Nel libro di Filippo Maria Battaglia “Stai zitta e va’ in cucina”, una desolante rassegna della italica riluttanza maschile al riconoscimento della parità delle donne
“Dietro Paesi come Bangladesh, Mozambico, Bulgaria e Costarica. Poco sopra Angola, Messico e Bolivia. È lì, al 37° posto, che si trova l’Italia nella classifica sulla parità di genere in politica.” Impossibile? Quelli che Filippo Maria Battaglia cita nel capitolo finale del suo libro “Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo” (Bollati Boringhieri, 2015), sono dati tratti dal Global Gender Gap Report del 2014, raccolti dal World Economic Forum: discutibili nel loro senso come tutti i dati statistici, ma inoppugnabili nella loro immediata evidenza.
Lo stesso report, riferito all’anno successivo, registra un apparente miglioramento, un balzo in avanti del nostro paese nella parità di accesso alle cariche istituzionali e politiche: nel 2015 conquistiamo il 24° posto grazie al deciso aumento del numero dei “ministri in gonnella”, per usare un’espressione tipica di un linguaggio portatore di stereotipi sessisti. Ma il premier che si circonda soddisfatto di tante giovani ministre è lo stesso Renzi che ha avocato a sé la gestione di un semplice Dipartimento per le Pari Opportunità, cancellando il Ministero omonimo come in genere si fa con le questioni meno urgenti e rilevanti: come se la parità di genere (per non parlare delle altre) fosse una questione ormai pressoché risolta.
Ma, manco a dirlo, sempre secondo la stessa fonte WEF, la realtà è ben diversa! E’ abbastanza noto che solo il 54% delle donne nel nostro paese ha un’occupazione, nella quale guadagna meno dei colleghi maschi, ma probabilmente solo pochi sanno che siamo centoundicesimi nella classifica mondiale dell’occupazione femminile, tra gli ultimi dei 145 Paesi esaminati: superati di un punto dall’Algeria e di parecchi dal Bahrein e da molti Paesi africani e musulmani.
Ecco, i Paesi musulmani: nei loro confronti meniamo vanto di una superiorità culturale basata principalmente sulla presunta parità tra i sessi in vigore tra “noi” e negata da “loro”. Il sintetico, essenziale excursus attraverso il quale F.M. Battaglia ci accompagna nel suo illuminante libretto, lungo la storia della Repubblica e attraverso le diverse facce del maschilismo dei nostri governanti e rappresentanti, ci costringe quanto meno ad un bagno di umiltà e di onestà intellettuale. Che dovrebbe indurci a riconoscere che per le donne italiane essere libere di mostrarsi e di muoversi, di vestirsi o svestirsi secondo i dettami della moda o comunque a loro piacimento, non equivale necessariamente ad essere rispettate e riconosciute come persone e come membri attivi della società. E non comporta automaticamente la possibilità di essere valutate per le capacità individuali prima che per le qualità o i limiti legati pregiudizialmente al genere. Soprattutto nei luoghi della produzione e del potere.
È infatti lo sguardo maschile sulla parità, più che la parità oggettiva, il focus di “Stai zitta e va’ in cucina”: eloquente e irritante, il grottesco ritornello del titolo avverte che protagonista del libro è il perenne maschilismo, trasversale e inestirpabile, da cui è affetta la classe politica nel nostro paese fin dagli esordi della democrazia. Agile e incisivo, “spesso involontariamente umoristico”, come lo definisce lo stesso autore, “scritto interamente dai maschi”, dal momento che il materiale principale è costituito da citazioni tratte da interviste, reportage, atti parlamentari, memorie, questo libro non è propriamente un saggio storico, non si propone di fornire spiegazioni e interpretazioni, ma non è neanche un pamphlet, un opuscolo polemico o satirico: l’Autore si limita a osservare ed esporre, a raccogliere e classificare, da un materiale sterminato, i dati più emergenti e ricorrenti che da soli compongono un ritratto davvero desolante.
L’osservazione è limitata ai settant’anni che hanno visto affacciarsi le donne alla politica attiva, ma è estesa a tutto l’arco costituzionale e a tutte le sue componenti politico-ideologiche: un contesto storico di radicali cambiamenti e accesi dibattiti, in cui la società italiana viene profondamente modificata, ma nel quale il maschilismo resiste e riemerge anzi continuamente come un atteggiamento atavico e viscerale o come reazione a quegli stessi cambiamenti.
