BandAutori 31. In questo numero il cantautorato rock con uno sguardo ai '70 di Agnese Valle e quello più orientato agli '80 di Palazzo. Per "Libri che suonano" i Whisky-a-gogo e i Teddy Boys secondo Primo Moroni.
Agnese Valle “Allenamento al buonumore” (Autoproduzione)
Crowdfunding: più che volontà, necessità ed esigenza. Perché con il sovraccarico tecnologico registrare un disco è facile, ma ha pur sempre un costo, e se i talent-scout sono dati per dispersi, tanto vale sbrigarsela da soli. Magari chiedendo sostegno ai fan. Agnese Valle è una cantautrice e clarinettista romana, giunta al suo secondo album, dopo il precedente “Anche oggi piove forte…”, pubblicato due anni fa e candidato al Premio Tenco nella sezione “opera prima”. Sinergie scaturite in tempi passati e presenti: musica, teatro, musical, cine-musiche. Tutto ebbe inizio con le frequentazioni alla Scuola Popolare di Musica del Testaccio e al Conservatorio di Musica Santa Cecilia di Roma. Primi utili e fruttuosi passi, tutti in divenire. Ed è melting-pop intrigante, un po’ agit-prop dei sentimenti e morso alla crisi di valori (ed è bene ricordare che non è capitata a caso, c’è chi l’ha creata, c’è chi l’ha voluta). Quindi: docente presso la Casa Circondariale di Rebibbia a Roma e un aforismo (?!?!) nella copertina interna del nuovo disco: “Perché non serve del talento ma allenamento”. Una modestia che è rivalsa. L’hanno vista collaborare con Raffaella Misti degli Acustimantico (una signora band quanto sottostimata, purtroppo), il suo clarinetto è stato d’aiuto nelle registrazioni di un signor album come “Il fischio del vapore” di Francesco De Gregori e Giovanna Marini. Membro stabile dell’Orchestra 41° Parallelo e successivamente della Med Free Orkestra (quest’anno sul palco del concertone del 1° Maggio organizzato dalla triplice sindacale). E forse un pallino, un riferimento stabilizzante (anche di più): quel cantautorato rock che in passato era composto anche da occhiali con la montatura colorata, virtuosismi chitarristici rock, voce allo spumantino e che narrava di lupi, pigri, città del centro Italia tristi e di donne. Dolci, che Agnese Valle, sconvolge e rilegge con bellezza (più amara) e si scoprono contro. La transizione è quella di “Agnese contro Agnese”, chiaramente dedicata a Ivan Graziani. E l’Agnese (Valle) romana sale sul palco, va in tour e se la vive e l’esterna così. Contatto diretto col pubblico. C’è da sottolineare poi il “pensare positivo” della Valle: mai banale, melenso, scontato ma in grado di elargire percorsi. Quasi un gendarme della (non) frontiera, perché la musicista ha intuito (lo si percepisce nei testi che sono crepuscolo quanto cavo di ormeggio) che la vera scommessa è quella di fare camminare di nuovo insieme una gran quantità di solitudini. Il disco suona mainstream e non certo da cripta carbonara e per pochi affezionati. 10 canzoni pronte ad aprirsi a ventaglio. Fibra, istantaneità di una street-photo in movimento, buona lena, conquista di spazi, frequentare luoghi. Approvvigionamenti, svolte prospettiche, annotare tutto su un quaderno da tenere sempre sotto braccio. E’ pop(autoriale) con l’ottimizzo in terzo luogo e ben governato. Scorrevole, con l’eccellente rappresentanza della band: Marco Cataldi (chitarra), Stefano Napoli (basso elettrico e contrabbasso), Cecilia Sanchietti (batteria). Signorile accoglienza, dunque. Caratterizzata da “Temperatura di fusione” sguardo in prossimità di ipotetici traguardi, “Venerdì” col suo mal di testa, timoroso di giudizi che esigono il “tutto perfetto” e che svanisce con la visione di una piccola rosa, “Allenamento al buonumore” invitante cammino a vivere meglio e a non avere paura nemmeno della bocca di un vulcano, “Quella del vestito bianco” davanti a un menù, che scegli sempre tu (cioè l’altro), canzone col cuore tatuato, “Maledette malelingue”, cover di Ivan Graziani e possibile copertina-tributo per un eventuale catalogo. Che si trova all’uscita, come in ogni una mostra che si rispetti, e dove nel contrasto tra sorriso e sogghigno… vince il primo. Voto: 8 (Massimo Pirotta)
Palazzo “Prima” (I Dischi Blu)
