Il "teatro epico" di Brecht e il "teatro d'arte per tutti" del Piccolo. Le due storiche versioni di Giorgio Strehler e quella contemporanea di Damiano Michieletto. Tra la Londra della regina Vittoria anticipata dal regista e la Chicago dei musical di Bob Fosse e di Rob Marshall. Foto, aspettative, impressioni, riflessioni e qualche fantasia monzese
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ino all’11 giugno 2016 al Piccolo Teatro Strehler di Milano sarà in scena l’Opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill nella scenograficamente fastosa produzione che il Piccolo ha voluto per il sessantesimo anniversario della morte di Brecht. Firma lo spettacolo Damiano Michieletto, un regista molto in voga in Europa per i suoi premiati allestimenti in ambito lirico. L’orchestra è quella del Conservatorio Verdi diretta da Giuseppe Grazioli.
Foto di scena dell'Opera da tre soldi di Damiano Michieletto
Considerate le relazioni privilegiate di Bertold Brecht con il Piccolo Teatro e con Giorgio Strehler, autore dei due storici allestimenti del 1955-1956 e del 1972-1973 che hanno segnato tappe fondamentali nella storia del Piccolo, il ritorno all’Opera da tre soldi dopo 43 anni si configura come un evento eccezionale. E come ogni evento eccezionale inevitabilmente porta con sé delle aspettative.
Ciò vale non solo per lo spettatore un po’ in là con gli anni che ha presenziato, se non a tutti e due, almeno allo spettacolo del ’73 o che magari l’ha mancato per un soffio ma che è comunque entrato in contatto col connubio Brecht-Strehler attraverso altri percorsi. Vale anche per quel pubblico più giovane che sia a conoscenza della storica intesa artistica tra i due maestri. Un’intesa basata da una parte sulla convinzione di Strehler di quanto fosse importante e necessario il teatro epico di Brecht, dall'altra sulla stima e sulla fiducia che il regista triestino si era conquistato agli occhi di quell'uomo che considerava come suo maestro.
Il “teatro epico” di Bertold Brecht e il “teatro d’arte per tutti” del Piccolo Teatro della città di Milano di Giorgio Strehler e Paolo Grassi
La relazione tra Brecht e Strehler ebbe inizio nel 1955, otto anni dopo la fondazione del Piccolo Teatro quando Strehler, decidendo in accordo con il cofondatore Paolo Grassi che fosse finalmente arrivato il momento di affrontare Brecht, gli scrisse per annunciargli l’intenzione di mettere in scena l’Opera da tre soldi. Lo scambio epistolare che seguì culminò nel viaggio dell'autore tedesco a Milano, dove il 10 febbraio 1956, giorno del suo cinquantottesimo compleanno, presenziò alla prima dello spettacolo. Brecht rimase talmente colpito da quella messinscena da legare definitivamente il suo nome al Piccolo Teatro e a Strehler, nelle cui mani sentì di poter mettere la sua intera produzione teatrale. Con il conseguente passaggio di testimone avvenuto poco dopo per via epistolare, e divenuto effettivo nell'agosto di quello stesso anno quando un attacco cardiaco pose fine alla sua vita, Brecht sanciva il riconoscimento di Strehler come suo erede naturale.
Giorgio Strehler, Paolo Grassi e il cartellone della stagione 1955-56; Grassi, Brecht e Strehler a Milano nel febbraio 1956; Brecht e Grassi sul palco del Piccolo Teatro per la prima dell'Opera da tre soldi il 10 febbraio 1956
Nato negli anni ’20 in quella eccezionale fucina d’arte a tutto tondo che era la Germania della Repubblica di Weimar, il teatro epico brechtiano puntava a sovvertire il teatro borghese, innanzitutto stravolgendo l’atteggiamento del pubblico, che andava reso consapevole del significato sociale di ciò che avveniva in scena. Brecht riteneva indispensabile che l'immedesimazione dello spettatore con la vicenda andasse sostituita da una una visione distaccata, in grado di fargli cogliere con lucidità le analogie tra le situazioni rappresentate e quelle della sua vita reale. Pertanto non solo il modo di scrivere per il teatro andava cambiato, ma anche il modo di rappresentarne le storie.
Tra gli elementi atti a favorire la necessaria presa di distanza, tecnicamente definita straniamento, sarebbero stati fondamentali l’uso di un nuovo tipo di recitazione, l’introduzione di canzoni come momenti a se stanti, l’utilizzo di cartelli e titoli che anticipassero l’azione.
Tutti aspetti sottolineati anche nelle particolareggiate Note all’Opera da tre soldi lasciate da Brecht, di cui riportiamo alcune citazioni tratte dal testo Per conoscere Bertold Brecht a cura di Roberto Fertonani in un'edizione Oscar Mondadori del 1978.
La lettura dei drammi
(...) L’Opera da tre soldi mette in questione le concezioni borghesi non solo come contenuto, in quanto cioè le rappresenta, ma anche per il modo in cui le rappresenta. E’ una specie di referendum su quello che lo spettatore desidera che il teatro gli mostri della vita. Ma poiché egli vede contemporaneamente anche alcune cose che non desidera vedere, poiché vede non solo realizzati ma anche criticati i suoi desideri (vede se stesso non come soggetto ma come oggetto), egli è in grado, in via di massima, di assegnare al teatro una nuova funzione. (...)
