Monica Zornetta ripercorre l’incredibile vicenda di Ludwig, il duo neonazista che si rese protagonista di svariati delitti negli anni ottanta
La città di Milano è stata testimone di alcuni tra i più sanguinosi attentati avvenuti in Italia negli ultimi decenni.
Tutti certamente ricordano la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti), la strage alla Questura di Milano (17 maggio 1973, 4 morti) o la strage di via Palestro (27 luglio 1993, 5 morti).
I più preparati ricorderanno forse anche la strage mafiosa di via Moncucco (3 novembre 1979, 8 morti) e la strage brigatista di via Schievano (8 gennaio 1980, 3 morti).
Milano è stata però anche teatro di un’altra spaventosa strage che tuttavia è stata completamente rimossa dalla coscienza collettiva. Sul luogo dell’eccidio infatti non è stata posta alcuna targa commemorativa, e in occasione degli anniversari dell’attentato non viene mai tenuta alcuna commemorazione pubblica.
È un’ipocrisia, ma tant’è. Tale oblio è dovuto al fatto che – parliamoci chiaro – le vittime non sono “pure” come i clienti della banca di piazza Fontana o come i vigili del fuoco di via Palestro. No. In questo caso le vittime sono considerate per certi versi come corrotte e impure: sei cittadini arsi vivi che Milano ha preferito dimenticare per non dover citare il peccato che quel rogo intendeva purificare.
Sabato 14 maggio 1983. Mentre una trentina di spettatori stava assistendo al primo tempo del film porno Lyla, profumo di femmina, due giovani si presentarono alla cassa del cinema «Eros Sexy Center» di viale Monza 101 (vicino alla fermata del metrò Rovereto), comprarono i biglietti, entrarono in sala e si sedettero nelle ultime file.
Nessuno fece caso al fatto che portavano con sé due borsoni. Dentro i borsoni c’erano però due taniche di benzina.
Alle ore 17.45 si spensero le luci e cominciò il secondo tempo del film. I due spettatori si alzarono dai loro posti, aprirono i borsoni e rovesciarono il contenuto delle taniche sul pavimento della sala. Poi, mentre scostavano le pesanti tende di velluto per scappare via, gettarono a terra un cerino accesso.
L’incendio che divampò fu violentissimo. Tutti gli spettatori riuscirono a scappare utilizzando le uscite di sicurezza – chi con le proprie gambe, chi portato a braccia da altri spettatori – prima del crollo del tetto.
Tuttavia numerosi spettatori e alcuni soccorritori dovettero essere ricoverati in ospedale – chi per ustioni, chi per intossicazione da fumo – e nei giorni successivi all’incendio sei di loro morirono. Le vittime erano cinque spettatori di un film porno e Livio Ceresoli, un passante che si era precipitato nella sala per prestare soccorso e che aveva riportato ferite di una portata tale da causarne poco dopo la morte.
Una settimana dopo il rogo, l’Ansa di Milano ricevette un volantino che rivendicava l’attentato con queste parole: «Rivendichiamo il rogo dei cazzi. Una squadra della morte ha giustiziato uomini senza onore, irrispettosi della legge di Ludwig». Gli autori del volantino, per non essere scambiati per mitomani, citarono dettagli che fino ad allora non erano stati divulgati dagli investigatori: «per appiccare l’incendio al cinema sono stati usati una tanica e un bidone di plastica ai cui manici sono stati fissati rispettivamente una catenella da lavandino e una fascetta metallica marca Serflex». La sigla che rivendicò l’azione – Ludwig – era ben conosciuta dalle forze dell’ordine perché aveva già rivendicato diversi omicidi compiuti negli anni precedenti.
L’escalation criminale della formazione terroristica Ludwig – che oggi viene ripercorsa dal libro di Monica Zornetta, Ludwig: Storie di fuoco, sangue, follia (304 pp., Baldini Castoldi Dalai Editore, 16,50 euro) – ebbe infatti inizio il 25 agosto 1977 a Verona, quando diedero fuoco al senzatetto Guerrino Spinelli mentre dormiva. Un anno dopo, il 17 dicembre 1978, a Padova uccisero a coltellate il cameriere omosessuale Luciano Stefanato. La stessa sorte toccò al tossicodipendente Claudio Costa il 12 dicembre 1979 a Venezia. Passò ancora un anno, e il 20 dicembre 1980, a Vicenza, massacrarono a colpi di ascia e di martello Alice Maria Baretta, prostituta.
