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Per la quarta volta, è andato in scena ad Aliano il “Festival della paesologia” voluto e diretto da Franco Arminio. Sollecitato da opinioni contrastanti, il nostro inviato ha seguito la rassegna, provando a riflettere su pregi e difetti

 

Da tempo volevo andare ad Aliano, al Festival della paesologia di Franco Arminio, ancor più dopo l'intervista realizzata e pubblicata su queste pagine lo scorso autunno (l'intervista è un buon riassunto per il lettore che non sa chi sia Arminio e di cosa tratti il festival). Volevo andare a vedere cosa facesse concretamente lo scrittore dietro il velo della sua poesia, dietro quelle sue pagine ricche di temi geografici che mi sono cari e a cui, in questi anni, ho dato spesso la stessa importanza: il margine, l’incompiutezza, l’avversione all’efficientismo e al capitalismo somatico, la salvezza dei luoghi. Dopo quell'intervista mi è capitato poi, parlandone con amici o navigando in internet, di imbattermi in critiche e opinioni negative riguardanti l'evento o l'intera azione di Arminio: “il suo pensiero è inconsistente”, “lui un accentratore”, “il festival non lascia nulla a quelle terre”, arrivando fino ad accuse di complicità con i petrolieri (da cui Arminio si difese così).

Questo agosto sono riuscito finalmente a raggiungere Aliano e vivere per tre giorni in mezzo al festival. Mi sono sentito in dovere di ragionarci un po' sopra e di provare a capire meglio perché un festival che in fin dei conti non fa male a nessuno desti diverse critiche e sospetti. Prendete le prossime righe come sintesi di ragionamenti a voce alta e nulla più. Le sentenze le lasciamo volentieri ad altri.

 

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Il contesto

Aliano, anzitutto. Paese di confino di Carlo Levi, Aliano è due colli di argilla, uno vissuto e uno abbandonato dopo le fratture scomposte derivanti dal terremoto dell’Irpinia, 1980. Girando la Basilicata i conti con la crosta irrequieta li si può fare più volte, non mancano occasioni e paesi a pezzi. Tra Lucania e Irpinia i segni delle precedenti grandi scosse sono cicatrici lì da vedere.

Intorno a questi paesi una terra ricca di alterità, distante dal mio e dal nostro mondo: guardandola sfrecciare al finestrino o quasi immota dall’alto di una rupe, la Basilicata è simile a un assalto di animali selvatici, non ti lascia fermo, dentro è tutto un vibrare.

 

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Il festival

Partiamo dal punto fondamentale. In un tempo in cui si parla solo di messa a rendita e vendibilità, di qualcosa di simile alla paesologia, di uno sguardo clemente e poetico sulla vita, abbiamo infinitamente bisogno. Ma non è solo questo. Ci sono diverse intuizioni felici nel festival di Aliano: il programma, per esempio, è sfilacciato in vari luoghi e ad orari approssimativi. Si legge sui volantini: evento al calar del sole, musica dopo pranzo, parlamento sul paesaggio poco prima dell'alba. Bisogna, insomma, cercare i luoghi e le persone. Si è in qualche modo obbligati a non essere passivi, a prendere parte. È al contempo interessante l'idea di restare per cinque giorni, giorno e notte, immersi in un programma senza fine, che dilata i tempi, avendo modo di perlustrare il paese al proprio passo, avendo spazi di libertà.

Chi si gode di più il festival è colui che si perde gli eventi in programma”, dice tra il serio e il faceto Arminio il primo giorno. Discutibile o meno, questa filosofia del “pressappoco” crea un ambiente di condivisione meno ingessato dei soliti festival con pass, mille eventi, tacchi e trucco. E con i tempi, anche gli spazi sono morbidi: c'è la sensazione che non ci sia un vero e proprio palco, ma un gruppo di pari che condividono storie, musiche e pensieri in forma piuttosto libera. Infine, è interessante l'idea di lasciare saltuariamente la base di Aliano per visitare altri paesi, di conoscere il territorio e penetrare il paesaggio, portandosi dietro poesie, canti, danze e un possibile messaggio (che, ridotto ai minimi, è perlomeno di potenziale interesse turistico).

Tuttavia, col passare del tempo, stando al festival, ai miei occhi sono emersi sempre più evidenti alcuni aspetti negativi: in primo piano, disorganizzazione, approssimazione e pochi contenuti. Nei giorni ho avuto talvolta la sensazione di essere dentro a una sorta di sagra itinerante lasciata un po' al caso. La sensazione del pressappoco al secondo giorno diventa sostanza, si ha l'idea che sia tutto messo in piedi da un momento all'altro, senza riflessione o preparazione. La bella idea di andare in gita nei borghi limitrofi, ad esempio, viene attuata in modo tragicomico: ognuno con la propria auto, creando un serpentone di un centinaio (o forse più) di macchine che invade di volta in volta i piccoli centri lucani senza grande considerazione della comunità locale. In questo peregrinare l'attenzione è sempre rivolta dentro il cerchio del gruppo, di rado a quanto sta fuori, intorno. Non credo che questo abbia a che fare con la paesologia e con le pagine di Arminio; pagine la cui credibilità, in quei momenti del festival, almeno dentro me, ha vacillato.