Titoli e cartelli
I cartelli sui quali vengono proiettati i titoli delle scene sono un primitivo avvio alla “letterarizzazione del teatro”: e a questa letterarizzazione, come pure a quella di tutte le questioni di pubblico interesse, è da dare il massimo impulso. (...) Si deve esercitare lo spettatore a una visione complessa; e in verità, quasi più importante del pensare “nella corrente” è il pensare “al di sopra della corrente”. Inoltre i cartelli esigono e condizionano un nuovo stile da parte dell’attore. Questo è lo stile epico. (…) Gli attori non potrebbero più osare di proporre a un simile pubblico quei miserabili quattro soldi di mimica che oggi raffazzonano in poche prove tirate via senza il minimo criterio. Non riuscirebbero più a spacciare una merce di così grossolana fattura, così malamente lavorata! Ma l’attore dovrebbe cercare altre vie per dare rilievo a quegli incidenti che, già preannunciati dai titoli, hanno già scontato in anticipo ogni bruta efficacia sensazionale. (...)
Del cantare le canzoni
L’attore, quando canta, compie un mutamento di funzioni. Nulla di più fastidioso dell’attore che faccia finta di non rendersi conto d’aver abbandonato il terreno del discorso corrente e di aver cominciato a cantare. I tre piani - discorso corrente, discorso elevato e canto - devono essere sempre distinti l’uno dall’altro: in nessun caso il discorso elevato può significare un’intensificazione del discorso corrente e il canto un’intensificazione del discorso elevato. in nessun caso dunque il canto deve soccorrere quando la piena del sentimento faccia mancare le parole.
Ecco allora il ricorso ad una recitazione spesso non naturalistica, anche all’insegna del paradosso, del grottesco, di trucchi facciali, movimenti e mimiche amplificati, di tecniche insomma già adottate dagli artisti di cabaret, ma da inserire in un contesto più ampio e con quella funzione dissacratoria già presente nei cabarettisti più inclini alla critica sociale. E poi il particolare utilizzo delle canzoni che, tanto accattivanti ed orecchiabili nella musica quanto dure e ciniche nei testi, non coincidono con lo sfociare di un’emozione nel canto ma costituiscono piuttosto delle nette cesure con il recitato.
Assistendo a quell’Opera da tre soldi nel 1956 Brecht aveva capito che Strehler era il regista dotato della sensibilità, dell’intelligenza, della creatività e delle competenze teatrali e musicali in grado di concretizzare sulla scena le sue teorie del teatro epico.
L'utilizzo di titoli e cartelli nell'Opera da tre soldi di Strehler della stagione 1955-56. Nella prima foto la scena della processione dei mendicanti. Nella seconda Jenny delle Spelonche, seduta al centro, e le sue prostitute. Per il ruolo di Jenny Strehelr aveva scelto Milly grazie ai suoi trascorsi di "cantante della mala" e si soubrette di cabaret e varietà
Non è da escludere che la totale fiducia di Brecht nel Piccolo Teatro fosse rafforzata anche da quel motto teatro d’arte per tutti che era il suo slogan ufficiale e che corrispondeva nelle parole e nei fatti alle intenzioni programmatiche del teatro milanese, ben enunciate da Paolo Grassi nell'articolo Teatro, pubblico servizio apparso sull'Avanti!, il 26 aprile 1946 e che oggi più che mai si rivelano attuali e necessarie:
«Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro, mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti, si formassero con questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno di cittadini, come un "pubblico servizio", alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo "pubblico servizio" nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro dall’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua antica vera essenza e alle sue larghe funzioni».
Quando il 14 maggio 1947 si alzava per la prima volta il sipario del Piccolo Teatro di via Rovello (oggi Piccolo Grassi), su L’albergo dei poveri di Maksim Gor'kij per la regia di Giorgio Strehler, il sogno di un teatro il cui pubblico fosse da reclutare tra “i lavoratori e tra i giovani, nelle officine, negli uffici, nelle scuole” prendeva corpo.
I biglietti di quella prima stagione erano di 350 e 250 lire rispettivamente per la prima per le successive rappresentazioni, più o meno corrispondenti a 5,10 e 3,60 euro di oggi.
Insomma agli occhi di Brecht il Piccolo Teatro aveva reso concretamente possibile un’altra istanza fondamentale del suo teatro epico, cioè l'ampliamento della platea degli spettatori a tutte le classi sociali.
Non per niente il titolo Beggar’s opera (Opera del mendicante), il libretto scritto da John Gay nel 1728 per un’opera che prendeva in giro il melodramma italiano e tedesco allora in voga e che Brecht utilizzò come base del suo lavoro, venne sostituito con Opera da tre soldi. Quel threepenny presente nel titolo era una precisa allusione, e perché no? forse anche un’indicazione per il futuro, al prezzo basso che i biglietti avrebbero dovuto avere per favorire l’accesso a teatro a tutti i ceti sociali.
Il motto teatro d’arte per tutti del Piccolo e le sue dichiarate linee programmatiche in questo senso incarnavano esattamente quest’altro principio così importante per Brecht.
Volantino della stagione inaugurale del Piccolo Teatro della Città di Milano (1946-47)
Condizionamenti ed aspettative prima della visione dell’Opera da tre soldi 2016
Con queste consapevolezze in testa e con la concretezza di biglietti che costano 32 euro per la galleria e 40 per la platea in un teatro che, data la sua ampiezza, difficilmente riesce a far sentire lo spettatore parte integrante di quello scambio di energia che fa parte della magia del teatro, un confronto con la realtà di quegli anni viene naturale.
