Intervista al fotoreporter «Dovremmo abbandonare l'idea che le migrazioni siano una specie di fenomeno idraulico: un “flusso” dove gli individui, il loro nome, la loro identità, e il loro sguardo, non esistono più»
Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Ha un nome che potrebbe essere usato in un romanzo di Verga, di quelli che per antifrasi stanno ad indicare l’esatto contrario di quello che è scritto all’anagrafe. Malavolta infatti, è nel posto giusto alla “volta” giusta. Uno di quelli che non si stancano ad immortalare un’umanità nel suo più intimo tentativo di sopravvivere. Lui è sul fronte, inteso come frontiera, laddove col tempo e con l’esperienza si matura la consapevolezza di “arrivare troppo presto” rispetto al grande clamore, prima delle telecamere e del caos mediatico riuscendo a prevedere quello che succederà.
Oggi, Francesco Malavolta, documenta le migrazioni moderne, ai confini marittimi e terresti del continente europeo, con una particolare concentrazione sul flusso proveniente dal mare. Documenta i movimenti dei popoli che attraversano i nostri anni, i nostri mari, le nostre terre… i loro deserti: mentre i confini delle terre che varcano sembrano limitare ciò che è nostro e che appartiene solo a noi, i drammi e la desolazione sembrano essere qualcosa che appartiene solo a loro.
Segue le vicende dell'immigrazione fin dall'inizio degli anni Novanta come dimostrano i suoi primi scatti, documento e testimonianza del grande esodo albanese sulle coste pugliesi.
È grazie ad immagini di repertorio come quelle, che è possibile (anche per chi, come me, all’epoca era troppo bambina) avere impresse le immagini di quelle “navi dolci”.
Dal 1994 collabora con varie agenzie fotografiche nazionali ed internazionali, con organizzazioni umanitarie quali l'UNHCR e l'OIM. Dal 2011 documenta, per conto dell'Agenzia dell'Unione Europea “Frontex”, quel che accade alle frontiere del Continente.
Nelle sue opere appaiono gli “spaesati”. Dietro ogni scatto, una storia. Ci sono soprattutto i volti e gli sguardi che raccontano lo smarrimento. Non sfugge all’obiettivo la cicatrice, il segno della decisione sofferta del partire, lo sradicamento. «Ti sembrerà banale - mi dice Francesco quando gli chiedo il perché di tanti volti – dai loro occhi si percepisce la paura, la preoccupazione… tutto quello che c’è “dietro” prima di arrivare dove li incontro io. Dovremmo abbandonare l'idea che le migrazioni siano una specie di fenomeno idraulico: un “flusso” dove gli individui, il loro nome, la loro identità, e il loro sguardo, non esistono più».
Lo ascolto affascinata e sognante mentre mi descrive il suo lavoro. Ti piacciono i volti, gli dico. Ora mi rendo conto, rielaborando quelle tante parole pronunciate e ascoltate che, piuttosto, gli piacciono le persone.
È difficile raccontare le sue foto senza il contesto che le ha create, ripercorrendo a ritroso il tempo fino al momento dello scatto. Ma la storia non inizia in quel momento che vedo ritratto nella fotografia, né tantomeno va da quello scatto in poi. Piuttosto la storia viene prima, ed è una storia di guerra, ma anche di speranza, e «la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle» dice Francesco.
Queste foto sono un attimo, colto nel momento migliore del giorno, a volte il più concitato, a volte il più drammatico. I colori (quando ci sono) con i loro contrasti e le loro ombre suggeriscono l’ora: ombre troppo lunghe per il crepuscolo, e toni appiattiti dal sole per il mezzogiorno. Il bianco e nero invece, enfatizza. Come nella Guernica di Picasso declama il dolore e sottolinea il dramma. Il bianco e il nero diventano un modo per togliere colore ad una triste pagina di storia.
Nelle sue opere si passa da un silenzio metafisico, al chiasso ridondante delle tendopoli improvvisate e dei pianti dei bambini in braccio ai loro padri.
Mentre guardo le foto mi soffermo su una “natività”: una madre col figlio in grembo e uno stuolo di persone intorno. Nessuno guarda l’obiettivo ad eccezione di un bambino in primo piano. Un cono di luce, quasi caravaggesco, illumina la parte centrale della scena avvolta nell’oscurità. Il bambino in braccio a sua madre, protagonista della scena, tanto da ispirare il titolo “Natività”, sembra appena nato, forse è venuto al mondo durante il viaggio. La sua presenza e la storia che porta con sé malgrado la sua tenerissima età, bastano a conferire sacralità al tutto.
Scorrendo ancora le immagini, la mia attenzione ricade su un’altra scena biblica, “La via crucis”: centinaia di gente in cammino con la propria croce sulle spalle fatta di stoffa, poca roba piegata in uno zaino. Un cammino lungo fino al prossimo confine. Gli chiedo se i riferimenti biblici siano casuali o meno. «Nei periodi di festa - quelli che sceglie per pubblicare queste foto - la gente si distacca dalle problematiche, è più concentrata sulla festività. Lo scopo della fotografia è sensibilizzare il più possibile chi è distratto. È smuovere le coscienze, sempre. Resta il fatto che è fondamentale il compito di chi fa informazione, perché mantiene vive, e in alcuni casi risveglia, le coscienze: quindi non ci si deve fermare, anche se a volte il buio della notte, così come quello della ragione, diventa assordante».
