Il premio Nobel che ha passato la sua vita professionale a studiare il modo in cui l’essere umano prende decisioni, è autore di uno dei saggi più letti e più citati dei nostri tempi. Da leggere più di una volta.
Rispondete per cortesia a queste due semplici domande:
- Gandhi, quando è morto, aveva più o meno di centoquarantatrè anni?
- A che età è morto Gandhi?
La prima domanda è facile. Tutti capiscono che nessun uomo, e quindi nemmeno Gandhi, può arrivare a vivere fino a centoquarantatrè anni. Gandhi pertanto aveva sicuramente meno di centoquarantatrè anni quando è morto. La seconda domanda invece è più insidiosa e, a meno che non conosciate la risposta corretta, siete costretti a fare una stima.
Forse vi parrà strano, ma è stato sperimentalmente provato che la stima che credete di aver liberamente fatto sull’età che aveva Gandhi al momento della morte (ad esempio 86 anni) non è stata una stima tanto libera come pensate che sia stata.
Infatti chi è stato sottoposto alla domanda numero 1 ha poi dato mediamente alla domanda 2 una risposta che stimava un’età di Gandhi al momento della morte più alta rispetto a chi è stato sottoposto direttamente e soltanto alla domanda 2.
In altri termini: solo l’aver letto la stupidaggine dei centoquarantatrè anni ha influenzato, perlomeno nella maggior parte dei casi, la risposta alla domanda successiva.
In psicologia tale effetto si chiama “effetto àncora”, appunto per segnalare che si è rimasti in qualche modo ancorati a qualcosa, in questo caso a una stupidaggine.
Ho voluto partire con un esempio sfizioso, tra i molti che potrei citare, per illustrare il saggio che vi consiglio di leggere, che si intitola Pensieri lenti e pensieri veloci, e che si occupa di un argomento insolito: le caratteristiche del processo decisionale umano.
Il premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, che ha passato la sua vita professionale a studiare il modo in cui l’essere umano prende decisioni, ha sintetizzato i risultati di tanti anni di attività in questo ponderoso saggio di oltre cinquecento pagine scritte a righe fitte che, oltre ad essere stato a lungo in vetta alle classifiche di vendita negli Stati Uniti (cosa insolita per un saggio), è diventato in pochi anni un vero e proprio classico, un punto di riferimento per molte discipline (tra cui l’economia, la filosofia e la psicologia) ed è sicuramente tra i più discussi e citati libri degli ultimi vent’anni.
Facciamo un passo indietro.
La razionalità umana, cioè come si prendono o si debbano prendere le decisioni, è stata a lungo oggetto di interesse filosofico. Avrete tutti senz’altro parlare a scuola di uomo come “animale razionale”.
Dal dopoguerra in poi, a partire dai pioneristici studi di Herbert Simon, l’idea che l’uomo sia un animale completamente razionale è stata messa in discussione. Il saggio di Daniel Kahneman – sia per la notorietà dell’autore sia per l’impatto che ha avuto sulla comunità scientifica occidentale – porta a compimento le intuizioni di Simon e costituisce di fatto la pietra tombale sull’idea di un uomo come animale completamente razionale.
Certo, l’uomo – unico tra gli animali – ha un potente pensiero razionale che pondera, stima, confronta e così via. Tale razionalità è però, per così dire, un prodotto tardo dell’evoluzione.
L’uomo in realtà ha in primo luogo un ancestrale pensiero intuitivo che genera intuizioni una dietro l’altra, spesso giuste – ma non è detto che sia sempre così – che in seconda battuta il pensiero razionale talvolta frena e corregge, ma che spesso avalla acriticamente, per pigrizia diciamo così.
L’uomo inoltre – ed è una delle idee forti del libro – ha preconcetti sistematici che impediscono di prendere decisioni corrette.
L’effetto áncora (che abbiamo visto all’opera con l’età di Gandhi) è potentissimo, ma non è l’unico.
Esistono per esempio anche l’effetto alone, il priming, lo scambiare la rappresentatività con la probabilità e molti altri.