 

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La poetica di Arminio

Le persone sono richiamate ad Aliano dai libri di Arminio, che contengono righe spesso dolenti, solitarie, politiche nel loro essere severamente critiche. Senza quei temi e quelle parole tutto il movimento che si vede al festival non sarebbe possibile. Richiamati tra i calanchi dalle sue pagine i visitatori una volta arrivati trovano però qualcosa di diverso: i temi politici finiscono sottotraccia, diluiti in una una serie di momenti un po' sconnessi tra loro e di cui non viene quasi mai richiamato il senso di fondo. Così, il festival ogni tanto assume le sembianze di un raduno di amici – che di per sé è una cosa bella – senza un progetto di costruzione serio, senza l'intenzione di dare seguito al disegno politico evocato, qualcosa che coinvolga via via altre figure e ruoli utili a dare concretezza all'intuizione poetica iniziale. Il festival finisce per essere una vetrina ambigua che evidenzia in tanti suoi momenti questa mancanza.

Scrive Arminio nel documento per la candidatura di Aliano a Capitale della cultura europea 2018:

«La società dell’autismo corale può essere curata solo in luoghi in cui c’è tanto spazio e poche persone. Ci vuole uno spazio che è tutto dentro la modernità, ma che è poco urbanizzato. Uno spazio in cui salutare è un gesto coltissimo, è grande cultura passare il tempo, avvertire quello che accade nei volti, sentire la pioggia, sentire gli animali, sentire i morti. Un paese capitale della vita scampata al genocidio degli affari, alla smania del tempo pieno, al delirio di sfruttare ogni occasione. Aliano non ha avuto fretta, non ha mai fretta. La sua grazia è nel pane, nell’olio. Un paese è bello quando non somiglia a nessun altro, quando ha un’aria solamente sua, un’aria inattuale, un’aria che sembra ignorare quale secolo è in corso.
Si dice che l’Appennino sta morendo e invece l’Appennino è uno dei luoghi più intensi d’Europa. Il modello economico dominante ha portato via molte persone dai loro paesi, ma nei prossimi anni non sarà più così. L’Appennino bisogna guardarlo con occhi nuovi. Pensate al sacro che si annida nei luoghi più affranti e remoti. Come se Dio e la poesia, scacciati dal meccanismo infernale del consumare e produrre che impera nelle pianure, si fossero andati a nascondere nei vicoli dei paesi sperduti, nelle facce degli anziani che non parlano con nessuno, nelle campagne dove il bosco cancella le tracce dell’agricoltura. La festa della paesologia ha poco a che fare coi creativi e con certa cultura, è piuttosto un raduno attorno alle ultime tracce del sacro
».

Nella poetica di Arminio il tempo “inutile” è la porta che si apre e dà accesso al sacro. È quello che manca a dare valore, non quello che c'è. Come in chiesa. Per debellare l'autismo corale bisogna sospendere il lavorio incessante che accompagna i giorni, il rumore di fondo, bisogna staccare gli occhi dagli schermi e tornare a guardare avanti, a guardare in faccia al futuro e al prossimo. Il festival letto in questo senso potrebbe essere un prodotto coerente, una manifestazione di tempo “inutile” condivisa e portata per certi versi all'eccesso. Una riunione in cui, appunto, è chi si perde il programma a beneficiare maggiormente del rito. I tempi morti, l'approssimazione, certo assieme alla convivialità e alle arti, divengono così palestra per la ricerca di un senso comune. Non vi convince? 
Fa niente. O si aderisce a questa narrazione e si entra nel cerchio o si assiste da fuori a quella che assume i tratti di una allucinazione collettiva.

Le teorie di Arminio sono fragili, si rifanno a idee diverse, ci si può leggere dentro qualche idea di Illich, Latouche, Levi e Pasolini, pur senza che tra questi pezzetti ci sia necessariamente una ricerca di coerenza. E' un pensiero essenzialmente contemporaneo, che contemporaneamente utilizza più discorsi, intreccia più fili di ragionamento.

 

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L'impegno del poeta

Il professor Sapelli nei suoi corsi monografici su Pasolini alla Statale di Milano era solito sottolineare che non si può chiedere al poeta un pensiero forte, coerente, inattaccabile, il poeta non è un sociologo, un economista o un esperto di sviluppo locale, il poeta spesso arriva all'intuizione, a quel che riesce a disvelare con le sue parole. Chi legge deve limitarsi a guardare attraverso lo squarcio di quella rivelazione. Secondo il professore è quindi sbagliato chiedere a un artista di diventare attuatore concreto.

I detrattori direbbero però che è lo stesso Arminio a sottolineare continuamente quanto sia essenziale unire politica e poesia e quindi lecito attendersi da lui coerenza e concretezza di proposte.

 

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In conclusione

La mia analisi si può fermare qui. Tra chi pensa che Arminio sia una specie di venditore di fumo, perché non fa seguire alla sua poesia un progetto serio per le terre dell'Italia interna e chi invece pensa che unico compito del poeta sia quello di darci l'occasione di guardare e vedere.

Tant'è, ammesso che ci sia dell'incompiutezza, che manchi qualcosa, a me sembra tuttavia che le pagine e le iniziative di Arminio in una terra difficile, spolpata dal Grande Abbandono e provata da una natura selvatica, siano un fatto positivo: sono tentativi di far scorrere un nuovo flusso lungo arterie secche, danno un'idea possibile di sviluppo (a tal proposito si può leggere il recente aggiornamento del “Manifesto di Trevico”) e fuori dal coro del marketing territoriale che tutto inaridisce riducendo a numeri e appetibilità. Sta alle persone e ai territori del meridione interno coltivare queste intuizioni, far diventare le pagine e le iniziative dello scrittore uno degli strumenti per provare a costruire qualcosa di solido.

Gli autori di Vorrei
Alfio Sironi

Mi occupo di tematiche geografiche dentro e fuori la scuola.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.