A questo punto mi chiedo, cosa conferisca la sacralità a queste immagini. Forse è semplicemente un incontro. È quel punto in cui la nostra realtà ne incontra un’altra. Diventano sacri i luoghi quando si consolida un’abitudine e si consacra qualcosa di cui si riconosce l’importanza rendendone venerabile il “pellegrinaggio”. Consacrare, vuol dire “rendere sacro insieme”, e in questo caso, riconoscere il valore di queste storie e raccontarle, vuol dire condividere un dolore e farlo conoscere anche agli altri, cioè a coloro che pensano di essere troppo lontani. In questo atto divulgativo risiede tutta la sacralità.
Quando cammino con la mia macchina fotografica, mi sembra opportuno dover chiedere sempre il permesso prima di fotografare, per non invadere l’intimità altrui. Questo pensiero mi porta a chiedermi se, per chi questa cosa la fa di professione, sia sempre facile fotografare, e se ci sono momenti in cui si decide di non condividere col mondo soprattutto qualcosa di doloroso. Mi viene in mente la storia di Alyan Kurdi (Alan secondo altre fonti), il bambino morto sulle coste turche e fotografato dalla reporter Nilufer Demir. Condivido con Francesco questo pensiero chiedendogli se esistono dei momenti in cui non si riesce a fotografare. «Ti devi trovare in alcune circostanze per capire cosa fare. Credo che al posto della reporter avrei fatto la stessa cosa. Anche io nel mio archivio ho tante bare e cadaveri. A volte il concettuale serve a ben poco, mentre immagini così forti servono a scuotere l’animo umano. Basti pensare che Angela Merkel una settimana dopo l’episodio si mobilitò per fare in modo che entrassero quanti più profughi possibili in Germania. Ricordi gli oltre 380 morti a Lampedusa nell’ottobre 2013? – mi dice - All’inizio non si voleva far entrare nessun fotografo, poi le istituzioni e la politica hanno permesso che quelle immagini venissero divulgate, perché un’immagine è di gran lunga più comunicativa di qualsiasi parola».
A proposito di fotografie raffigurante gente morta, mi vengono in mente le foto di Letizia Battaglia che con le sue immagini in bianco e nero ha raccontato un pezzo di storia italiana. I suoi reportage hanno immortalato la società palermitana dalla miseria alla nobiltà. Ma sono soprattutto gli scatti fatti durante la guerra di mafia che l’hanno resa famosa e le fotografie ai morti ammazzati fatte fino al 1992 quando, dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, decide di cambiare registro. Chiedo a Francesco, che attualmente vive in quella Palermo sicuramente cambiata sotto certi aspetti rispetto a quegli anni e a quegli scatti, se allo stesso modo prevede che un giorno possa desiderare anche lui di cambiare registro.
«Non credo che mi stancherò di fotografare quei volti, anzi ho voglia di fare sempre di più, di dare sempre di più con la mia testimonianza diretta perché solo raccontando come testimone diretto forse si può risolvere. Spero di allargare anch’io i miei confini e lavorare anche fuori dall’Europa. Lavoro sul tema delle migrazioni al 90% e spero di poterlo fare al 100%, e se mai dovessi decidere di cambiare, lo farei per allontanarmi completamente dal giornalismo. Fotograferei la natura con la sua bellezza».
Ora che si apre una vecchia/nuova rotta, quella del Mediterraneo, penso alle prime battute dell’omonimo film di Gabriele Salvatores. Il protagonista in viaggio su una nave militare, osserva i suoi compagni di viaggio, sopravvissuti per caso alla guerra e pronuncia delle parole che per me sono state enigmatiche e illuminanti allo stesso tempo: «Eravamo tutti in quella età in cui non sapevamo se mettere su famiglia o perderci per il mondo».
Me lo sono immaginato un po’ così Francesco, su una nave a scrutare l’orizzonte, mentre imbraccia la macchina fotografica e si chiede come mai si ritrovi proprio con quei compagni di viaggio, anche loro sopravvissuti un po’ per caso alla guerra.
L’ultima domanda che faccio a Malavolta è se ci si abitua a vedere tutto questo, quell’abitudine strana che già vediamo nelle grandi metropoli, dove un bambino che dorme su un marciapiede a molti non sorprende più.
«Non ci si abitua mai a tanto dolore, anzi, accumuli sempre di più. Chi fa questo lavoro per moltissimi anni a volte non riesce a fare a meno di stare in luoghi dove c’è bisogno di aiuto. Ha bisogno di essere presente sempre e ovunque e di assorbire il dolore degli altri, di farlo anche proprio in qualche modo, come se questo alleggerisse un po’ gli altri. Ti abitui solo a determinate cose, come a combattere l’insonnia e quindi ti abitui a dormire, o ti abitui a mangiare, nonostante lo stomaco chiuso in tante situazioni».
Cita Bauman, Francesco in una sua fotografia: «Famiglie, bambini, anziani: una unica massa di reietti che hanno avuto la sola colpa di nascere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Una unica massa umana che respingiamo dalle nostre vite reticolate di ipocrisia». Bauman in Vite di scarto scriveva: «I rifiuti sono il segreto oscuro e vergognoso di ogni produzione. Sarebbe preferibile che restassero un segreto».
C’è tanta umanità nelle foto di Francesco Malavolta, ma viene da chiedersi se questa umanità resti quando si rimane impigliati al filo spinato. Non resta che fare appello alla nostra umanità, cercare di restare umani, sempre e comunque come diceva Vittorio Arrigoni, e di lasciare che queste opere d’arte, smuovano le nostre coscienze o ci rapiscano per la loro bellezza.