Quanto ai condizionamenti artistici, anche lo spettatore abituato ad andare a teatro con la massima apertura nei confronti di innovazioni e sperimentazioni nella convinzione che non abbia senso replicare qualcosa di già fatto, qualche aspettativa è quasi inevitabile che ce l’abbia. Persino nel caso in cui si affidi solo al bel libretto di sala (anche online sul sito del Piccolo) rinunciando a qualsiasi recensione post-spettacolo per non farsene influenzare.
Il fatto è che andare a vedere l’Opera da tre soldi al Piccolo Teatro Strehler non è come andare a vederne un allestimento in un qualunque altro teatro per prestigioso che sia, Berliner Ensemble a parte. E non è neanche come andare a vedere Shakespeare o Pirandello al Piccolo. E’ la miscela Brecht + Opera da tre soldi + Piccolo Teatro + Strehler che innesca la bomba. Una bomba di cui deve avere sentito il pericolo anche il nuovo regista, a meno che non fosse equipaggiato di una corazza, come si suol dire, “a prova di bomba”.
Leggendo l’intervista a Michieletto non è quest’ultima l’impressione che se ne trae, per quanto essa prepari ad una versione differente da quella di Strehelr, come del resto è naturale e legittimo che sia.
In alto la locandina della prima messinscena di Die Dreigroschenoper andata in scena il 31 agosto 1928 al Schiffbauerdamm Theater di Berlino. A seguire la locandina della prima versione cinematografica diretta da G.W. Pabst nel 1931. Nel ruolo di Jenny figura la moglie di Kurt Weill, l'attrice e ballerina Lotte Lenya già interprete dello stesso ruolo nella versione teatrale. Brecht criticò il film per aver spostato la storia su un piano troppo realistico, insistendo sui sentimenti e sull'evoluzione drammatica dei personaggi principali, a scapito della feroce satira che costituiva l'essenza della sua Opera. In basso il manisfesto con disegni ispirati a Otto Dix e George Grosz per un allestimento del 1960 del Berliner Ensemble, il teatro fondato da Brecht a Berlino Est nel 1949 e da allora attivo. Infine la locandina della seconda versione dell'Opera da tre soldi di Giorgio Strehler, allestita nella stagione 1972-73, impaginata su un dettaglio del trittico Metropolis di Otto Dix
L’idea del regista di creare una struttura drammaturgica circolare in cui si parta dalla fine, cioè dalla condanna a morte del capo dei banditi Macheath, alias Mackie Messer o Mack the Knife, per tornare ad essa immediatamente prima del colpo di scena finale è attraente e utile. Essa infatti permette la ripetizione di quella arringa di Macheath che racchiude alcune delle battute più sferzanti ed attuali del testo, la cui summa è rappresentata dalla domanda Cosa è più criminale, svaligiare una banca o fondare una banca?. Interessante è anche l’idea di un tribunale all’interno del quale si svolge tutto il flashback della storia, così come la decisione, sebbene prassi ormai abitudinaria in molti spettacoli, di lasciare tutti gli attori sempre sul palco e di affidare loro i cambi di scena a vista. Oltre a contribuire all’effetto-distanza tra pubblico e vicenda teorizzato da Brecht, l’escamotage permette infatti allo spettatore di curiosare di qua e di là in qualunque momento dello spettacolo alla ricerca di interessanti controscena, sempre che una posizione non troppo distante glielo consenta.
D’altra parte diversi indizi lasciano presumere che, pur con le dovute innovazioni, il solco tracciato da Brecht e Strehler venga comunque rispettato. Sembra andare in quella direzione ad esempio la scelta operata da Michieletto per il ruolo di Mister Peachum, il cinico proprietario della spettabile ditta Jonathan Jeremia Peachum che controlla il racket dei mendicanti in una Londra in cui fervono i preparativi per l’imminente incoronazione della regina Vittoria.
Quel Mister Peachum che non rinuncerebbe "neanche al nero sotto le unghie", al quale sono affidate alcune tra le più caustiche dichiarazioni di sempre sulla irrecuperabile malvagità della natura umana e di cui Brecht scrive nelle sue Note di regia:
«Il carattere di Gionata Peachum non può essere compendiato nella generica designazione di “strozzino”. A lui che dubita di tutto ciò che può destare una speranza, anche il denaro appare come mezzo di difesa assolutamente inadeguato. E’ senza dubbio un briccone, e un briccone nel senso del vecchio teatro. il suo delitto consiste nell’idea che si fa del mondo. Quest’idea, nella sua mostruosità, è degna di essere posta accanto ai misfatti di qualunque altro grande delinquente; eppure egli, nel considerare la miseria una merce, non fa che seguire “l’andazzo dei tempi”».
Quel Mister Peachum che già dalle sue prime battute si presenta così:
«Il lavoro che faccio è troppo difficile perché consiste nel suscitare la compassione umana. Ci sono alcune cose, poche!, capaci di commuovere l’essere umano. Ma il brutto è che se si usano di frequente anche queste cose, poche!, perdono il loro effetto. Poiché gli uomini hanno la terribile prerogativa di diventare improvvisamente insensibili a loro piacimento. Accade così per esempio che un uomo che veda un altro uomo con un moncherino mendicare ad un angolo di strada, la prima volta ne resti così turbato da dargli dieci penny. Ma la seconda volta gliene dà solo cinque e se per caso lo vede una terza volta lo consegna tranquillamente alla polizia».
