Ai confini della realtà in bilico tra Realismo Magico, Realismo Sociale e Realismo Socialista. Curiosando nell'Europa delle dittature e predittature con l'aiuto di Franz Roh e Gustav Fredrich Hartlaub e con qualche pindarica digressione.
Tra i dipinti della sezione La corsa allo spazio nell’esposizione Russia on the road (1920-1990), in parte oggetto del primo capitolo di questo discorso, ce n’è uno che può fungere da trait d’union sia con la mostra concomitante Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940, sia con il multiforme movimento del Realismo Magico, che in vari modi e tempi arriva a coinvolgere tutti gli ambiti artistico-espressivi.
Tre dipinti di diversi periodi (anni '20, '30 e '60) e nazionalità (italiana, americana, russa) a vario titolo appartenenti all'ampio movimento del Realimo Magico.
Sebbene realizzato tra i trenta e i quarant’anni dopo le opere di Felice Casorati, Antonio Donghi e Ubaldo Oppi alle quali lo si può per certi aspetti assimilare, La terra in ascolto (1964) di Vladimir Nesterov, ha qualcosa di enigmatico che lo pone sul piano di un realismo difficilmente riscontrabile nella pittura sovietica, ma che lo avvicina appunto a quel Realismo Magico di cui Casorati, Donghi e Oppi sono considerati tra i primi esponenti.
Il Realismo Magico e le emozioni dello sguardo
La corrente pittorica del Realismo Magico viene generalmente datata tra i primissimi anni 20 e gli ultimi anni 50 del secolo scorso ma, grazie ad alcune caratteristiche che la rendono secolare ed imperitura, ha illustri antecedenti e continuatori in tutta la storia dell’arte.
Nel caso in questione un confronto del quadro di Nesterov con i dipinti Silvana Cenni e Ritratto di Renato Gualino di Felice Casorati può essere esemplificativo dell’esistenza di tratti comuni in opere così differenti.
Felice Casorati, Silvana Cenni (1922) e Ritratto di Renato Gualino (1923-24) esposti ala mostra Una Dolce vita? al Palazzo delle Esposizioni di Roma
Bisognerebbe però lasciarsi andare a un’osservazione scevra dai condizionamenti che sovrastrutture conoscitive, dettate dall’eventuale notorietà dei dipinti o anche semplicemente dai titoli, possono indurre. Ciò vale in modo particolare per i quadri di Casorati, oggetto di innumerevoli analisi e studi riguardanti sia aspetti formali quali la perfezione compositiva, l’armonia dei colori, i richiami a Piero della Francesca, sia dettagli informativi sulle persone ritratte.
Essendo l’emotività comunicativa uno degli elementi principali della pittura del Realismo Magico, anche lo sguardo dovrebbe essere dunque emotivamente libero per lasciare emergere quelle domande senza risposta che spesso le opere, più o meno considerate come appartenenti a quel movimento, suscitano.
L’attrazione che i due dipinti di Casorati esercitano sull’osservatore può forse trovare una giustificazione nella corrispondenza con un innato ideale di bellezza pura, tuttavia c’è in loro qualcosa di misterioso che li rende quasi magnetici.
Una sorta di inquietante serenità traspare da entrambi i dipinti. Da quella donna magrissima, per esempio, quasi anoressica, eppure bellissima nel suo portamento regale. Che cosa si cela dietro i suoi occhi chiusi? Ha o non ha coscienza di sé? I libri per terra e il drappo sulla sedia suggeriscono un ambiente colto ed elegante, ma di che luogo si tratta? La finestra dietro di lei evidenzia la presenza di un vetrata, ma non si vedono maniglie con cui aprirla. Qual è l’edificio in cui si trova questa stanza? Una biblioteca o un centro studi di qualche tipo? In quel caso perché quella veste grezza che sembra una camicia da notte o la divisa di una reclusa? Siamo in casa sua o siamo forse in una esclusiva casa di cura da cui non si può uscire?
Nell’altro dipinto chi sono quelle due figure vestite in abiti rinascimentali visibili sullo sfondo grazie all’apertura del tendaggio? Stanno semplicemente parlando o stanno forse complottando qualcosa? E quell’espressione imperscrutabile sul volto del ragazzino, quasi da esperimento di Kulešov, accentuata dall’ambiguità di uno sguardo presente e assente nello stesso tempo e di una bocca ugualmente incline al sorriso quanto alla serietà, che cosa tenta di comunicare?
Vladimir Nesterov, La terra in ascolto (1965)
Anche la grande tela di Vladimir Nesterov La terra in ascolto, una tra le opere più belle della sessantina presentate in Russia on the road, è pervasa da un’atmosfera di tensione e sospensione che, scaturendo dalla posizione e dalla postura della donna, si diffonde ovunque.
