può essere efficace se non è supportata da un costume orientato alla legalità. Speriamo che il costume stia cambiando in meglio, in una direzione di maggiore uguaglianza e di rispetto alla dignità degli uomini e dell’ambiente.


Ma poi le leggi debbono comunque creare le convenienze per le imprese ad agire negli interessi di tutti gli stakeholder, invece che dei soli shareholder o aspiranti tali (i manager).
Negli ultimi decenni è avvenuto il contrario: per l’aggressività dei governi di destra, e il disorientamento delle sinistre riformiste di fronte alla globalizzazione, le disuguaglianze sono aumentate e l’ambiente, la convivenza umana ha subito ulteriori degradi.


Ed è ancora sintomatica, nella Dichiarazione dell’Economic Roundtable, la mancanza di un punto determinante per un equo orientamento agli interessi degli stakeholder: la riduzione del divario tra i compensi dei vertici dell’impresa e il salario dei dipendenti di ultimo livello, divenuto negli ultimi decenni scandaloso. Eppure anche tra i più ricchi c’è chi, come Warren Buffett, tra i massimi esperti di finanza, è favorevole a una politica politica che agganci ragionevolmente le retribuzioni dei manager ai meriti effettivi nel fare il bene dell’impresa.


Molto si gioca sulle briglie da imporre al sistema finanziario internazionale. Finché premere un tasto per una operazione finanziaria a breve potrà produrre, come una moderna pietra filosofale, più ricchezza rispetto al duro lavoro dell’economia reale, produttrice di benessere per tutti, le disuguaglianze nell’impresa e nella società globale continueranno a crescere, fino ad una esplosione che sfuggirà di mano agli esseri umani e ai loro governi.
Un ruolo particolare giocano da questo punto di vista i paradisi fiscali. Di questo parlerò prossimamente.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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