In alto la ditta Peachum nell'allestimento del 1956. Sotto i tre Mr. Peachum di Strehler: Mario Carotenuto nel 1955-56, Tino Buazzelli nelle stagioni 1958-59 e 1959-60 e Gianrico Tedeschi nella nuova versione del 1972-72
Ebbene, avere affidato la parte di Peachum a Peppe Servillo, che anche solo per quel volto così espressivo e duttile e per le interprtazioni mimiche con gli Avion Travel sembra più brechtiano di un personaggio di Brecht, è già una promettente anticipazione.
Lo stesso dicasi per la scelta di Margherita Di Rauso per Celia Peachum, che col marito dirige la ditta in cui si forniscono ai mendicanti i travestimenti più adeguati per impietosire gli abitanti delle varie zone della città. Già interprete della signora Peachum nel 2012 nell’allestimento dell’Opera da tre soldi del Teatro Stabile di Napoli, Margherita Di Rauso si era conquistata una prestigiosa candidatura come miglior attrice non protagonista grazie a quel ruolo, costruito su toni grotteschi con una magistrale precisione di movimenti ed espressioni e con una voce dalle mille modulazioni. Certo è assurdo immaginare una replica di quell’interpretazione, ma la scelta di un’attrice così straordinariamente dotata di quelle cifre stilistiche è un’ulteriore garanzia.
La famiglia Peachum di Michieletto: Peppe Servillo e Margherita Di Rauso nel ruolo dei genitori e Maria Roveran in quello della figlia Polly
E poi, “ciliegiona" sulla torta, c’è la statuaria Rossy De Palma di Pedro Almodovar nei panni di Jenny delle Spelonche, la regina delle prostitute e padrona del bordello di Turnbridge, alla quale Michieletto, come già aveva fatto Strehler con le sue Jenny Milly e Milva, affida la celeberrima ballata Jenny dei Pirati. Il testo originale prevedeva fosse cantata da Polly, la figlia dei Peachum, il giorno in cui si sposa con Mack all’insaputa dei suoi genitori i quali, temendo di perdere il controllo della loro redditizia ditta, pagheranno Jenny perché tradisca l’ex amante in modo da farlo arrestare e giustiziare. Con quel volto inconfondibile che per sua natura sembra un ritratto caricaturale di George Grosz o di Otto Dix e con la sua giunonica e carismatica presenza scenica anche Rossy De Palma sembra inequivocabilmente segnare l’impronta di uno spettacolo che si preannuncia rispettoso dell’illustre tradizione marcata Brecht/Strehler pur nell’innovazione.
Rossy De Palma e Damiano Michieletto durante una prova
Dalla Chicago di Gorgio Strehler a quella di Bob Fosse e Rob Marshall
Alcune delle foto inoltre sono davvero suggestive, come quella che da mesi campeggia su una facciata del teatro, una parete di grate a cui tutti gli attori/personaggi sono aggrappati ad altezze ed in posizioni differenti in un tableau d’insieme di grande effetto.
E' vero che quella ed altre foto ufficiali dello spettacolo ricordano alcune inquadrature del film Chicago del 2002 di Rob Marshall, a sua volta ispirato al rivoluzionario ed epocale musical del 1975 di Bob Fosse, l’ineguagliabile coreografo-regista che ha inoltre immortalato la Berlino brechtiana nel film Cabaret. Tuttavia ci sono diversi motivi che potrebbero giustificarne un'eventuale ispirazione per alcune scene. Non solo Strehler, anticipando Fosse, aveva infatti ambientato la sua Opera da tre soldi, nella Chicago degli anni '20-30, con l'approvazione di Bertold Brecht, ma lo stesso Fosse nel suo allestimento del musical, che come l'Opera da tre soldi si svolgeva nei bassifondi metropolitani tra crimini, prostituzione, corruzione, tradimenti, carcere e tribunale, aveva adottato uno stile molto brechtiano sia nella messinscena sia nelle intenzioni. Il mondo cinico e trasgressivo rappresentato nel musical era in sostanza il riflesso di quella parte di società americana che si premurava di tenere cinismo e trasgressioni ben nascosti dietro la facciata ipocrita del perbenismo.
Immagine di presentazione dell'Opera da Tre soldi di Damiano Michieletto; un fotogramma del film di Rob Marshall Chicago del 2002
Se a queste brechtiane analogie si aggiungono le stupende coreografie sessualmente provocanti di cui Bob Fosse è stato il magistrale iniziatore, con ripetuti problemi di censura, non stupisce che il suo musical troppo innovativo per la classica Broadway non sia stato un eccezionale successo di cassetta, nonostante il temporaneo ricorso a Liza Minnelli per risollevare le sorti di quello che stava per diventare un flop commerciale. E nonostante la stupenda colonna sonora della coppia John Kander, musicista, e Fredd Ebb paroliere, autori anche delle canzoni di un altro capolavoro di Bob Fosse, Cabaret, e della New York del film di Martin Scorsese.