Quindi, secondo Kahneman, l’uomo non solo sbaglia nel produrre giudizi alla base delle decisioni che prende, ma in certe circostanze tende a sbagliare sistematicamente.
Non nascondo che l’analisi dei preconcetti sistematici (tecnicamente si chiamano bias) in cui incorriamo tutti i giorni e di come ci facciamo condizionare dal contesto in cui ci troviamo è la parte più interessante del libro. Sono questioni importanti e da tenere presente nella vita di tutti i giorni. I pubblicitari queste debolezze le conoscono bene, e talvolta ne approfittano. La stessa propaganda politica non è certo immune, e può influenzare in parte le scelte dell’elettorato (è già successo).
Segnalo altre due questioni, a mio parere interessanti, che il saggio di Kanheman sviluppa egregiamente.
La prima è senza dubbio la poca capacità della mente umana di ragionare tenendo presenti le regole della probabilità e della statistica. Esse sono talmente controintuitive che, anche quando ci viene data la risposta corretta, continuiamo a faticare ad accettarla.
Noi tendiamo a pensare in maniera associativa, metaforica e casuale, mentre per pensare in maniera statistica occorre gestire molti pensieri alla volta, cosa per cui non siamo tagliati.
Non pensiate che un esperto di statistica non cada in tranelli legati alle probabilità. È stato infatti sperimentalmente dimostrato che gli esperti ci cascano solo un po’ meno degli altri, e nemmeno tanto.
La poca propensione al ragionamento statistico è una questione sempre più dibattuta. Lo studioso Gerd Gigerenzer per esempio ha dedicato celebri lavori per illustrare come anche i dottori prendano cantonate enormi nell’interpretazione di statistiche mediche, e con conseguenze nefaste, semplicemente perché non sanno leggerle correttamente.
Un’altra questione che viene messa bene in luce nel libro è l’importanza, non ancora colta in pieno in tutte le sue potenzialità, che potrebbero avere gli algoritmi per la vita umana.
Gli algoritmi infatti soffrono meno l’influenza ambientale, che invece tanto peso ha sulle nostre decisioni. Inoltre gli algoritmi sono più precisi di noi nella stima probabilistica, per la quale l’uomo “animale razionale” è in realtà completamente negato. L’autore consiglia quindi di affidarci il più possibile agli algoritmi nelle decisioni che dobbiamo prendere perché essi si sono dimostrati mediamente più efficaci del decisore umano. Per rendere fluido il traffico sarebbe insomma meglio il semaforo del vigile, e fin qui potremmo essere tutti d’accordo. In altri ambiti però gran parte di noi sarebbe restia a farsi guidare dai soli algoritmi. Pensate, per esempio, alle valutazioni che devono essere fatte di potenziali genitori adottivi o alle valutazioni che devono essere fatte dei candidati a un posto di lavoro.
È un punto molto delicato e controverso del saggio, e che ha fatto molto discutere.
Concludendo, è possibile sconfiggere l’irrazionalità umana insita nel processo decisionale?
Kahneman dice di no, non è possibile. L’irrazionalità si può solo ridurre, ma non eliminare.
Cosa è possibile fare dunque concretamente?
Nell’introduzione al libro, l’autore – e lo fa un po’ a sorpresa, visto come di solito gli autori considerano con serietà le proprie tesi – provocatoriamente ci invita a considerare il libro come un aiuto... quando in ufficio ci si trova davanti alla macchinetta del caffè e si commentano le decisioni prese dai colleghi, dalla direzione aziendale, dai politici. Il libro aiuterebbe dunque ad arricchire il vocabolario che si usa quando si commentano le decisioni altrui per prevederle, riconoscerle e capirle. Se infatti è difficile vedere i propri errori, è però più facile vedere quelli altrui.
Insomma, il premio Nobel che ha definitivamente mandato in soffitta l’idea di uomo animale razionale ci invita infine a una modesta attività di riflessione, un umile confronto se non proprio con noi stessi, quantomeno con il mondo che ci circonda.
Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2012, pp. 549, 12,00 euro.