Tutto è molto concreto nel dipinto quasi fotografico di Nesterov, eppure la realtà resta impenetrabile e non tanto perché ciò che i personaggi stanno osservando sia al di fuori dell’inquadratura, bensì, ancora una volta, per le domande senza risposta che la scena suscita. Tutti i personaggi sono rivolti nella stessa direzione, ma l’atteggiamento della donna è molto diverso da quello degli uomini. A dispetto del loro sguardo attento lei ha gli occhi chiusi, come se non avesse bisogno di vedere. Forse l’esclusione della vista le permette di concentrarsi sull’udito e forse per questo motivo indossa le cuffie. Gli uomini sono evidentemente degli addetti ai lavori e i loro atteggiamenti palesano che qualcosa di particolare sta succedendo. Uno si sta sistemando gli occhiali, un altro ha la sigaretta che quasi gli sta bruciando le dita e anche quello con le mani in tasca ha sul viso la stessa espressione seria degli altri due nell’osservare quel punto fuori campo. Ma ma lei chi è? Perché non ha il camice? E perché quella particolare posizione di attesa, enfatizzata dai gomiti aperti e dalle gambe divaricate? Che abbia un potere sensitivo superiore tale da renderla la destinataria di un messaggio extraterrestre da cui gli uomini sono esclusi? Ci troviamo nella realtà o ai confini della realtà, come nella serie tv americana primi anni sessanta The Twilight Zone creata da Rod Sterlin, insuperata pioniera del realismo magico televisivo almeno fino a Twin Peaks di David Lynch?
Una bella locandina della serie televisiva statunitense The Twilight Zone (Ai confini della Realtà) ideata da Rod Sterling. I telefilm in bianco e nero della prima serie furono prodotti tra il 1959 e il 1964. Nel 1983 Joe Dante, John Landis, Steven Spielberg e George Miller diressero i quattro episodi di Twilight Zone: The Movie, il film con cui i registi vollero rendere omaggio al programma cult ed anticipare una nuova serie televisiva che fu trasmessa dal 1985 al 1989. Una terza serie fu prodotta negli anni 2002-2003.
Insomma, che la fantasia di chi guarda sia più o meno stimolata dipende in parte dalle differenti predisposizioni dell’osservatore, tuttavia l’atmosfera che i dipinti di Casorati e Nesterov suggeriscono è quantomeno straniante.
Il quadro sovietico richiama in particolare L’attesa, un dipinto realizzato esattamente trent’anni prima dal pittore e litografo tedesco Richard Oelze.
Richard Oelze, L’attesa (1935-36)
Sebbene Oelze abbia successivamente deviato verso un percorso decisamente surrealista, L’attesa è talmente aderente alla poetica del Realismo Magico da poterne quasi essere un manifesto. Il confronto specifico con La terra in ascolto mostra che in entrambi i casi le aspettative arrivano dal cielo. Inoltre, se a volte l’enigmaticità di un dipinto può essere attenuata dalla presenza di titoli esplicativi o rassicuranti, in entrambi questi casi essi sono talmente vaghi nella loro incisività da potenziare l’enigmaticità dell’immagine.
La terra in ascolto. Di che cosa? L’attesa. Di che cosa?
Le risposte possono essere solo congetture.
Considerazioni quasi analoghe possono valere per un altro quadro di Casorati esposto in Una dolce vita? anch'esso intitolato L'attesa.
Ciò che la donna ad occhi chiusi attende non ha nulla a che vedere con ciò che attendono le persone radunate nella campagna notturna, tuttavia anche nell'opera di Casorati l’atmosfera è quella della sospensione, meno misteriosa e inquietante eppure magica, che colloca la scena in una terra di mezzo tra la quotidianità del reale e l’ineffabilità del sogno.
Felice Casorati, L’attesa (1918-19)
Tornando al quadro di Oelze, esso offre spunti per altri agganci innanzitutto con un paio di dipinti della mostra Russia on the road.
Semaforo di Aleksandr Petrov ne presenta un curioso richiamo con l’amplificazione di quei cappelli che da significativo dettaglio diventano coprotagonisti insieme al semaforo.
Il dipinto risente degli influssi dell’iperrealismo, nonostante l’irrealtà del background. In teoria il contrasto tra l'ambiguità dello sfondo e la precisione realistica degli oggetti dovrebbe collocare questo dipinto anche nell’ambito del realismo magico, tuttavia la questione è alquanto soggettiva.
Aleksandr Petrov, Semaforo (inizio anni ’90)
Forse intenzionalmente realizzato con l’intento di comunicare l’opprimente senso di omologazione nella frenetica vita quotidiana, con quei cappelli tutti uguali sotto i quali stanno probabilmente individui tutti uguali in “attesa” davanti ad uno spiazzante semaforo con tutte le luci accese contemporaneamente, il dipinto ha tutti i requisiti per inserirsi in quel movimento. Tuttavia di quelle emozioni istintive che le opere del Realismo Magico generalmente comunicano, qui non c’è nulla. Ma questa è ovviamente un’opinione personale.