La rottura di quelle barriere censorie ancora dominanti negli anni Settanta portò, nove anni dopo la morte di Fosse, al planetario successo del secondo allestimento di Chicago nel 1996, ed alla realizzazione del film del 2002. La spettacolo, tuttora in scena a in diverse città del mondo, venne costruito nel pieno rispetto del suo creatore, garantito dalla direzione coreografica di Ann Reiking, ballerina di punta di Fosse, che non solo aveva avuto una lunga relazione sentimentale con lui, ma che da lui aveva ereditato lo stile nel suo lavoro di ballerina e coreografa.
Tormando all'attuale Opera da tre soldi, considerati gli indizi suggeriti da alcune immagini e la dichiarata ambientazione in tribunale, sebbene motivata dal regista con argomentazioni che nulla hanno a che fare con il musical Chicago, gli ipotizzati richiami al musical di Fosse e ai suoi successivi allestimenti, hanno quindi sulla carta una loro logicità, anzi in un certo senso chiudono un cerchio, suggerendo un'osmosi di cui è inevitabile e positivo che ogni artista si nutra.
Altre immagini che richiamano una certa assonanza tra lo spettacolo di Michieletto e il film si Rob Marshall
Sembra insomma che Michieletto operi una intrigante sintesi postmoderna. La Londra è quella vittoriana di Brecht, i costumi sono contemporanei e i richiami alla Chicago di Strehler vengono effettuati tramite le riletture del musical di Bob Fosse. Per chi ami il postmoderno di qualità e la sua capacità di creare opere d’arte di vario genere mescolando innovativamente il vecchio e il nuovo, il kitsch e il raffinato, il pop e il colto eccetera eccetera, le premesse sembrano invitanti. Il problema sarà semmai vedere quanto alcuni ammiccamenti siano più o meno riusciti e se distraggano dalla percezione di una realtà spietata che utilizza il vario sottobosco criminale per parlare della società contemporanea “perbene e benpensante”.
Tra reazioni istintive, considerazioni ragionate ed ipotesi fantastiche
Nonostante le precedenti elucubrazioni, la sera dello spettacolo condizionamenti ed aspettative sono lontane anni luce, come se neanche si fossero affacciati alla mente, e l’entusiasmo è la sensazione predominante nel varcare la soglia del Piccolo Teatro Strehler.
La buona posizione in platea è di quelle che, una volta sollevato l’appariscente sipario di luccicanti striscioline dorate alla Chicago, consentiranno la visuale totale del palco e la possibilità di cogliere per bene i movimenti, gli atteggiamenti e le espressioni dei personaggi in primo piano e di quelli più arretrati, dando quindi modo di gustare appieno anche quei controscena così importanti per la buona riuscita di uno spettacolo.
Un'altra scena che dell'Opera da tre soldi 2016 che scenograficamente richiama il film Chicago: Catherine Zeta Jones alias Velma Kelly e Rossy De Palma alias Jenny delle Spelonche
Mentre le luci si spengono, il pensiero corre al Roy Scheider di All that jazz e alla frase che il coreografo-regista protagonista del film si dice guardandosi allo specchio prima di cominciare ogni giornata, “It’s showtime, folks!”. Questa volta però l’allusione al semiautobiografico film di Bob Fosse è puramente casuale, in quanto conseguenza di un'abitudinaria deformazione personale prima di uno spettacolo o di qualche occasione particolare. Ebbene, il dado del “si va in scena, signori!” è tratto, e quello che la “scena” del Piccolo comincia ad offrire è attraente.
L’insieme funziona. A partire dalla scenografia.
La grande struttura trapezoidale delle grate carcerarie che delimita lo spazio dell’aula giudiziaria mantiene le suggestive promesse delle foto. Ed è coreograficamente piacevole vedere tutto il cast introdurre gli altri elementi essenziali, un bancone per il giudice togato e imparruccato, un tavolo e la pedana a due livelli con tanto di ringhiera da tribunale e di sedie destinate agli attori-giurati non direttamente protagonisti delle varie scene.
Anche le prime interpretazioni canore e recitate funzionano e l'orchestra preannuncia fin da subito una grande interpretazione musicale.
Il cantastorie Giandomenico Capaiuolo ha presenza scenica ed ironia ed è bravo in quella Moritat von Mackie Messer che Brecht e Weill avevano dovuto quasi improvvisare per soddisfare le manie di protagonismo di un attore che esigeva fosse dato più rilievo al personaggio che interpretava. Per ironia della sorte quella ballata entrata fortuitamente nello spettacolo è diventata una delle canzoni più popolari del mondo, che famosi cantanti internazionali hanno introdotto nel loro repertorio.
L’idea poi di proporre fin dall’inizio l’arringa finale di Mackie, per dare il via alla circolarità che consente la ricostruzione della vicenda in tribunale, è azzeccata e di grande effetto. I saluti di addio di Macheath agli artigiani dei furti col chiavistello destinati a scomparire inghiottiti dai furti professionisti dei grandi imprenditori dietro i quali stanno le banche, seguiti dagli interrogativi confronti tra grimaldelli e titoli azionari, tra fondazioni e sfondamenti di banche, tra omicidi e lavori salariati, arrivano addosso allo spettatore come macigni nella efficace interpretazione di Marco Foschi, fermo con la corda al collo e la camicia di forza.
Pazienza se l’attore è un po’ troppo giovane rispetto alle indicazioni brechtiane seguite da Strehler nel 1955-56 con Tino Carraro e nel 1972-73 con Mario Santuccio, sostituito in extremis a pochi giorni dalla prima da un Domenico Modugno di fascino e classe insuperabili.