I primi capitoli del libro di F.M. Battaglia inducono a pensare che sia stato proprio il nuovo protagonismo femminile indotto dalla economia di guerra e dalla partecipazione alla Resistenza a provocare una reazione risentita negli uomini, che alla fine della bufera rivogliono i loro posti in fabbrica e negli impieghi e il loro ruolo di capifamiglia. Già nella Resistenza si avvertiva questa preoccupazione che le donne uscissero dai ruoli ausiliari e gregari che volentieri venivano loro riconosciuti. Il “Meno male che sei arrivata, guarda come sono strappati i miei pantaloni” con cui la partigiana azionista Olga Prati viene accolta dal comandante della sua brigata non ha nulla di scherzoso né maschera dietro paternalistici intenti di protezione dal fuoco delle battaglie quello che è il pensiero irriflesso e profondo dei maschi anche più “democratici”: che le donne siano fatte per supportare il protagonismo maschile nella storia e nella società. Al quale si accompagna l’altro eterno presupposto maschilista, ovvero che l’affermazione di libertà delle donne debba corrispondere a sregolatezza e immoralità: “o sarta o puttana”, come sintetizza efficacemente il titolo del paragrafo dedicato alle partigiane secondo certi loro compagni.
Nonostante l’impegno in favore di una maggiore uguaglianza, anche i leader del PCI, nel dopoguerra e oltre, devono fare i conti con il pregiudizio radicato anche in loro e con un moralismo tanto più severo in quanto impegnato, nel clima della guerra fredda, a difendere il partito da qualsiasi eventuale accusa di immoralità. Ne fanno le spese le compagne o le stesse mogli separate dei dirigenti più in vista, le cui vicende sentimentali o familiari fanno passare in secondo piano l’impegno politico e i meriti democratici. E tuttavia, tanta severità non esclude quel sessismo che è uno dei più subdoli aspetti del maschilismo: quella considerazione della donna principalmente sotto l’aspetto estetico e frivolo, quando non lubrico e triviale. Anche per i severi padri costituenti sembra siano state sempre le categorie di bellezza, eleganza, fascino ad attrarre l’attenzione sulle colleghe, sebbene in forme più contenute e “benevole” di quelle a cui ci ha abituato l’osceno machismo leghista e berlusconiano.
Nel ’48, di fronte alle quarantamila preferenze con cui la giovane e bella comunista Laura Diaz è stata eletta alla Camera, Ugo Zatterin si chiede “se questo plebiscito sia offerto alla sua bellezza o alle sue capacità politiche”, considerando queste ultime, nelle donne, tra le “attrattive minori”. C’è chi, già molto prima dei grillini, protesta contro la permanente gratuita alle parlamentari tacendo sul costo del servizio offerto dai barbieri, c’è chi pretende dalle donne in politica un aspetto da mamma e massaia, e chi manifesta aperto disprezzo per le colleghe meno attraenti: nulla è cambiato sotto il sole del Parlamento italiano! Le donne in politica sono, soprattutto, moralmente sospette, come del resto lo sono tutte quelle che accedono a posizioni di rilievo in ambienti a prevalente presenza maschile: e se la stagione berlusconiana è riuscita, con la collaborazione di certe donne, a trasformare talvolta in evidenti realtà questi sospetti, altrettanto evidente è la natura pregiudiziale di tante valutazioni più o meno apertamente formulate sui rapporti tra le donne e il potere.
Le accuse di vanità e immoralità, nel caso delle donne in politica, sono quasi sempre connesse a quelle di scarsa intelligenza: fin dagli inizi, ancor prima dell’approdo delle donne al diritto di voto, si sospetta che esse lo venderanno per un paio di calze di seta! E analogamente, del resto, molti pensano che anche l’aspirazione al lavoro corrisponda per le donne ad una pretesa motivata da esigenze inconfessabili. Uscite di questo genere abbondano in tutti i capitoli di “Stai zitta e vai in cucina” e provocano reazioni incredule non solo nelle giovani donne che non hanno vissuto le stagioni dominate dal moralismo a senso unico in vigore negli anni precedenti il ’68 e le lotte femministe, o quelle per il divorzio e per il diritto all’aborto, ma anche in coloro che quelle stagioni e quelle lotte le hanno vissute.
