rodion

BandAutori 26. In questo numero musiche agli antipodi: il blues di Amanda Tosoni con Andrea Caggiari e l'elettronica dance-pop di Rodion. Per "Libri che suonano" uniamo la musica di Manchester con la generazione di Genova 2001.

Amanda Tosoni & Andrea Caggiari Duet “Amy On The 4 Strings” (Il Popolo del Blues/Audioglobe)

Strade impervie per blueswomen e bluesmen. Ancora oggi, caso a sè. Mentre rock, pop e dance frullano tra loro. Musicisti e cantori della musica del diavolo, della madre di tutte le musiche, magari superattivi nella stagione calda ed estiva quando persino gli assessori alla cultura sembrano svegliarsi dal loro torpore. Festival e rassegne a tema sia in grandi città che in piccoli centri. Durante il resto dell’anno, , stretti nei furgoncini, ad esibirsi in una ristretta rete di locali e club gestiti da capitani coraggiosi ma lontani dalla luce dei riflettori. Il panorama vuole il risultato immediato (e relativo incasso), è sempre più convenzionale, si fa un baffo di culture, storie e talenti che andrebbero promossi e propagandati con passione, competenza e sincerità. A controbilanciare il tutto, a “rischiare” affrontando magari lunghi tragitti, c’è un pubblico non da grandi numeri, ma agguerrito come non mai e che continua a seguire nei “sotterranei” i propri beniamini. Perché il blues, musica attraverso i secoli, continua ad essere musica viva. Magari l’hanno capito artisti dalla grande fama come Zucchero o Alex Britti, ma molti altri no. La scena internazionale continua a sfornare ottime registrazioni in studio, concerti dal vivo che scaldano il cuore. Si assiste al proliferare di figure femminili che non lesinano emozioni: Dane Fuchs, Jo Harman, Beth Hart, Ana Popovic, Susan Tedeschi e sono solo alcune. Bene, nell’Italia 2016 ad aprire per Bruce Springsteen c’è la band del Puma di Lambrate, cioè la Treves Blues Band. E visto che ci siamo, ricordiamo i compianti Roberto Ciotti, tra i supporter della data di Bob Marley allo Stadio di San Siro di Milano Anni 80 e Giulio Toffoletti, da Venezia, che nella sua carriera instaurò significative collaborazioni con musicisti del calibro di Alexis Korner, Herbie Goins, Mick Taylor, Eric Burdon, Paul Jones. Nonostante leggi mercantili avverse, non ci si lascia andare. E si continua a diffondere il verbo in maniera costante. Tra gli artefici, i due autori di questo album che è un caloroso omaggio alle Signore in Blues. Da Memphis Minnie a Etta James, da Bessie Smith a Nina Simone e continuando così. Amanda Tosoni alla voce ed Andrea Caggiari al basso elettrico, percussioni e voce, entrambi componenti della formazione Amanda e La Banda (anima e core) confezionano un album ricco di sfumature e in cui a prevalere è un ripasso doveroso e armonioso. Attraverso campi di cotone degli Stati Uniti di fine ‘800, spirituals,  gospel, la Saint Louis Anni 20 fino agli Anni 60. Il periodo in cui il blues iniziò ad iniettare intense dosi nel rock più sanguigno. Vicinanze soul, acrobazie vocali e strumentali, attimi intensi (“No More My Lord”, Nobody Knows The Trouble I’m Sun”), genuinità, spiritualità, evocazioni. Arrangiamenti ex novo e ampio spazio a vibrazioni che solo attente rivisitazioni possono elargire. Undici brani convinti, con senso dell’equilibrio e piccanti istrionismi. C’è l’anima. Voto: 7 (Massimo Pirotta)

 

 

Rodion “Generator” (Nein Records)