Marco Foschi nella scena che apre e chiude il flashback in tribunale
Arriva il momento di Peppe Servillo al quale il regista sembra aver richiesto di attribuire a Mr. Peachum quelle caratteristiche naturali di cui l’attore è dotato. Un parlata dall'accento qui moderatamente napoletano, la dote congenita, non così comune negli attori, che trasforma il puro e semplice “stare” in “personaggio”, e la semplicità di una recitazione sempre pertinente pur non ricorrendo mai ad aggiuntivi effetti caricaturali, che sarebbero comunque nelle corde dell’attore, del personaggio e dello spettacolo.
Anche l'austera e distaccata Mrs. Peachum di Margherita di Rauso, un’attrice talmente brava e versatile da potersi permettere di tutto, aderisce a quella che ormai appare essere la precisa scelta registica di non ricorrere al grottesco ma di rimanere nell’ambito di una recitazione più naturalistica.
Per quanto leggermente più comico, sembra confermare la scelta anche l'ingresso Lorenzo Demaria inizialmente nei panni di Filch, il giovane sorpreso a mendicare di straforo in una delle zone di Peachum e portato al suo cospetto per essere reclutato nella banda dei mendicanti ufficiali, ovviamente dietro pagamento della nuova divisa strappaelemosina e il futuro versamento alla ditta del 50 per cento dei guadagni.
Relativamente ai momenti canori dei coniugi c’è poco da dire, ascoltarli è un piacere. Insomma la coppia Servillo-Di Rauso è una garanzia per lo spettacolo, ma questo già lo si sapeva, anche se per la verità dispiace un po’ capire che non ci saranno nelle loro scene quei divertenti effetti collaterali dati da un’interpretazione più spinta verso il comico, che entrambi gli attori hanno nel loro naturale repertorio espressivo. Anche Maria Roveran non delude. Canta bene e sa dare a Polly, la figlia dei Peachum, un bel caratterino da furbetta innocente.
Tutto sembra dunque funzionare. Ma purtroppo dura poco.
Perché fin dalla ricomparsa in scena di Mackie, liberato dalle costrizioni da patibolo che gli imponevano di star fermo e di concentrare l’espressività nel volto e nella voce, le cose cambiano. Macheath, ora in scena in un doppiopetto azzurro un po' cafone, non lesina altre numerose espressioni facciali anche efficaci, tuttavia è privo di classe e di fascino. Si muove scompostamente vagando in modo frenetico per il palco, quasi fosse affetto da ipetcinetismo, in un dispendio di energie di cui non si capisce il fine.
E intanto parla e parla, quasi sempre sopra le righe, buttando via l’importanza delle sue frasi. E questo atteggiamento, purtroppo, accompagna il personaggio per molta parte dello spettacolo, fino a quando non lo si ritrova legato e con la corda al collo a ripetere, con la ritrovata forza espressiva che evidentemente non manca all’attore, quelle parole di per sé così potenti.
Nel frattempo a poco serve provare a chiudere gli occhi per non vedere la maratona e concentrarsi sulle parole. La sensazione di fastidio è forte e porta a confrontare quegli atteggiamenti da bullo di periferia non solo con lo stile da gentleman di Carraro e Modugno, ma con le annotazioni di Brecht sulla necessità di affidare il ruolo ad un uomo di mezza età, la cui eleganza e raffinatezza di modi fosse in contrasto con la sua attività, al fine di sottolineare l’intercambiabilità tra una certa borghesia e la criminalità. E’ pur vero che molti ricchi borghesi non sono in grado nemmeno di imitare lontanamente le convenzionali buone maniere generalmente attribuite ai ceti sociali ai quali fanno sfoggio di appartenere, tuttavia ciò non giustifica la scelta di una recitazione così sguaiata.
Tino Carraro e Milly, Domenico Modugno e Milva, Marco Foschi e Rossy De Palma nei panni di Mackie Messer e Jenny
Anche puntare lo sguardo sui controscena serve a poco. I componenti della banda di Mack, pur essendo diversi fisicamente, non hanno né aspetti, né movimenti, né atteggiamenti che possano trasformarli da necessarie comparse in personaggi dotati di identità propria. Il cambio d’abito che fanno in scena passando dall’abbigliamento da ladri a quello da festa di nozze con lo smoking, ad esempio, è uno dei tanti momenti coreografici in cui manca quell’incisività scenica che la pulizia di gesti essenziali e ben studiati saprebbe dare. A dispetto delle indicazioni brechtiane e delle successive note di Strehler, che insistevano sulla caratterizzazione precisa e differenziata dei componenti della banda, gli amici di Mack restano figure anonime, destinate a finire nel dimenticatoio, nonostante le qualità attoriali che i loro interpreti con tutta probabilità possiedono.
Un'immagine della scena del matrimonio tra Mackie e Polly
Quando alla festa di nozze arriva Tiger Brown, ex commilitone di Mackie ed ora sua salvaguardia dall’arresto in quanto capo della polizia, anche il bravo attore Sergio Leone sembra soccombere di fronte ad una direzione che ha cominciato a mostrare segni di debolezza. Anche se per la verità proprio durante quella scena prende corpo uno dei momenti corali di maggior rilievo, quando Mack e Tiger intonano La canzone dei cannoni, altro pezzo forte dell’Opera in cui i due rievocano, come scriveva Strehler, “i loro massacri piacevoli da commilitoni allegri sui negri e razze annesse”.