Non era ancora finita. Il 24 maggio 1981 incendiarono la torretta di Porta San Giorgio a Verona, dove morì lo studente Luca Martinotti. Il 20 luglio 1982 uccisero a martellate Giovanni Battista Pigato e Mario Lovato, anziani frati del Santuario della Madonna di Monte Berico. Ormai era un delirio di azioni sempre più frequenti. Il 26 febbraio 1983 a Trento assassinarono con un punteruolo il sacerdote Mario Bison. Il 14 maggio 1983 incendiarono il cinema «Eros Sexy Center» di Milano provocando, come abbiamo visto, sei vittime. Il 7 gennaio 1984 a bruciare fu la discoteca «Liverpool» di Monaco di Baviera, e nel rogo rimase uccisa la cameriera Tartarotti Corinne.
La parabola criminale di Ludwig si interruppe domenica 4 marzo 1984. Due ragazzi si presentarono alla cassa della discoteca «Melamara» di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. C’era una festa in maschera, e i due ragazzi si erano travestiti da Pierrot. Comprarono i biglietti ed entrarono in sala. Con sé avevano ancora una volta due borsoni, e nei borsoni c’erano ancora una volta delle taniche. I due cominciarono a versare benzina sul pavimento del locale come avevano già fatto all’«Eros Sexy Center» di Milano e al «Liverpool» di Monaco di Baviera, ma questa volta qualcosa andò storto: i buttafuori del locale li individuarono e li immobilizzarono immediatamente, domando poi le fiamme in pochi minuti. I due piromani, che i Carabinieri sottrassero ad un tentativo di linciaggio, si chiamavano Marco Furlan, 24 anni, studente in Fisica, figlio di un primario di chirurgia plastica al centro grandi ustionati dell’ospedale civile maggiore di Borgo Trento, e Wolfgang Abel, 25 anni, laureato in matematica, nato a Monaco di Baviera e trasferitosi in Italia con la famiglia da bambino, figlio di un dirigente assicurativo.
I processi che ne seguirono non riuscirono mai a far piena luce sulle motivazioni che li avevano spinti ad agire. Il loro desiderio di purificazione e di morte, al di là del loro generico quanto profondo disgusto morale per la società che li circondava, non ha trovato fino ad oggi una spiegazione razionale. I giudici, pur non trovando prove sufficienti per condannarli per i primi delitti, nondimeno condannarono Abel e Furlan a 27 anni di prigione a testa per tutte le azioni compiute a partire dal 1982, compresa quindi la strage al cinema «Eros Sexy Center» di Milano.
Oggi le pene sono state quasi del tutto scontate: Abel è in semilibertà, mentre Furlan – pur avendo alle spalle una fuga e una latitanza all’estero – è libero, e addirittura vive e lavora a Milano.
Questi sono i fatti nudi e crudi.
Diciamo subito che il saggio è scritto in modo scorrevole ed è ben documentato (in appendice sono riportate le copie dei famosi volantini che Abel e Furlan scrissero per rivendicare le loro azioni). Il saggio ha inoltre il pregio di ripristinare la “correttezza storica” degli eventi. In molti siti web viene infatti attribuita a Ludwig anche la strage in un locale di Amsterdam che provocò 15 morti. In realtà il colpevole di quel fatto fu catturato e condannato, e non c’entrava niente con Abel e Furlan.
La vicenda pone tuttavia problemi di “inquadramento storico”, diciamo così, che il saggio non riesce a risolvere. Non è una mancanza grave poiché nessuno è ancora riuscito a porre la questione nazista in termini che possano consentire una classificazione agevole. Detto in parole povere: i delitti di Ludwig furono causati da turbe psichiche di Abel e di Furlan o furono espressione di una rivolta politica di stampo neonazista?