Molto più coinvolgente per l’emozione dello sguardo, e quindi più “magico”, è invece L’aerostato atmosferico Osooviakhim di Georgij Bibikov, pur nella certezza dell’avvenimento dichiarata dal titolo. Anche qui siamo a terra e anche qui l’evento avrà luogo in cielo, dove il pallone e il suo equipaggio stanno per essere lasciati andare.
Georgij Bibikov, L’aerostato stratosfericosferico Osooviakhim (1935)
Ci troviamo in pieno Realismo Socialista, non c’è posto per fantasie sognatrici, a meno che non servano per deificare Stalin o per fare apparire la vita della gente più bella e felice di quanto non sia. Di conseguenza anche senza l’aiuto del titolo sapremmo di trovarci di fronte ad un episodio realmente accaduto. Eppure tanto l’equilibrio compositivo quanto il monocromatismo dell’immagine, tanto la fisicità delle persone quanto la vaghezza degli alberi sul basso orizzonte nebbioso, conferiscono all’insieme un’indeterminatezza che pone l’immagine tra la realtà di uno scatto fotografico e la poesia di un’illustrazione fantastica.
Come nel contemporaneo quadro di Oelze anche qui c’è “attesa”. L’attesa che i soldati lascino le corde, che il velivolo prenda quota, che quei due sacchi di zavorra così armonicamente bilanciati cadano a terra, che gli eroi una volta raggiunto il cielo riescano a tornare a casa sani e salvi. Purtroppo non sarà così. L’aerostato è destinato a cadere e i membri dell’equipaggio a perdere la vita. Nella celebrazione dell’evento, Georgij Bibikov riesce a rendere omaggio all’impresa e al sacrificio dei tre uomini in una perfetta commistione di Realismo Socialista e Realismo Magico.
Un altro quadro degli stessi anni, intitolato Il dirigibile, offre un'ulteriore sitazione con persone che da terra indirizzano lo sguardo al cielo. L’autore è Carel Willink, principale esponente del realismo magico olandese insieme a Pike Koch. Nato nel 1900 e scomparso a 83 anni, Willink ha dipinto per tutta la vita scene in cui la componente “magica” emerge al primo sguardo dell’osservatore senza alcun bisogno di riflessioni.
Carel Willink, Paesaggio con statue cadute (1942) e Paesaggio urbano (1934)
Che ritragga scene con ruderi di civiltà antiche o con edifici contemporanei, la dimensione delle sue opere, dipinte con una precisione quasi maniacale supportata da una altissima capacità tecnica, porta inevitabilmente “altrove”, anche grazie alla presenza di turbolenti cieli “romantici” sempre diversi e sempre perfetti nel determinare i tagli di luce adeguati per ogni singola inquadratura.
Carel Willink, Il dirigibile (1933)
Tuttavia Il dirigibile (De Zeppelin) in un certo senso fa eccezione. Diversamente da quanto avviene ne L'attesa di Oelze qui non si percepisce alcun mistero, né si immagina alcuna ipotetica preoccupazione sui volti dei personaggi, che sono presumilbilmente sorridenti mentre salutano con il braccio alzato. La tranquillità del saluto al velivolo, concreto come l’aerostato di Bibikov, elimina anche la possibilità di quelle apprensioni sull’esito del volo ipotizzabili invece per la missione russa.
In De Zeppelin tutto è dichiarato e così la certezza della situazione toglie alla scena la tensione di quei paesaggi vuoti dove l’umano è rappresentato dai simulacri delle statue, oppure di quelle strade cittadine su cui incombono edifici moderni che sanno di abbandonato quanto le rovine, oppure delle situazioni in cui le persone possono essere sia figure in primo piano sia piccole ed inquietanti comparse. Una tensione che a volte diventa vera e propria suspense come nel quadro Cattive notizie, in cui la misteriosa corsa della donna verso l’uomo, ignaro quanto lo spettatore, suscita domande senza risposte.
Carel Willink, Cattive notizie, 1952
Non tutti i quadri di Willink tuttavia risultano inquietanti, ambigui o enigmatici, né del resto inquietudine, ambiguità ed enigmaticità sono le sole sensazioni comunicate dalle opere che in qualche modo gravitano intorno al movimento del Realismo Magico.
La gamma è infatti vastissima e se da una parte l'inquietudine può tramutarsi in ansia e persino in angoscia, dall’altra possono essere emozioni come incanto, meraviglia e stupore a predominare.
Esemplari nel comunicare questo tipo di "magia" sono i ritratti di Antonio Donghi.