Paradossalmente i banditi lasciano un segno nel momento in cui vengono omologati indossando maschere antigas, in una riuscita scena corale che, come l'acquaforte di Otto Dix degli anni brechtiani cui probabilmente si ispira, è un impressionante squarcio sull'assurdità e sulle mostruosità delle guerre.
Mackie e Tiger Brown cantano la Canzone dei cannoni circondati da attori con la maschera antigas
Otto Dix, La guerra davanti a un attacco di gas, 1924
Quanto invece ai frequenti scambi di posizione della pedana dei giurati e del bancone del giudice, di volta in volta interpretato da attori differenti per sottolineare l’intercambiabilità dei ruoli che sta alla base dell’Opera, essi sono un refrain scontato che non aggiunge nulla di sostanziale né di visivamente intrigante. Non sortisce effetti diversi neanche l’escamotage utilizzato ogni volta che viene pronunciata la parola “incoronazione”, ossia il cambio di luci e l’entrata in stop tutti gli attori attivi in quel momento (quelli che fanno da giuria in un semi-stop da attesa del prorpio turno lo sono praticamente sempre). Durante i secondi del fermo immagine un attore entra in scena con ricche pietanze, vassoi e corone che va a posare su un tavolino. Fin dal primo stop è evidente che la trovata si ripeterà fino a che la tavola non sarà completamente imbandita. Cosa che puntualmente avviene. Non che ci sia qualcosa di male nell'usare espedienti che si imparano fin dalle prime lezioni di un qualunque corso di teatro e di cui si fa largo uso a tutti i livelli, amatoriali o professionisti che siano, tuttavia stando alla miscela esplosiva Brecht + Opera da tre soldi + Strehler + Piccolo cui si faceva riferimento precedentemente, qualcosa di meno scontato e più significativo ci si poteva aspettare.
Lo scossone successivo alla scena delle maschere antigas arriva quando finalmente Rossy De Palma passa da impersonale giurato a Jenny delle Spelonche, momento che almeno da un po' si desidera come salvifico intervento contro una certa noia. Indubbiamente Rossy il suo bell’impatto ce l’ha, ed è bellissima la scena in cui dal sipario luccicante calato dietro di lei per l'assolo della ballata Jenny dei pirati cominciano a spuntare vogliose braccia maschili che cercano, e in parte riescono, ad afferrane più parti del corpo.
Rossy De Palma canta Jenny dei pirati; due immagini nel bordello di Turnbridge
Piuttosto banali sono invece le scene nel bordello, ancora una volta penalizzate dalla scelta di non caratterizzare i personaggi. Le prostitute sono ancor più omologate dei banditi di Mack, con identiche parrucche rosa e in succinte mise di palliettes verdi che le fanno somigliare all'infinita schiera delle varie "veline" e "letterine" televisive. E' ancora una volta un peccato vedere sacrificate potenzialità recitative in funzione, in questo caso, di scene da pseudo-musical di Broadway. Dei poveri. Sì perché a Broadway i ballerini sono dei professionisti di altissimo livello e le coreografie lasciano a bocca aperta, mentre in questo spettacolo le coreografie sono per forza di cose ammiccamenti di quart'ordine a musical raffinati e spettacolari come Chicago. Insomma l’impressione è che il regista abbia abdicato alla funzione di caratterizzare tutti i suoi personaggi, per occuparsi solo di quelli principali. E, senza tener conto dell’importanza di quelli secondari nelle scene in cui affiancano i protagonisti, li abbia messi nelle mani di una inadeguata direzione coreografica con carta bianca.
Ciò non esclude tuttavia la presenza di almeno un altro paio di scene collettive molto belle, di chiara impronta registica. Quelle più significative sono nel secondo tempo che, almeno in parte, riscatta la lunghezza non molto coinvolgente del primo. La scena di maggiore impatto dello spettacolo è una nuova versione della “marcia dei mendicanti” strehleriana, e coincide più o meno con un altro momento di forza dell'Opera, grazie a concetti che Brecht affida a Mr Peachum e che l'interpretazione di Peppe Servillo valorizza al punto che non sfugge neanche mezza parola. Se Tiger Brown non arresterà Mackie, Mr Peachum sguinzaglierà la moltitudine dei poveri e dei mendicanti nel giorno dell’incoronazione, di cui Brown deve garantire la riuscita. E il numero dei poveri è talmente immenso e spaventoso che non farebbe una bella impressione doverne magari prendere a bastonate qualche centinaio proprio nel momento dell'incoronazione.
Un'immagine della scena di maggior impatto dello spettacolo di Michieletto
I poveri di Michieletto, che indossano giubbotti salvagente arancioni sopra la biancheria, dapprima si aggrappano dietro le grate, quindi entrano nella gabbia-tribunale, per l’occasione liberata il più possibile dalle scenografie occupandone tutto lo spazio. Nessun personaggio parla, la musica tace e nel totale silenzio i mendicanti-migranti lentamente si tolgono i salvagente, li agganciano a corde calate dall’alto, cadono a terra e lì restano, immobili, a lungo, mentre i salvagenti salgono e scompaiono. La scena è mozzafiato ed invade talmente lo sguardo che non c’è posto per nient’altro.