Da queste parti non si parla quasi mai di musica elettronica, forse pensando che chi si dedica a questo genere sia poco adatto alla definizione di “BandAutore”, che dà il titolo alla nostra rubrica. Questa volta facciamo però uno strappo alla regola e affrontiamo il nuovo disco di Rodion, “Generator”. Cosa ci spinge a parlarne? Forse il fatto che il musicista romano, vero nome Ed Cianfanelli, può essere considerato, secondo me anche più dei Daft Punk dell’ultimo esagerato disco, uno dei più degni eredi di Giorgio Moroder, che è pur sempre uno dei pochi italiani ad aver avuto un vero grande ruolo nella storia della musica pop, tanto che al suo ritorno sulle scene come DJ Giorgio inserì proprio un remix di Rodion nel suo set; oppure il successo mondiale sia di critica che di pubblico che Ed sta ottenendo, con serate in ogni continente; oppure, cosa ancor più importante, la bellezza delle canzoni contenute nel disco. Rodion ha infatti un talento enorme per le melodie, che caratterizzano praticamente ogni brano dell’album, e che si attaccano al cervello di chi ascolta come un bubblegum, qualità sempre più rara nel mondo dance di oggi (ci si avvicinano, anche se da angolature differenti, gli Hot Chip e pochi altri). Oltre a questo il nostro ha anche ottime qualità come arrangiatore e cesellatore di suoni, capace di mixare influenze di vario tipo, dalla italo disco anni 80 ai suoni balearici anni 90 passando per le classiche autostrade dei Kraftwerk, in un retrofuturismo di gran classe. Brani migliori: l’avvolgente “Bosphorus Hippies”, “Allee der Kosmonauten”, a metà tra Kraftwerk e gli ultimi Chemical Brothers, e “Alta Marea”, che sembra uscita dai migliori ’80 tra melodia e ritmo. Voto: 7,5 (Fabio Pozzi)

 

 

TOP 5. I dischi, di ieri e di oggi, più ascoltati negli ultimi giorni

Petrina “Be Blind”, Giorgieness “La giusta distanza”, Subsonica “The Platinum Collection”, CCCP Fedeli Alla Linea “Socialismo e barbarie”, Lucio Dalla “1999” (Massimo Pirotta)

Deep88 “The Black Album”, Andrea De Luca “Via Direttissima 2 e 1/3”, Eugenio Finardi “Fibrillante”, Eloisa Atti “Penelope”, Michele Bombatomica and The Dirty Orkestra “Doomed, Out Of Tune and in the Hands of a Madman” (Fabio Pozzi)

 

Libri che “suonano” (un estratto)

