In “Economia della pace”, il libro di Raul Caruso, l’autore sposa la visione di Kenneth Boulding: l’economia deve “superare il paradigma neoclassico in cui i sistemi di scambio costituiscono il tradizionale ed esclusivo campo di indagine della scienza economica”.
Perché ho raccolto il suggerimento di mio figlio Tommaso di leggere “Economia della pace” di Raul Caruso (Il Mulino, 2017)? Perché ho sempre creduto che “si vis pacem para pacem”, se vuoi la pace devi agire continuamente per averla, al contrario di quanto suggerisce l’antico detto romano “si vis pace para bellum”, se vuoi la pace prepara la guerra. E perché mi ha sempre intrigato “Il terribile amore per la guerra”, per richiamare il titolo di un libro di James Hillman (Adelphi, 2005). Quanto ai temi di cui mi sono occupato in precedenza, del lavoro, delle disuguaglianze, delle relazioni tra economia e bellezza, non vi è dubbio che la scelta tra pace e l guerra abbia effetti rilevanti su di essi.
Il testo è di difficile lettura per la complessità degli argomenti trattati, frutto di una ricerca di straordinaria ampiezza sulla letteratura economica che ha a che fare con il tema della pace. L’autore sposa la visione di Kenneth Boulding, economista che fu tra i fondatori della teoria dei sistemi, secondo cui l’economia deve “superare il paradigma neoclassico in cui i sistemi di scambio costituiscono il tradizionale ed esclusivo campo di indagine della scienza economica”. Deve invece allargare il suo interesse a un triangolo che comprende, oltre lo scambio, la coercizione (caso tipico: la rapina) e l’integrazione (caso tipico: il dono).
Dopo aver affermato che l’economia, e a maggior ragione quella della pace, “si arricchisce dei contributi provenienti da altre scienze sociali”, l’autore dichiara che “pilastro fondamentale dell’economia della pace è la classica distinzione tra attività produttive e improduttive”. In parole povere, la scelta tra il burro e i cannoni.
La premessa teorica apre la strada per una vasta disamina delle possibili relazioni tra conflitti da una parte e variabili economiche e sociologiche dall’altra. Queste relazioni confermano in buona parte evidenze emergenti dalle vicende di diversi paesi, come ad esempio la cosiddetta “maledizione delle materie prime”, che collega la probabilità di guerre civili con le condizioni economiche di paesi poveri e dipendenti esclusivamente dalle produzioni e dalle quotazioni di particolari materie prime o agricole. I cambiamenti nelle produzioni e nei prezzi di questi beni aumentano le disuguaglianze, causando grandi rendite per pochi soggetti e povertà per le popolazioni.
Tuttavia dalle ricerche non emerge una relazione diretta tra conflitti e povertà. Come rileva l’autore, “La povertà non è un predittore di violenza politica se non nella misura in cui essa è percepita come ingiusta rispetto alle aspettative degli individui”. Da ciò lo stretto rapporto tra condizioni di guerra o pace e livelli d’istruzione.
Alcune ricerche hanno confermato la correlazione positiva tra disoccupazione e conflitti e negativa tra conflitti e sistemi sociali di welfare. Un alto livello di disoccupazione favorisce l’insorgere di conflitti, mentre l’esistenza di sistemi di welfare li rende meno probabili.
Nella sua parte centrale, il libro sembra dedicato più che all’economia della pace all’economia di guerra. Da questo punto di vista, Caruso lamenta che “l’assenza di un’analisi sistematica dei conflitti abbia - purtroppo - portato gli economisti a sottostimare il ‘peso improduttivo’ della violenza, sia collettiva che individuale”. E mette in luce la “presenza di un’economia permanente di guerra, seppur in assenza di un confronto bellico”. Nonostante ciò, ritiene ormai acquisita da parte della maggioranza degli economisti l’idea che le spese militari frenino lo sviluppo economico.
Spese militari e conflitti sono causa di impoverimento in quanto distorcono lo sviluppo del capitale umano, alienano da obiettivi produttivi le risorse destinate alla ricerca, favoriscono comportamenti speculativi e corruzione, incidono negativamente sulla produttività, provocano squilibri di bilancio attraverso una crescita incontrollata del debito pubblico.
Gli effetti devastanti dei conflitti si prolungano poi nei periodi successivi
L’autore dedica una particolare attenzione agli effetti delle spese militari e dei conflitti sul capitale umano, che “ha un ruolo primario per lo sviluppo di lungo periodo”. Spese militari e conflitti hanno un effetto dirompente sulla continuità sinergica dell’apprendimento degli esseri umani nei diversi stadi della vita. A partire dalla prima età: il drop-out dei bambini dal percorso scolastico in caso di conflitti preclude l’apprendimento di abilità cognitive e socio-emotive acquisibili solo a quell’età. Anche il servizio militare ha un effetto distorsivo sulla formazione del capitale umano. Inutile dire degli effetti di un conflitto armato in termini di perdite umane nel fiore degli anni. Ma gli effetti devastanti dei conflitti si prolungano poi nei periodi successivi, in termini di difficoltà di riconversione delle competenze dalle attività militari alle civili, di disoccupazione e di salari più bassi dei reduci, di salute e invalidità e conseguenti spese sanitarie e assistenziali, di disadattamento, di criminalità.