Personaggi in posa cristallizzati su fondali monocromatici o su pareti di stanze a volte chiuse, a volte con un affaccio su paesaggi urbani o di campagna oppure, come nel caso del mondo circense e dello spettacolo, con tendaggi e sipari totali o solo intravisti.
Antonio Donghi, Circo equestre (1927), Ammaestratrice di cani (1946), Saltimbanco (1926)
Delle tre opere di Donghi selezionate per Una dolce vita?, Piccoli saltimbanchi e Giocoliere fanno parte della galleria circense dell’artista. E sebbene il circo non venga mai visto attraverso la concretezza che generalmente caratterizza l’immaginario popolare, l’atmosfera che emana dai dipinti connota l’aura di magia e di atemporalità tipica di quel mondo.
Antonio Donghi, Giocoliere (1936) e Piccoli saltimbanchi (1938)
Il circo ispira anche Pyke Koch, l'altro significativo esponente olandese di quel Realismo Magico dalle molte sfaccettature. Il suo inconfondibile modo di rappresentarne i personaggi contrasta alquanto con quello di Donghi, sia per la contestualizzazione e le pose dei personaggi, sia per i tratti grotteschi dei volti. Tuttavia nonostante la differenza delle sensazioni comunicate, l’impressione è che ci si trovi in entrambi i casi di fronte a qualcosa di enigmatico, come se la realtà fosse vista da una lente in grado di portarla in un mondo parallelo di irrealtà.
Alcune delle opere che Pyke Koch ha dedicato al mondo del circo
Pyke Koch, Donne per strada (1961)
Koch si dedica molto anche alla ritrattistica femminile, realizzando peraltro opere estremamente diverse tra loro, altrenando immagini in cui il realismo si miscela con suggestioni coloristiche e formali tipiche dell'espressionismo ad altre talmente idealizzate e delicate da apparire raffigurazioni quattrocentesche. Nel caso dei tre ritratti della baronessa Johanna Charlotte van Boetzelaer solo il primo ne connota la contemporaneità con quelle due strisce parallele nel cielo tipiche degli aerei in volo.
Pyke Koch, tre ritratti della baronessa Johanna Charlotte van Boetzelaer realizzati tra il 1947 e il 1954
Ma è proprio l’eterogeneità delle possibili combinazioni stilistiche e delle sensazioni che opere tanto differenti possono comunicare a caratterizzare il vasto movimento del Realismo Magico.
Sebbene Pyke Koch sia un valido esempio di come tendenze stilistiche opposte possano convivere in uno stesso “realista magico”, forse colui che meglio di ogni altro esprime nelle sue opere la variegata gamma di sensazioni che un’immagine può suscitare nell’osservatore è lo statunitense di Brooklyn George Tooker, un artista unico ed ineguagliabile.
Che siano l’incanto o l’angoscia o alcune delle sensazioni intermedie a volte combinate tra loro a predominare, le sue opere risultano sempre ammalianti nonostante il disturbo emotivo che molte di esse trasmettono.
George Tooker, Waiting room (1957)
Il Realismo Magico della pittura di Tooker e di alcuni suoi illustri connazionali in particolare, nonché quello dell'Americhe in generale dove l’orizzonte artistico del movimento si amplia a dismisura soprattutto in campo letterario per riflettersi poi nuovamente in Europa, è talmente ricco e vasto che, sebbene Dolce vita on the road offra soltanto delle “toccate e fuga” nel libero girovagare tra le arti, merita decisamente un capitolo a sé.
Per le divagazioni americane con le loro connessioni internazionali in un mix di letteratura, pittura, cinema e fotografia si rimanda quindi ad una delle prossime tappe, restando per il momento ancora nel vecchio continente dove la bella espressione è stata coniata.
Il Realismo Magico di Franz Roh e la Nuova Oggettività di Gustav Fredrich Hartlaub nella Repubblica di Weimar
Nel suo libro del 1925 Post-Espressionismo: Realismo Magico, Franz Roh fa riferimento a diversi artisti, sparsi un po’ per tutta l’Europa, che si contrappongono ai movimenti espressionisti ed astrattisti sia recuperando la tradizione dell’arte classica, trecentesca e quattrocentesca, sia trovando ispirazione in quegli artisti italiani che gravitano intorno alla rivista Valori Plastici di Mario Broglio edita dal 1918 al 1922.
Tra loro Giorgio De Chirico, suo fratello Andrea, in arte Alberto Savinio, e Carlo Carrà, i quali sostengono la necessità del ritorno all’ordine, all’antico, al classico e soprattutto al “mestiere” che, come scrive De Chirico, “deve essere meticoloso, puntiglioso nel disegno, nelle stesure pulite e accurate”.