Happy Days. La generazione di ragazzi andati a Genova per contestare il G8 nel 2001 era una generazione particolare. Ha perso, ammazzata di botte nelle strade genovesi e nel chiuso di carceri e mattatoi improvvisati, ma su molte cose aveva visto giusto. Politicamente quella generazione nacque con la morte di Aldo Moro, andò a scuola con Tangentopoli, maturò con Berlusconi e all’università scoprì che la sinistra di governo poteva avallare cose di destra, come la “guerra giusta” e il lavoro precario generalizzato. Musicalmente, nacque con la fine del punk, vide i suoni della new wave aprirsi ai sintetizzatori, vide i “beats” accelerare fino all’emergere di una musica house di massa. Al contempo si cullò nella melodia e ammirò il risveglio di un rock citazionista, che nondimeno amava mescolarsi a ritmi dance, come quando Noel Gallagher cantò per i Chemical Brothers. Questo libro intende mettere insieme quella duplice “formazione”, raccontando la generazione di Genova a partire dalle note che ha ascoltato dalla culla fino alle giornate genovesi, per farne la colonna sonora di una crescita politica intensa ma breve. Per far questo sceglie una musica in particolare, quella di Manchester, teatro di gruppi ugualmente sfrontati, come New Order, Smiths, Stone Roses e Oasis. Una scena musicale nata da un lutto: la morte del frontman più oscuro e amato, Ian Curtis dei Joy Division. Quel lutto Manchester l’ha reso ritmo, ora glaciale, ora ipnotico, ora sguaiato, ora soave. Anche la generazione di Genova nacque da un lutto. L’omicidio di Moro fu pure la pietra tombale sul movimento che aveva riscritto le regole sociali in Italia. E fu l’inizio della politica-spettacolo. Seguirono gli anni Ottanta. I ragazzi di Genova erano bambini e ogni giorno prima di cena attendevano devoti la quotidiana replica di “Happy Days”, celebrando in ritardo quella rappresentazione anni Settanta degli anni Cinquanta, onorandola come si officia un culto. Rickie, Fonzie, Potsie, Ralph Malph. La madre, Marion. La sorella con gli occhi azzurri, senza nome. Impararono a fischiettare quella sigla imperitura che ripeteva come tutti i giorni della settimana fossero liberi e felici. Le repliche serali di “Happy Days” finirono, la sua eco no. Seguirono la videocrazia, la finta fine della storia e delle ideologie, destra e sinistra confuse. I bambini crebbero e da ragazzi presero a ballare nei club, alcuni ai rave. Giocavano con l’illegalità senza quasi mai sfiorare la violenza, producevano musica discreta, a volte superba, celebrando il revival di una dozzina di generi musicali. Facevano l’amore, bene o male, in tanti modi tutti diversi, quasi senza sensi di colpa, ma con un incubo di malattia a scortarli di notte. Già, la colpa. Il loro rapporto con la storia, con il passato, è stato contraddittorio: responsabili e sollecitati da più parti, si sono ricordati di tutto, i grandi eventi e le biografie personali, le metanarrazioni e la storia micrologica di travet misconosciuti. Ma di sera, sovente, si sono dimenticati di ricordare. Mentre ricordavano e dimenticavano, hanno viaggiato, sfruttando frontiere finalmente aperte, i voli low-cost, la faccenda così sapida di poter programmare viaggi, treni, cuccette, ospitalità inattese e scambi di case. L’Europa è sembrata piccola, la libertà l’hanno passata al setaccio dagli oblò degli aerei, un’orizzontalità distesa sotto il loro sguardo, di cui notavano appena le faglie verticali di tempo rappreso, di sofferenza all’opera, di divisioni. Sotto quegli spazi, un mare scuro da traversare; cominciavano a morirci in migliaia. Era solo l’inizio. E poi, al dunque, finiti i viaggi e durante gli studi, hanno lavorato poco e male, tra stipendi grami supportati dai portafogli dei padri e prestazioni d’opera rimediate per sbarcare il lunario. Scarso lavoro, quindi, ma a tratti geniale, spesso pagato poco, a volte nulla, comunque male: mettevano in fila i giorni della settimana, contando il tempo che mancava al weekend. Cento weekend uguali dopo, è arrivata la maggiore età: mentre il millennio cambiava, quella generazione si è interessata con più costanza alla politica. Ha osservato, si è schierata. Ha prediletto una prospettiva globale sulle questioni socioeconomiche. Ha contestato il Wto, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario, tutti quegli organi in cui i potenti, perlopiù mai eletti, decidono per tutti cosa i singoli Stati debbano fare: austerità, compiti di bilancio, tagli ai diritti sociali, aiuti, linee di credito, varie ed eventuali. Quando nel 2001 venne il turno del G8 di Genova, si stilò un’intera settimana di programma dedicata a contestarlo. Si rimisero in fila i giorni della settimana per dire no, per dire altro da quella cantilena degli “Happy Days”, liberi e felici. A Genova, dopo tanti anni, accadde che i giovani furono pronti ad alzar voce tutti insieme. Finì come si sa, con “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” (Amnesty International). Stroncate con sarcasmo e violenza le sue velleità politiche, quella è diventata presto una generazione di precari, certo creativi, ma con vene scoperte di cinismo. Eppure l’agenda politica che da quella generazione è stata portata a Genova non è mai passata di moda, anzi. I temi del precariato e delle nuove forme di sfruttamento, dall’espansione dei diritti civili e dell’educazione alle differenze, della pace “giusta” nel nuovo ordine internazionale, delle libertà di migrazione da povertà e guerre, della legittimità del conflitto sociale e del controllo dell’informazione dal basso, tutti questi temi furono presentati a Genova da dibattiti e manifestazioni, ogni giorno di quella settimana-spartiacque, da migliaia di persone, quelle che ci arrivarono senza essere fermate prima. Ma nessuno si ricorda di quei giorni dal lunedì al giovedì, in cui si discussero con forza e partecipazione questi punti. Ci si ricorda del venerdì in cui morì Carlo Giuliani, del sabato del blitz alla scuola Diaz, della domenica di torture di Bolzaneto. Questo libro vuole raccontare tutta quella settimana. Ma non con la cronaca dei fatti. Bensì attraverso le canzoni di Manchester, ex capitale del lavoro operaio, i cui brani, per radio, per eco, per influenza, accompagnarono vagiti e parole, poi discorsi e idee di quei ragazzi. Figlie del ritmo di vita della working class allo specchio, sovente quelle canzoni parlano dei giorni della settimana e così facendo interpretano sogni, incubi e ossessioni di una generazione e del suo quotidiano. Rivelano come si arrivò a Genova, con quale stato d’animo si scrisse l’agenda di quegli incontri, con quali note, per vent’anni, ci si preparò ai manganelli, giorno dopo giorno. (da “Happy Diaz. La formazione musicale di una generazione che è stata ammazzata a botte” di Massimo Palma, Arcana, 2015)