Si tratta di una questione difficile da trattare. Nel 1989 Sergio Zavoli scrisse La notte della Repubblica (che poi fu anche una fortunata serie TV), un libro in cui il grande giornalista tentava di fare un triste contabilità dei morti di terrorismo in Italia dal 1969 al 1989. Ebbene, in quel suo pioneristico tentativo di sintesi, Zavoli non conteggiò i morti di Ludwig tra i morti di terrorismo e non citò mai Ludwig nelle 400 pagine del suo saggio.
Secondo Zavoli dunque, le azioni di Ludwig erano solo materiale da psichiatri, e i loro riferimenti al nazismo erano solo un epifenomeno della loro malattia privo di reale valore politico.
La posizione di Zavoli è comprensibile. D’altronde, anche a proposito del nazismo vero e proprio non si capisce mai bene quando siano finite le turbe psichiche dei suoi leader e quando sia cominciato il loro bieco progetto politico.
Ma siamo davvero sicuri che, nel caso di Ludwig, questa sia un’analisi corretta?
Il saggio che abbiamo tra le mani mette per esempio bene in luce come i Ludwig ebbero anche contatti, superficiali certo, con altri elementi del galassia del neonazismo del nord est e in particolare con quel gruppo che poi prese il nome di “Ronde pirogene antidemocratiche”.
Tuttavia la “spiegazione politica” è da prendere con le molle.
Per esempio è da escludere, e Monica Zornetta lo esclude categoricamente, secondo me a ragione, che i Ludwig siano stati manovrati o eterodiretti, cosa che invece capitò alla sezione veneta Ordine Nuovo, la nota formazione nazifascita (fuoriuscita dal movimento sociale e su posizioni, diciamo così, molto evoliane) che si rese protagonista della strage di Piazza Fontana.
Allo stesso modo Zornetta esclude, e secondo me anche qui a ragione, che le azioni di Ludwig possano essere ascritte a quella che generalmente è nota come la “strategia della tensione”, cioè quella serie di stragi e omicidi che dalla fine degli anni sessanta a metà degli anni ottanta avrebbero avuto come scopo quello di preparare il terreno nell’opinione pubblica a una svolta autoritaria di destra, e comunque anticomunista, in Italia. Le azioni di Ludwig invece – così puntigliosamente rivendicate con tanto di prove per essere sicuri di essere creduti e motivate come’erano da una schietta adesione al nazismo – erano totalmente inutilizzabili, e anzi controproducenti, in un contesto in cui l’intento doveva essere quello di convincere l’opinione pubblica italiana che fosse necessaria e auspicabile una svolta autoritaria di destra.
E tuttavia proprio qui si apre un campo di indagine interessante, che l’autrice sfiora appena, e cioè quello di tentare di capire il motivo per cui nel nord est italiano siano proliferati dagli anni sessanta in poi diversi gruppuscoli neonazisti, uno dei quali è stato Ludwig.
Il saggio è dunque un’interessante lettura che può aiutare a sviluppare molte riflessioni in merito a questioni come psichiatria/nazismo e nazismo/nord est italiano. Ma, come dicevo all’inizio, può servire anche a smascherare certe ipocrisie perbeniste.
Non mi stupirei se Furlan, che oggi vive a Milano, l’incendiario figlio di un primario di chirurgia plastica in un centro grandi ustionati, di tanto in tanto passasse anche per viale Monza, magari nel tratto dove ci sono i due vecchi ponti della ferrovia. Tra una grande banca e un negozio con le insegne coperte da fogli di giornale, tra un centro massaggi e due phone center, tra un negozio di restauratore chiuso e un ristorante cinese, al civico 101 c’è ancora un edificio basso là dove c’era il cinema «Eros Sexy Center». Sicuramente Furlan, passando davanti al civico 101. Uno sguardo imbarazzato, forse, di una persona attenta a non farsi notare.
Lo stesso imbarazzo che circonda le vittime di quel giorno, troppo poco pure e innocenti per meritarsi di essere ricordate.
Monica Zornetta, Ludwig: storie di fuoco, sangue, follia, Dalai editore, 2011, 303 pp, 16,50 euro
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