Giorgio De Chirico, Mélancholie d'un après-midi (1913) e Autoritratto con busto di Euripide (1923-24) esposti alla mostra Una dolce vita?
Pur individuandone sette diverse correnti, Franz Roh attribuisce al Realismo Magico alcuni tratti generali che non solo lo contrappongono all’espressionismo, ma lo differenziano anche dai precedenti movimenti realistici di impronta verista e naturalista. Nel “nuovo” modo di dipingere, diffusosi soprattutto dopo la prima guerra mondiale ma in incubazione già precedentemente, la rappresentazione concreta di ambienti, oggetti e persone avviene infatti in una combinazione tale da sortire effetti stranianti, difficilmente riscontrabili in una normale osservazione della realtà.
Rispetto ai realismi precedenti non c’è più insomma la testimonianza quasi fotografica di quelle scene sociali che si trovano ad esempio in Courbet, Millet, Daumier o Pellizza da Volpedo, quanto piuttosto ci troviamo di fronte alla rappresentazione di una realtà dietro la quale si nascondono verità segrete, con l’intenzione di contrapporre al verismo e al naturalismo qualcosa che ne vada aldilà.
In alto a sinistra Honoré Daumier, Il vagone di terza classe (1862);
sotto Giuseppe Pellizza da Volpedo, La discussione (1888);
in alto a destra Jean François Millet, Coltivatori di patate (1861-1862);
sotto Gustave Courbet, Gli spaccapietre (1849)
Quella del Realismo Magico pittorico è insomma una “nuova oggettività” e non a caso in Germania si sviluppa proprio all’interno del vasto movimento così definito.
Anzi le due definizioni inizialmente sono quasi sinonimi.
L'espressione Neue Sachlichkeit viene ufficiosamente utilizzata per la prima volta nel 1923 dal critico d’arte Gustav Friedrich Hartlaub in una lettera nella quale parla di una mostra che intende allestire alla Kunsthalle di Mannheim di cui è direttore, ma che deve rimandare data la terribile situazione iperinflazionistica che in quel momento affligge la Germania. Quando l’esposizione apre finalmente i battenti il 14 giugno 1925 col titolo di Nuova Oggettività: la pittura tedesca dall’Espressionismo, il termine assume i caratteri dell'ufficialità.
Frontespizio del libro di Franz Roh sul Realismo Magico e locandina della Mostra di Mannhaeim sulla Nuova Oggettività organizzata da Gustav Friedrich Hartlaub nel 1925
Le 124 opere selezionate appartengono a una trentina di pittori tedeschi che Hartlaub vede accomunati nell’opposizione all’espressionismo e che sono in sostanza gli stessi che anche Roth, peraltro collaboratore di Harlaub nell’organizzazione dell'evento, vede come i protagonisti tedeschi di quel movimento post-espressionista che definisce Realismo Magico e di cui amplia l’orizzonte a diverse nazioni europee.
In effetti con la costituzione della Repubblica di Weimar alla fine della prima guerra mondiale, la Germania assume un ruolo centrale non solo nella pittura ma nell'arte e nella cultura in generale. Parecchie città vedono nascere movimenti culturali innovativi e Berlino diventa il fulcro artistico europeo, attraendo stabilmente o di passaggio i più eminenti personaggi di ogni ambito espressivo.
Alcuni protagonisti del mondo culturale tedesco della Repubblica di Weimar, autori e soggetti dei tre ritratti.
Rudolf Schlichter, Ritratto di Bertold Brecht (1926); Conrad Felixmüller, Ritratto di Raoul Hausmann (1920); August Sander, Otto Dix e sua moglie Martha (1925)
L’esplosione creativa coinvolge l’architettura e le arti applicate nella eclettica officina della Bauhaus di Walter Gropius prima e di Mies Van Der Rohe poi; la fotografia con August Sander, Otto Umbehr (in arte Umbo), László Moholy-Nagy (ungherese ma attivo in Germania); il fotomontaggio e l'assemblaggio con John Heartfield, Raoul Haussmann, Hanna Hoch; il cinema con registi quali Robert Wiene, Paul Weneger, Fritz Lang, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg Wilhelm Pabst e con direttori della fotografia come Eugen Schüfftan e Karl Freund che dettano innovative regole seguite successivamente dal cinema internazionale a cominciare da Orson Welles; e ancore cabaret, teatro, musica, danza, scenografie e costumi, con le genialità rivoluzionarie di Karl Valentin, Max Reinhard, Edwin Piscator, Bertold Brecht, Kurt Weill, Oskar Schlemmer e molti altri.
Insomma per dirla più o meno con le parole che Guy Cogeval attribuisce all’Italia del 1900-1940, nel periodo compreso tra la fine della grande guerra e la definitiva presa di potere del nazismo nel 1933, la nazione tedesca "conosce straordinari momenti artistici proprio mentre si prepara a piombare nella catastrofe."