Dopo la sbornia electro anni ’80 dello scorso numero della rubrica proseguo sulla stessa linea andando ad analizzare l’esordio solista di Diego Palazzo, che sceglie di presentarsi col solo cognome e di intitolare l’album “Prima”, come opera prima o forse come riferimento allo sguardo verso il passato che ha la sua musica. Diego, già attivo in ambito indie-pop con gli Egokid e come strumentista su disco e in tour per i Baustelle, oltre che come critico musicale su varie testate, in questa occasione fa praticamente tutto da solo, facendosi aiutare solo da Giacomo Carlone in sede di produzione e dal collega negli Egokid Piergiorgio Pardo per la scrittura di un brano, “Distante”. Il risultato del suo lavoro è molto buono, uno sguardo al lato più notturno del synth-pop, con qualche necessaria apertura verso la luce dell’alba. Ci si muove quindi tra beat e melodie alla Kavinsky (l’apertura “Non ho più paura”), pezzi über-pop come “Single”, sperimentazioni sui loop un po’ Aphex Twin in “Per miracolo” e sguardi verso il grande pop italiano targato Battiato o Fossati (vedi la già citata “Distante” e la chiusura affidata a “Un mondo senza fine”, classicheggiante fin dal titolo). Unica pecca: qualche lungaggine che spezza il ritmo del disco in due-tre pezzi, “Sabotaggio”, che pure ha un beat quasi-house efficace, su tutti. Voto: 7 (Fabio Pozzi)
TOP 5. I dischi, di ieri e di oggi, più ascoltati negli ultimi giorni
Claudia Crabuzza “Com un soldat”, Ivan Cattaneo “Primo secondo frutta (Ivan compreso)”, Alberto Fortis “Alberto Fortis”, Juri Camisasca & Rosario Di Bella “Spirituality”, Folco Orselli “La stirpe di Caino” (Massimo Pirotta)
La Moncada “Nero”, Emma Tricca “Relic”, Guano Padano “Americana”, Edda “Stavolta come mi ammazzerai?”, Marina Rei “Pareidolia” (Fabio Pozzi)
Novità, ristampe, prossime uscite discografiche
Abhra “Abhra”, Bea Saintjust “Larosa”, Dedo “Cuore elettroacustico”, Emiliano Mazzoni “Profondo blu”, Fausto Leali “Il meglio di Fausto Leali”, Folkstone “Sgangogatt”, Giorgio Gaslini “Murales Promenade”, Giovanni Lindo Ferretti “Litania”, Giungla “Camo” (EP), J. Balvin “Energia”, Larsen “Of Grom Vim”, Joan Thiele “Joan Thiele”, Luchè “Malammore”, Lucio Leone “Lorem Ipsum”, Madelyn Reène & Jacopo Jacopetti “Some Like It Lyric”, Mauro Ottolini Sousaphonix “Buster Kustler”, Michele “Ti cercherò”, Nicolò Annibale “Ce voglio credere”, Paolo Bertoli “Vado in Colombia”, Sergio Armaroli Trio Feat. Giancarlo Schiaffini “Micro And More Exercises”, Stefano Bollani “Les fleurs bleuses (LP), Silentways “Silentways”, Star Pillow “Above”, Sugar Candy Mountain “666”, Sulutumana “Giù a manetta!”, Teddy Reno “Pezzi da 90”, The Buddy Holden Legacy Band “Back And Forth The King’s Faith” (m.p.)
Libri che “suonano”
Due scritti di Primo Moroni, tratti da “La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici” (Shake Edizioni)
Whisky-a-gogo. Negli anni Sessanta chiude una serie di sale da ballo e nasce un nuovo tipo di locale, il whisky-a-gogo. La caratteristica fondamentale di questi luoghi è che bisogna entrare accompagnati. Bisogna essere in coppia. Dunque non ci si può entrare per “cuccare”, per cercare la ragazza, per avere un incrocio con l’altro sesso. Sono ovviamente favoriti i giovani che hanno una frequentazione scolastica e un circuito amicale: è poco piacevole andarci con la sorella… Nei whisky-a-gogo il costo d’ingresso comprende una consumazione, l’ambiente è elegante, la musica è riprodotta con i dischi, non c’è più l’orchestra che prima era sempre presente nelle sale da ballo. Nei quartieri popolari, la nascita di questi locali è interpretata come genericamente classista, anche se non con un significato politico-ideologico, i vetri di alcuni di questi locali (in Duomo e in piazza Biancamano) nei primi mesi di apertura vengono presi a sassate.
I Teddy Boys. Nel 1960, mentre a Genova i giovani contestano il sistema dei partiti e si oppongono al governo Tambroni, a Milano si sviluppa una nuova forma di aggregazione giovanile, quella dei Teddy Boys. Questi gruppi sono l’immagine della distruzione territoriale e sociale dei quartieri e nascono al Giambellino, alla Baia del Re, in zone storicamente segnate dalla malavita, tra gli sfrattati del centro espulsi nel quartiere dell’Ortica. I Teddy Boys non sono durati molto, ma hanno avuto una incredibile celebrità e attorno a questo fenomeno sono stati fatti diversi convegni. Giravano in moto, con giubbotti tipo chiodo, ma erano in realtà vecchie giacche di pelle da operaio che avevano recuperato per imitare lo stile di Marlon Brando ne “Il selvaggio”. Le bande degli anni precedenti, sostanzialmente, cercano al proprio interno una identità di gruppo, mentre i Teddy Boys erano giovani “arrabbiati” alla ricerca della rissa, reagivano all’emarginazione con la violenza e dalla periferia raggiungevano il centro della città. La loro connotazione politico-culturale era confusa, avevano di certo la consapevolezza di essere stati buttati fuori dai luoghi della cultura dell’innovazione per essere gettati allo Stadera, al Giambellino, all’Ortica. Calavano la sera verso il centro di Milano, in cui c’era una vita notturna molto intensa, puntavano quelli vestiti bene, scendevano dalla moto, li menavano senza motivo, poi se ne andavano. Così come erano apparsi misteriosamente, sono altrettanto misteriosamente scomparsi.