L’autore contesta inoltre la “fiducia acritica nei benefici tecnologici da un sistematico investimento in armamenti”. Rileva che Internet non è nato, come molti ritengono, nell’ambiente militare, bensì in quello universitario per la condivisione dei risultati delle ricerche scientifiche. Al contrario, il segreto che avvolge le tecnologie militari tende a rallentare la loro conversione in attività produttive. Le spese militari hanno anche effetti negativi sulla produttività. Cita il Giappone, la cui alta produttività è stata dovuta anche alle limitazioni impostegli dai trattati di pace in fatto di spese militari.
Inoltre, quello che è stato chiamato il “complesso militare-industriale”, essendo sottratto in gran parte all’economia di mercato o costituendo comunque un mercato non trasparente, è anche esposto a manovre di lobby, a fenomeni di corruzione, oltre a favorire rendite monopolistiche. Dalle ricerche emerge in particolare una correlazione tra corruzione ed espansione della spesa militare. La maggiore diffusione di armi da fuoco è associata con una maggiore intensità di morti violente, omicidi, suicidi e altre forme di violenza. L’aumento delle spese militari è anche associato a un peggioramento della qualità del governo e delle istituzioni.
Sulla base di questa estesa disamina dei risultati delle diverse ricerche, Caruso formula una serie di indicazioni per la realizzazione di una economia di pace.
Prende atto del fatto che non è possibile proporre un’economia completamente irenica, priva di spese militari e conflitti. Le scelte in materia di economia di pace debbono fare i conti anche con condizionamenti esterni, come alleanze o controversie internazionali, che comunque comportano, se non conflitti, la destinazione di risorse economiche a spese militari. “È il bilanciamento tra attività produttive e improduttive, dichiara, a determinare il risultato economico di una società”.
L’affermazione di John M. Keynes, secondo cui le scelte politiche di oggi vengono spesso fatte sulla base di teorie superate di ieri.
Auspica comunque un maggiore impegno politico-civile degli economisti per smascherare le idee sbagliate sulle spese militari. Cita l’affermazione di John M. Keynes, secondo cui le scelte politiche di oggi vengono spesso fatte sulla base di teorie superate di ieri. Purtroppo, osserva Caruso, vi sono molti “economisti-imprenditori” che invece di orientare i politici di cui sono consiglieri verso strategie di lungo termine, ne assecondano i comportamenti opportunistici, alla ricerca del loro favore e del consenso di breve termine.
La proposta che a me sembra particolarmente interessante è quella di stabilire un rapporto tra spese militari e spese per l’istruzione tendenzialmente più favorevole alle seconde.
Caruso crede nell’importanza degli accordi multilaterali internazionali e globali. Tra questi include ovviamente l’impegno di tutti per una politica di disarmo universale. Auspica inoltre accordi internazionali per ridurre e regolare la produzione di armi e sistemi di difesa e il loro commercio. Ritiene necessario inoltre (America non docet!) una limitazione e un controllo rigoroso sul possesso di armi.
Nell’ottica delle politiche economiche internazionali, Caruso propone interventi diretti a favorire lo sviluppo dei paesi poveri, cercando di promuoverne la diversificazione produttiva per ridurne la dipendenza da singole materie prime o agricole. Per quanto riguarda queste ultime, occorre creare le condizioni per la stabilizzazione dei prezzi. Nel breve termine, gli interventi mirati di peace keeping hanno dimostrato una correlazione positiva con la crescita economica di un paese afflitto da guerra civile.
Più in generale, ritiene necessario favorire le interdipendenze economiche su basi multilaterali piuttosto che bilaterali, rafforzando le istituzioni internazionali come sedi in cui regolare e comporre le eventuali controversie. L’obiettivo della pace dovrebbe essere anche introdotto tra i principi guida degli scambi commerciali internazionali, e la pace dovrebbe essere posta non solo come obiettivo di sicurezza, ma anche come bene pubblico globale da preservare e promuovere.
È interessante la visione politica che ispira Caruso, anche nell’ottica, quanto mai attuale, che vede la crisi dei tradizionali stati-nazione, l’insorgere di rivendicazioni indipendentiste e le difficoltà delle istituzioni internazionali (dai casi Brexit, Catalogna, Kurdistan, ai problemi dell’UE e dell’ONU). Premesso che gli stati autoritari sono la negazione dell’economia della pace, che è associata invece positivamente con i sistemi democratici, Caruso esprime una visione autonomista di questi ultimi. Ritiene cioè più confacenti ad una economia di pace i sistemi di democrazia decentrata, “consensuale”, rispetto a quelli di democrazia maggioritaria.