L'ala sinistra e l'ala destra della Nuova Oggettività di Hartlaub
e le loro frequenti invasioni di campo
Nella Nuova Oggettività Hartlaub individua un'ala sinistra e un'ala destra.
L’ala sinistra è politicizzata ed improntata ad un realismo di tipo sociale per il pungente carattere di denuncia delle esasperate ineguaglianze della società tedesca. E' spesso satirica e perfino cinica e si può avvalere di elementi formali caricaturali, grotteschi e deformi.
I suoi artisti di spicco sono Max Beckmann, Georg Grosz, Rudolf Schlichter, Otto Dix, Karl Hubbuch, Georg Scholz, Heinrich Maria Dravinghausen, Jeanne Mammen, Conrad Felixmüller e Christian Schad.
L’ala destra, scevra da provocazioni di tipo politico e sociale, fa uso di un realismo si stampo classicista ed idealizzato che trae ispirazione dall’arte del passato.
Tra i suoi rappresentanti figurano Alexander Kanoldt, Carl Grossman, Georg Schrimpf, Carlo Mense, Franz Radziwill e Christian Schad.
In alto opere due opere di autori dell'ala sinistra e sotto tre dell'ala destra.
Max Beckmann, Il sogno (1921) e Rudolf Schlichter, Studio Dada su un tetto (1920)
Carlo Mense, Ritratto di Underberg (1922); Franz Radziwill, La torre dell’acqua di Brema (1931);
Alexander Kanoldt, La cintura rossa (1929)
L'inserimento di Christian Schad in entrambe le ali è indicativo di come fonti diverse possano includere uno stesso autore in correnti differenti a causa dell’ambivalenza della sua produzione.
In effetti la dualità di Hartlaub, che a Roh non piace affatto, è riduttiva rispetto all'eclettismo degli artisti che non solo risentono di influenze reciproche, ma le cui produzioni individuali alternano spesso opere di denuncia ad altre prive di tali istanze, permettendo quindi incursioni nella presunta ala opposta. Inoltre capita spesso che il teorico rifiuto dell'astrattismo o dell'espressionismo non sempre corrisponda alla realtà, essendo quei movimenti eredità personale di molti pittori che vi hanno di fatto aderito. Altra rilevante motivazione della polivalenza espressiva è l'incidenza che gli sconvolgenti eventi storici del periodo hanno avuto sugli artisti, spesso stravolgendone completamente la vita, a volte modificando sostanzialmente il loro lavoro.
In una estrema ma indicativa sintesi Christian Schad (1894-1982), George Grosz (1893-1959) e Conrad Felixmüller (1897-1977), tra i più prolifici e dotati autori degli anni di Weimar insieme a Max Beckmann e Otto Dix, possono essere figure esemplificative di come mescolanze varie di questi fattori siano stati in grado di influire sulle variegate produzioni degli artisti di quel periodo.
Tre opere caratterizzate da forti influenze futuriste, cubiste ed espressioniste.
In alto George Grosz, Il ritmo della strada (1918).
Sotto Christian Schad,Ritratto di Walter Serner (1916)
e Conrad Felixmüller, Distretto minerario della Ruhr (1920)
Partiti tutti e tre da esperienze in cui si fondono cubismo, espressionismo e futurismo, si avvicinano sempre più ad un realismo di contenuto sociale, che spesso mantiene comunque una relazione formale con quei movimenti.
In Il ritratto di Raoul Hausmann (alcune immagini sopra) e L'agitatore, Felixmüller ritrae figure spigolose di derivazione cubista utilizzando una tavolozza smorzata rispetto ai colori forti dell'espressionismo. Le stesse caratteristiche si ritrovano in opere di altri artisti come ad esempio in Scacchista di Jeanne Mammen, una delle poche ma significative presenze femminili della pittura di quel periodo.
Conrad Felixmüller, L'agitatore (1920); Jeanne Mammen, Scacchista (1929-30)
In altri casi invece forme geometriche particolarmente accentuate vengono trattate con colori espressionisti, al fine di caricare di forti valenze visive la portata sociale dei contenuti.
Tre opere in particolare, Metropolis e Il funerale - dedicato a Oskar Panizza di George Grosz e Morte del poeta Walter Rehiner di Conrad Felixmüller, sono particolarmente significative ed offrono inoltre lo spunto per una seconda incursione nel mondo della Beat Generation.
Pindarica digressione da tre opere di George Grosz e Conrad Felixmüller all' Urlo di Allen Ginsberg
Georg Grosz, Metropolis (1917); due fotogrammi dal film Metropolis di Fritz Lang (1927).
Sopra: la città della classe dirigente edificata sulla superficie della terra.
Sotto: la città degli operai-schiavi costruita in profondità.
