Da un editoriale di Alesina e Giavazzi nasce una riflessione su cosa sia una politica economica di sinistra e cosa no
In un editoriale sul Corriere della Sera del 17 novembre scorso, gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi rilanciano una tesi provocatoria che avevano espresso già dieci anni fa con un libretto intitolato “Il liberismo è di sinistra” (Il Saggiatore), che lessi con molto interesse.
E ribadiscono: «Secondo noi il liberismo è certamente “di sinistra” se per sinistra si intende crescita per ridurre la povertà senza eccessive diseguaglianze, mobilità sociale, attenzione ai più deboli e abolizione di privilegi immeritati”. E addirittura si sbilanciano: «Questa è la riflessione dalla quale dovrebbe partire una forza come il PD nel momento in cui si avvia verso il proprio congresso».
Ho una grande stima per Alesina e Giavazzi, di cui condivido gran parte delle argomentazioni. Ma non metterei insieme capra e cavoli, cioè liberismo e sinistra. Le parole dovrebbero esser maneggiate con prudenza soprattutto da persone influenti, per non contribuire ulteriormente alla confusione di idee che caratterizza l’attuale opinione pubblica.
Credo che ci sia ormai un diffuso consenso sull’uso del termine “liberismo” per definire le politiche economiche avviate negli anni ottanta da Margaret Tatcher e Donald Reagan, sotto l’egida di economisti come Milton Friedman e Friedrich Von Hayek. Politiche che hanno portato a un aumento esasperato delle disuguaglianze, delle ricchezze e della povertà nei paesi sviluppati dove sono state applicate. Quanto alla riduzione delle diseguaglianze e della povertà per fortuna verificatesi a livello internazionale, sicuramente sono state favorite dalla riduzione delle barriere commerciali concordate dai diversi paesi tramite istituzioni come il WTO, ma anche e forse soprattutto da processi endogeni a regimi politici di tutti i tipi.
Ciò non toglie che le politiche che gli autori qualificano come di sinistra siano effettivamente di sinistra! Di una sinistra che, senza rinnegare i grandi successi conseguiti, in Europa ma non solo, nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale, sia capace di adeguare il suo “manifesto” alla rivoluzione digitale e al dinamismo della società che Zygmunt Bauman ha correttamente definito “liquida”. Rilanciando il “sogno europeo” elogiato da Geremy Rifkin, e contrapposto al “sogno americano”.
Ma scorriamo cosa citano gli autori come “di sinistra”:
- Mercati liberi nei quali le lobby non facciano da padrone;
- Favorire lo spostamento di risorse da settori e imprese meno produttive a quelle più produttive, invece di proteggere all’infinito imprese decotte;
- Liberalizzare il mercato del lavoro favorendo la mobilità verso la parte più produttiva del paese, e quindi verso salari più elevati;
- Premiare il merito e punire il demerito per favorire la mobilità sociale; offrire pari opportunità il più possibile senza penalizzare chi lavora con una tassazione asfissiante;
- Bloccare i trasferimenti a pioggia a questa o quella categoria che riesce ad alzare la voce più di altre.
Sostanzialmente Alesina e Giavazzi dichiarano in sintesi che la competizione è di sinistra. D’accordo. Ma la competizione, cioè il mercato, se vivo e vegeto, è contro il liberismo! Il quale, riducendo al minimo ogni regolamentazione e integrazione al fluire del mercato, tende a favorirne l’implosione in termini di nascita di monopoli, di metastasi finanziaria, di radicalizzazione delle disuguaglianze. Alla fine, ad essere tra le cause, se non la principale, del contraccolpo populista a cui assistiamo oggi in Italia e altrove.
E’ evidente che, se le proposte degli autori sono di una sinistra che finalmente metta il mercato tra le libertà fondamentali degli esseri umani, esse vanno inserite in una visione più completa, frutto di una continuità storica e una evoluzione delle politiche sociali delle sinistre europee dei primi decenni del dopoguerra, politiche da non gettare via con l’acqua sporca. Politiche che associano in un giusto equilibrio cooperazione e competizione. Sul come fare, esiste un mare di indicazioni da considerare, suggerite anche da economisti come ad esempio Joseph E. Stiglitz, Tomas Piketty, Anthony Atkinson.
Per certi versi mi sembra che Alesina e Giavazzi alimentino il vecchio luogo comune del contrapporre il privato, a cui attribuire tutto il bene possibile, al pubblico, causa di tutti i mali.
Ma per altri versi individuano il vero avversario: il corporativismo, nel quale pubblico e privato si ibridano in modo collusivo, ostacolando la crescita, la riduzione delle disuguaglianze, la piena valorizzazione delle risorse umane, a vantaggio di ristrette cerchie di potere pubblico-privato e a danno della generalità dei cittadini.
In realtà, perché il libero mercato dispieghi tutti i suoi benefici, occorre la presenza di uno stato efficiente, non solo come regolatore ma anche come attore (quante volte si è parlato di “fallimenti del mercato”?). Per questo mi è sempre piaciuto lo slogan: “Più mercato, più stato”. In senso qualitativo, più che quantitativo.
Se si guarda bene, l’elenco che gli autori fanno delle cose che non vanno in Italia non può essere qualificato come eccesso d’intervento dello stato, ma proprio di collusione tra questo e potentissime lobby interne ed esterne allo stato stesso. E se ben si osserva, le due forze politiche oggi al potere, che si presentano come portatrici del cambiamento, si guardano bene, sondaggi alla mano e calcolo delle forze in gioco, di incidere sulla realtà corporativa del Paese. Il fantasma Chetucapenuca, che tutto cambi perché nulla cambi, non è stato mai così prospero. Speriamo che faccia la fine di quello di Canterville.
Sono d’accordo con l’affermazione secondo cui «il PD è a un bivio: una strada è quella di rincorrere i populisti facendo loro concorrenza sul medesimo terreno». Ma la seconda strada non è «quella di costruire un programma liberista». Lasciamo questo compito a una destra che speriamo conservatrice, e non avventurista come quella attuale. La strada buona della sinistra è quella di ritrovare e rilanciare la sua visione riformista.
In questo senso faccio anche mio l’auspicio finale degli autori: «Speriamo che accada prima che il populismo consumi in pieno i suoi fallimenti, come è accaduto tante volte in Sud America. La seconda strada (quella del riformismo, nota mia) non sarà facile nel breve periodo, ma sarà vincente con un po’ di pazienza».