Tuttavia un po' più a freddo viene da chiedersi perché. Perché la necessità di ricorrere ai migranti del mare e alle loro tragedie in un lavoro che gioca continuamente sull’ambiguità etica, su una intecambiabilità tra cattivi dichiarati e buoni solo presunti, che Michieletto peraltro tiene a sottolineare rispettando le intenzioni brechtiane. Il ripetuto turn over dei personaggi, Mack compreso, nella parte del giudice altro non è che la rappresentazione simbolica che tutti sono sullo stesso piano. E qual è dunque il piano sul quale vengono messi i migranti? Francamente l’operazione lascia parecchie perplessità nonostante la potenza della scena.
Non ne lascia affatto invece quella finale. La grazia, concessa a Mack un attimo prima della sua impiccagione e prevista da Brecht con l’ingresso di un messaggero a cavallo, arriva invece con una valigia che il capo della polizia sistema sul bancone del giudice. Le battute che annunciano la salvezza di Mack ed il conferimento al bandito di un titolo nobiliare, di una rendita e di un castello coincidono con l’apertura della valigia da cui un ventilatore invisibile sputa fuori un’infinità di banconote che volano per aria in tutto il palcoscenico prima di posarsi a terra. Durante la lunga scena, mentre le banconote continuano ad uscire e svolazzare, tutti i personaggi forsennatamente se ne accaparrano il più possibile riempiendosene tasche, reggiseni, pantaloni e quant’altro abbiano a disposizione. Un finale forte e riuscito che se da una parte, pur nell’innovazione formale, riafferma l’avidità e la prevaricazione che uniformizza tutti nel rispetto brecthiano dei ruoli intercambiabili, dall’altra rafforza le perplessità sull’opportunità della scena dei migranti.
Un'immagine della scena finale, dopo la grazia concessa a Mackie Messer
Prima di concludere con alcune fantasie, due ultime considerazioni.
La prima sulla bravura di Stella Piccioni che, oltre ad essere una delle varie comparse nelle scene corali, interpreta la parte di Lucy, figlia di Tiger Brown e rivale in amore di Polly Peachum. Le due scene in cui è coprotagonista con Polly sono tra le più riuscite dello spettacolo grazie non solo alle qualità canore di entrambe, ma alla verve che Stella dà al suo personaggio facendolo emergere particolarmente. La seconda riguarda Rossy De Palma e il dubbio, ancora insoluto a distanza di qualche giorno dalla visione dello spettacolo, se l’effetto scossone fosse da attribuire più all’aura che circonda l’ex-ragazza dell’orgasmo nel sonno di Donne sull’orlo di una crisi di nervi o piuttosto all’incisività interpretativa del suo personaggio.
Maria Roveran e Stella Piccioni nei ruoli di Polly Peachum e Lucy Brown
Altri quesiti, più prepotentemente impossessatisi dei pensieri durante diversi momenti dello spettacolo, continuano ad avere invece le stesse immediate ed probabili risposte.
Che cosa ne sarebbe dell’Opera da tre soldi nelle mani di Ferdinando Bruni e di Elio De Capitani? Che cosa tirerebbero fuori dagli interpreti di questi anonimi banditi di Mack, puttane di Jenny e mendicanti di Peachum? E che ne farebbero dei cartelli? Li abolirebbero anche loro, come ha fatto Michieletto tranne in una scena iniziale, o li trasformerebbero in una arma cinica irresistibilmente comica, magari affidandosi ad interventi multimediali con altrettanto cinici e comici personaggi?
Vuoi per la profonda conoscenza e lunga frequentazione che i due registi-attori del Teatro dell'Elfo hanno di Brecht e del teatro tedesco, vuoi per l’ingegno inventivo e innovativo pur nel rispetto degli autori, vuoi per la precisione registica che si riverbera sulla “pulizia” interpretativa degli attori, vuoi per mille altri motivi, le risposte possono solo ipotizzare la quantità e la qualità di colombe e conigli che quelle quattro mani saprebbero tirar fuori dal cappello dell’Opera da tre soldi.
Restringendo ancor più campanilisticamente il campo a Monza, di cui Elio De Capitani e la sua eclettica famiglia artistica sono cittadini culturalmente presenti ed attivi, e rispondendo indirettamente al direttore di Vorrei Antonio Cornacchia, che nel recente pezzo sui due Cyrano di Corrado Accordino in scena al Binario 7 dice di non ricordare “a memoria” un Accordino alle prese con il comico, si potrebbe ipotizzare un esperimento immaginario di questo tipo.
Rapire Accordino, sottrarlo a tutti i suoi vari impegni manageriali, liberargliene completamente la testa e blindarlo per un paio di mesi in un teatro con un cast numericamente adeguato come quello del Piccolo costituito da persone in grado di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi migliori exploit creativi.
Per plurime esperienze personali anche se ormai piuttosto lontane, sono certissima, e mi sia lecito il passaggio alla prima persona, che il risultato sortito da questo esperimento fantastico, del quale “vorrei” prorpio fare parte, non solo non avrebbe nulla da invidiare allo spettacolo “superficialmente postmoderno” di Michieletto, che da invidiare ha sicuramente il budget, ma darebbe vita, anche con risorse economiche inferiori, ad un'Opera da tre soldi “genialmente postmoderna”, all’insegna del comico, del grottesco e del surreale, senza venir meno al doveroso rispetto di uomini che come Bertold Brecht e Giorgio Srtehler sostenevano la necessià di aggiornare continuamente il teatro, per dargli gli strumenti di volta in volta più efficaci per incidere sulla società contemporanea.