Il vasto e acuto excursus di Caruso sull’economia della pace, e le apprezzabili proposte che ne trae, suscitano comunque domande che, come egli stesso dichiara, chiamano gli economisti a ulteriori ricerche. Ricerche che implicheranno ancora una crescente integrazione tra l’economia e altre scienze sociali, come la psicologia e la sociologia, senza dimenticare l’esperienza storica.
Un primo argomento su cui avanzerei domande è quello del confine tra attività produttive e improduttive. Le attività economiche acquistano evidentemente valore (e disvalore?) in relazione ai bisogni e desideri degli uomini. Se in un dato periodo le persone avvertono un maggiore bisogno di sicurezza, gli investimenti e le spese in inferriate alle finestre e in vigilantes saranno da attribuire ad attività produttive o improduttive? Caruso propone, tra il burro e i cannoni, una terza categoria di prodotti che chiama “gelati”, ma confesso di non averne capito bene la natura.
Oggi assistiamo a una crescente domanda di sicurezza
Oggi assistiamo a una crescente domanda di sicurezza, causata dalla paura dell’immigrazione, dalle notizie sulla criminalità, dalla sensazione della presenza di un nemico pervasivo. Questa domanda è alimentata da una diffusa disinformazione, ad esempio sulla criminalità, la cui percezione è superiore all’evidenza statistica ed è cavalcata da demagoghi e presumibilmente da interessi economici che prosperano sulle spese militari. Che fare? Non vedo altri antidoti a queste derive verso la violenza se non una informazione obiettiva, responsabile e influente, la diffusione dell’istruzione e della partecipazione civile, governi e leadership autorevoli, riduzione visibile delle disuguaglianze inique e della povertà.
Un aspetto che mi sembra da approfondire è quello che Hillman ha chiamato “un terribile amore per la guerra”. Forse questo “amore” fa parte di un più vasto sentimento degli uomini, che è l’opposto del desiderio di sicurezza. Usando un termine che Hillman stesso riprende da Kant, lo chiamerei “aspirazione al sublime”: la pulsione ad uscire dalla noia, del tran tran quotidiano, dalla triste e vecchia promessa socialdemocratica di una tranquillità passiva “dalla culla alla bara”. Questo amore si traduce nel desiderio di assistere e al limite di partecipare a eventi calamitosi, a vicende intessute di sesso e violenza (Hillman risale addirittura al rapporto extraconiugale tra Ares e Afrodite) , a combattimenti, a guerre. E nell’ammirazione irrazionale per la “bellezza” delle armi, dalle pistole ai kalashnikov ai carri armati ai missili, Non è mancato chi ha esaltato la guerra come “sola igiene del mondo”.
Queste pulsioni includono il gusto della competizione, insito nell’animo umano. Ho sempre pensato che gli antidoti più efficaci contro la guerra siano i commerci e le competizioni sportive internazionali, che quindi sono da incentivare in modo sistematico e regolato. A cui aggiungerei le attività creative, artistiche e imprenditoriali, in quanto “devianti” rispetto al quieto vivere.
La domanda di bellezza, dalle opere d’arte agli scenari naturali, è molto superiore all’offerta.
La proposta di Caruso di stabilire un giusto rapporto tra spese militari e spese per l’istruzione, tendenzialmente favorevole a quest’ultimo, è più che auspicabile. Ma non si può non riflettere sull’avvento del nazismo in Germania, un paese tra i più avanzati nella diffusione dell’istruzione e persino del civismo. Questa riflessione porta ad attribuire importanza non solo all’istruzione, ma alla cultura in generale. “La bellezza salverà il mondo”, affermò Dostoevskij, che di bene e di male se ne intendeva. Come ho avuto occasione di osservare, la domanda di bellezza, dalle opere d’arte agli scenari naturali, è molto superiore all’offerta. Un aumento di quest’ultima forse contribuirebbe al mantenimento della pace.
Un’attenzione particolare merita il chiaro orientamento di Caruso a favore di sistemi democratici autonomisti, elemento fondamentale dei quali è l’autonomia fiscale. Questo orientamento deriva evidentemente dalla constatazione e convinzione che l’inclusione e la partecipazione attiva dei cittadini al governo della cosa pubblica sia un potente antidoto contro la guerra.
Un sistema pluralista accentua la competizione, che implica di per sé una tendenza verso la disuguaglianza.
Caruso sa bene che le democrazie pluraliste presentano due problemi: quello dell’eguaglianza e quello dell’efficienza. Un sistema pluralista accentua la competizione, che implica di per sé una tendenza verso la disuguaglianza. Esso richiede quindi importanti strumenti di garanzia contro le esclusioni e le povertà. È anche noto che le democrazie pluraliste sono nel breve termine meno efficienti di quelle maggioritarie. Al contrario, come già rilevava Tocqueville nel suo studio della democrazia americana, nel lungo termine il pluralismo è vincente non solo politicamente ma anche economicamente. Ma il problema sta proprio nel come far si che classi dirigenti ed opinione pubblica riflettano e agiscano sui problemi in modo sistemico e di lungo termine. Il che porta di nuovo il discorso sui problemi della comunicazione, della leadership, del consenso, di una cittadinanza attiva.