Proprio per questo è notevole che un così impietoso j’accuse provenga da un giovane giornalista di Sky TG24, editor e saggista, qual è F. M. Battaglia: chi ha più o meno la stessa età della repubblica non si sorprende nel sentir ricordare le leggi e le sentenze che sancivano l’obbligo femminile alla verginità prematrimoniale, alla fedeltà coniugale e perfino alla rinuncia alla realizzazione professionale in favore dell’impegno familiare, e sa quante battaglie personali e politiche siano state necessarie per modificare questi orientamenti; ma anche chi appartiene a quella stessa generazione non può frenare un sussulto nel leggere certe prese di posizione decisamente inattese da parte di campioni della libertà e di venerati padri della patria.
“E’ evidente che voi non penserete di venire a ripetere in campo politico, sociale, economico, intellettuale, quelle stesse cose che facciamo noi uomini.”: così Ferruccio Parri nell’ottobre del 1945 alle donne dell’UDI. Sta parlando forse di una “specificità femminile”? In realtà sta commentando l’introduzione, avvenuta nel febbraio di quell’anno, del voto alle donne, e quel discorso sa tanto di avvertenza, di limitazione delle aspettative: tanto è vero che inizialmente il diritto passivo di voto era stato escluso, le donne avevano ottenuto il “diritto” di eleggere i loro rappresentanti solo tra i maschi! Ci volle ancora qualche mese per correggere questa limitazione, e il 2 giugno dell’anno successivo, primo grande impegno elettorale nazionale per le donne italiane, solo 21 fra loro furono elette all’Assemblea Costituente, il 4% dei 556 deputati.
Le quali furono costrette ad un impegno decisamente arduo per evitare che certe limitazioni fossero introdotte nella Costituzione attraverso formulazioni ambigue, come quella relativa al diritto delle donne ad accedere alle professioni “conformemente alle loro attitudini”: perché a definirle, queste attitudini, talora con pretese di scientificità, più spesso con motivazioni morali e culturali, sanno che vorranno essere comunque gli uomini. Che le donne non siano adatte alla Magistratura, ad esempio, sarà sostenuto fino al ’63, quando viene stabilito il diritto femminile ad accedere a qualsiasi professione ed impiego in qualsiasi ruolo.
Di fatto, però, le battaglie più aspre per uscire dal ruolo obbligato e possibilmente esclusivo di mogli e madri occuperanno tutti gli anni ’70 e costeranno alle donne lacerazioni e conflitti profondi, che in questo libro scritto dagli uomini solo gli appelli, gli insulti e gli anatemi da loro coralmente profusi possono lasciare immaginare.
Il punto di vista da cui F.M. Battaglia osserva e ripropone tante differenti forme di svalutazione della persona di sesso femminile da parte dei politici italiani è interessante perché sembra davvero al di là di ogni incertezza: in modo quasi distaccato, senza indignazione o compiacimenti, segnala i sintomi di questa tara da qualsiasi parte si manifestino, avvertendo che gli insulti, le accuse, le considerazioni grottesche da lui citate sono solo una piccola casistica esemplare. Con disarmante naturalezza, questo giovane autore considera maschilista persino l’impegno del vecchio PCI a considerare le donne come categoria da difendere e organizzare alla stregua dei metalmeccanici o dei minatori: perché le donne sono, o dovrebbero essere, presenti in tutte le categorie, e perché, sebbene ingiustamente discriminate, non sono certo una minoranza! Insomma, per lui la misoginia imperante presso la classe politica non ha attenuanti e non è mai abbastanza segnalata e messa all’indice da una pubblica opinione tiepida quando non compiacente.
E’ questo l’unico motivo di speranza: che i giovani, al di là degli steccati ideologici, sentano in modo spontaneo che uomini e donne hanno pari valore e responsabilità. Palermitano di origine, Battaglia ha scritto anche per Il Foglio, la stessa testata per cui scrive quella Costanza Miriano (proveniente per altro dal TG3…) che ha pubblicato nel 2011 un libro rivolto alle donne e intitolato “Spòsati e sii sottomessa”! Un appello serio, nelle intenzioni dell’autrice, a recuperare un’idea tradizionale e a suo parere valida e necessaria del ruolo femminile nella famiglia. Paradossi del nostro tempo in cui grande è la confusione sotto il cielo, e in entrambe le sue metà! Un ritorno agli anni ’50, un riflusso ancora una volta indotto dall’avanzare di nuove battaglie per i diritti civili: contro il quale, meritoriamente, il libro di F.M. Battaglia implicitamente ci mette in guardia.