 

Novità discografiche, ristampe, prossime pubblicazioni

Alborosie “Freedom & Fyah”, Antonio Apuzzo Strike “Songs Of Yesterday, Today And Tomorrow”,  Banco del Mutuo Soccorso “Io sono nato libero” (LP), Bebo Ferra Trio “Voltage”, Belize “Spazioperso”, Claudio Rocchetti “Memoria istruttiva” (LP), Corrado Rustici “Aham”, Daniela Savoldi “Trasformazioni”, Daniele Bianco “Non vivo più da solo”, Detonazione “Ultimi pezzi dentro me”, Don Diegoh & Ice One “Latte & sangue”, EasyOne “Stessa pelle”, Fabio Frizzi “Manhattan Baby” (col. sonora LP), Fabrizio  Tavernelli “Fantacoscienza”, Felice Reggio Trio “Chet’s Sound”, Franco Micalizzi “L’isola dei fiori”, Gronge “Gli anni ‘80”, Groove & Move “Water Stress”, Il Complesso di Tadà “Il Complesso di Tadà” (LP), Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere “Paura di tutto” (EP),Lele “Costruire”,  Luce “Segni”, Musica Per Bambini “Dio contro diavolo”, Nomadi “Così sia. XXIV Tributo ad Augusto Daolio”, Palazzo “Prima”, Patty Pravo “Concerto per Patty” (LP), Piccola Bottega “Sulla testa dell’elefante”, Rio “Ops!”, Sir Oliver Skardy “Ridi Paiasso Reload”, Syndone “Eros & Thanatos”, The Trip “Caronte” (LP), Tobias Crime Quartet “Meet The Tobias Crime Quartet”, Valerio Liboni “Faccio un salto all’Habana” (m.p.)

 

1976. Giusto, giusto 40 anni fa…

Sensation’s Fix “Finest Finger” (Polydor) – In fondo a questo suono impastato originariamente nell’elettronica mi pare di scorgere l’ottusità Kraftwerk, lo stupore forte di un macabro gioco. L’idea, naturalmente, è spostata di qualche grado: quanto servì, agli stessi personaggi, mesi fa, per infilar l’autobahn del successo, proponendo semplici canzonette in vece delle terribili cantilene al sapor d’arsenico. I Sensation’s Fix han meno ipocrisia, nel loro sacchetto, l’ingenua voglia di fare che li spinse, tempo addietro, ad autogestirsi su vinile dopo aver messo su uno studio discografico in piena regola, senza dipender da nessuno: ma nonostante i loro propositi, la loro musica è irrimediabilmente viziata da monotonia, pallore, impaccio espressivo, legata com’è a un comunissimo standard rock di cui son piene le storie di ogni giorno. L’idea elettronica è un cosmetico per viaggi ormai delegati alle agenzie di turismo: come nei Lp precedenti, il suono rotola con mosse d’abitudine, rinunciando a una sana e violenta ricerca rumoristica o struggendosi nel vicolo dell’hard senza toccare il fastidioso vertice del miglior Todd Rundgren. Fatta per piacere nel solido modo, difficilmente questa musica andrà giù per l’esofago ai sedicenni consumadisco. Poco l’aiuteranno anche i testi, stoltamente raccontati in inglese con ruggine vocale già ascoltata dalle parti di un irripetibile Roger Chapman. (Riccardo Bertoncelli, “Gong”, marzo 1976)

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi & Massimo Pirotta