Conclamati capolavori della storia dell'arte, i tre dipinti palesano la necessità dei loro autori di fare ricorso a qualsiasi stile, o mescolanza di stili, dia lorola possibilità loro di esprimere in maniera potente la violenza allucinatoria, soprattutto psicologica, delle situazioni rappresentate, quasi volessero "urlare" la propria furia, proprio come Allen Ginsberg urlerà la sua nel 1955 con il poema Howl.
In Metropolis George Grosz ritrae la città come un mostro infernale disumanizzante, anticipando di dieci anni la metropoli dell'omonimo film di Fritz Lang, nel cui mondo sotterraneo una società di operai vive e lavora in condizioni aberranti per l'esclusivo benessere della classe dominante del livello superiore. In preda ad allucinazioni, il protagonista del film Freder vede la fabbrica del sottosuolo come un Moloch contemporaneo che, invece di divorare bambini come l'antica divinità pagana, fagocita gli operai in un incendio infernale. Naturalmente non c'è il rosso espressionista del quadro di Grosz nell'inferno in bianco e nero dell'espressionismo di Lang, ma analoga è la potenza visiva che i due artisti conferiscono alle rispettive metropoli, entrambe anticipatrici del Moloch che Allen Ginsberg invoca nella seconda parte di Urlo.
Sopra: i due primi Moloch del cinema: Cabiria (1914) di Mario Pastrone con testo di Gabriele D'Annunzio e Metropolis di Fritz Lang. Sotto: Allen Ginsberg indica un grattacielo in una foto scattata dopo una lettura di Urlo, in risposta alla domanda di un giornalista su che cosa il poeta intendesse per Moloch. Infine l'interpretazione grafica di Lynd Ward del Moloch di Ginsberg per un'edizione illustrata di Howl del 1978.
Moloch diventa in Ginsberg la metropolis statunitense dei grattacieli, simbolo di quella società consumistica e distruttiva che divora "le migliori menti " della sua generazione. Le menti come quella di Carl Solomon ad esempio, l'amico surrealista-dadaista a cui Ginsberg dedica il suo più famoso poema. I due si incontrano per la prima volta durante una visita di Ginsberg alla madre, degente nella clinica psichiatrica di Rockland nel New Jersey dove anche anche Solomon è ricoverato. Da quel momento nasce un'amicizia che durerà per tutta la vita. Anche Ginsberg vivrà in prima persona degenze in manicomi, mentre Solomon ne descriverà le consuete e devastanti pratiche dell'elettroschock, facendo riferimento sia alle sue esperienze sia a quelle vissute in Francia dal suo maestro Antonin Artaud.
Tanto le esperienze psichiatriche quanto le critiche lucide, crude e spietate sferrate alle rispettive società, accomunano Allen Ginsberg e Carl Salomon ad Oskar Panizza e Walter Rehiner, gli scrittori cui sono dedicati gli altri due dipinti di Grosz e Felixmüller.
Georg Grosz, Il funerale - dedicato ad Oskar Panizza (1917-18)
Prima di dedicarsi alla letteratura a tempo pieno Oskar Panizza si laurea in medicina e lavora come medico e psichiatra. I suoi studi in questo campo lo portano ad asserire teorie rivoluzionarie ed inaccettabili per la psichiatria di fine ottocento, come la connessione della malattia mentale con le condizioni sociali. Proprio come capiterà dopo la pubblicazione di Urlo a Ginsberg e al suo editore Lawrence Ferlinghetti, anche Panizza viene accusato e processato per le tesi dissacratorie di alcune sue opere. Ripetutamente condannato ed incarcerato per oltraggio alla religione ed allo stato, Panizza finisce vittima dei disturbi mentali da lui precedentemente studiati e vive gli ultimi diciassette anni della sua vita in un manicomio, dove muore nel 1921.
Conrad Felixmüller, Death of the Poet Walter Rheiner (1925)
La crudezza nella descrizione di realtà di alienazione e dipendenza appartiene anche a Walter Rehiner, poeta, scrittore, drogato, ricoverato in ospedali e manicomi, mendicante, senzatetto. La sua opera più celebre è il romanzo breve Cocaina, in cui racconta senza sconti i momenti più drammatici della vita di un tossicodipendente, con le crisi allucinatorie, le sconvolgimenti fisici e mentali dovuti all'astinenza, la disperata ricerca di una dose, la miseria di una vita ormai senza più speranze la cui unica via di scampo è il suicidio. Dopo sette anni da quello del protagonista del suo libro, Walter Rehiner ne emula il gesto ponendo fine alla sua vita a soli 29 anni.
Felixmüller, illustratore di alcuni suoi lavori, rende omaggio all'amico ritraendolo con con una siringa in una mano nell’atto di saltare dalla finestra, lasciandoci il dubbio sulla vera intenzione del poeta. Quel volo che sta per compiere ha come fine ultimo la morte o è piuttosto l'allucinatoria illusione di potersi librare nel cielo in un disperato anelito verso la libertà?
Considerando le analogie tra i vari personaggi coinvolti, non risulta azzardato includere anche Rehiner e Panizza tra le "menti" che Ginsberg omaggia con le parole di apertura del suo Urlo:
Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa...
Parole più o meno riprese nel 1965 da Francesco Guccini che ad Urlo si ispira per Dio è morto, la canzone incisa e resa famosa dai Nomadi nel 1967:
Ho visto la gente della mia età andare via, lungo le strade che non portano mai a niente, seguire il sogno che conduce alla follia nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già. Lungo le notti che dal vino son bagnate, dentro le stanze da pastiglie trasformate, dentro le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città, essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà, è un Dio ch’è morto...
Conclusa la pindarica digressione ginsberghiana indotta dai tre capolavori di George Grosz e Conrad Felixmüller si può ora riesumare anche Christian Shad, il terzo artista del trio preso ad esempio per illustrare il generale eclettismo degli artisti del periodo di Weimar.
Un'altra condivisione dei tre artisti è la stretta relazione con il gruppo dei Dada, che nasce a Zurigo il 5 febbraio 1916 quando Hugo Ball e Emily Henning aprono il Cabaret Voltaire, una via di mezzo tra un night club, una sala espositiva ed un teatro, aperto ad ospitere le più varie e rivoluzionarie performance all'insegna del motto l'arte è morta.
Hugo Ball in una performance al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 1916;
Marcel Janco, Cabaret Voltaire (1916).
Tra gli esponenti del Dada svizzero figuravano i rumeni Marcel Janco, Georges Janco e Tristan Tzara, autore dei primi testi Dada e del manifesto del movimento, il francese Jean Arp, i tedeschi Hugo Ball, Emily Hennings e Richard Heulsenbeck.
Allo scoppio della Grande Guerra la neutrale Svizzera diventa il rifugio di artisti e intellettuali pacifisti e anarchici provenienti da più parti d’Europa e non è quindi un caso che l'ufficializzazione del movimento Dada, animato da una fortissima carica antimilitarista e antiborghese in tutti i sensi avvenga proprio qui. Sebbene inneggiante alla morte dell'arte, considerata una manifestazione borghese, i dadaisti parlano moltissimo di arte e ne inventano nuove forme in tutti i campi espressivi. Per limitarsi all'ambito grafico-scultoreo il fotomontaggio, il collage, l'assemblaggio dei più svariati materiali, componenti meccaniche comprese, sono i più utilizzati.
Alla fine della guerra col ritorno in patria dei vari artisti il Dadaismo conosce una fase di fondamentale importanza in Germania ed in particolar modo a Berlino grazie soprattutto a John Heartfield (all'anagrafe Wieland Herzfeld), Raoul Hausmann e Hannah Hoch, con i loro fotomontaggi e assemblaggi vari, dal carattere dichiaratamente antimilitarista e sovversivo.
Hannah Höch, Taglio con un coltello da cucina Dada nel ventre birraiolo della Repubblica di Weimar (1920); a destra in alto Raoul Hausmann, Testa Meccanica - Lo spirito del nostro tempo (1920),
sotto la versione cibernetica di Maria in Metropolis di Fritz Lang, ispirata alla scultura di Hausmann e ad altri assemblaggi Dada.
George Grosz entra nel movimento e ne diventa uno dei principali esponenti, tant'è vero che nel 1920 organizza, insieme a Heartfield e Hausmann la Prima Fiera Internazionale Dada alla Galleria Burchard di Berlino, dove vengono esposte quasi duecento opere dei più significativi dada europei. Attivi nel movimento sono anche Otto Dix e Rudolf Schlichter che insieme a Grosz fungono da ponte tra il movimento Dada e l'ala sinistra della Nuova Oggettività. Il Dada è la disgregazione internazionale del mondo dei valori borghesi e sta dalla parte del proletariato rivoluzionario è la scritta di un grande manifesto preparato da Grosz raffigurante la sua immagine in atteggiamento belligerante. Altri suoi lavori sono il frutto dell'assidua collaborazione con Heartfield, con il quale Grosz condivide anche la decisione di modificare il proprio nome e cognome di nascita, Georg Groß, in segno di disgusto verso una Germania portata allo sfascio da una classe dirigente corrotta e guerrafondaia.
Un lavoro che suscita particolare irritazione nell'ambiente militare e governativo è L’Arcangelo di Prussia di John Heartfield e Rudolf Schlichter, un manichino con il volto da maiale vestito da ufficiale tedesco che pende dal soffitto con al collo uno dei tanti cartelli dissacratori sparsi ovunque. L'opera costa agli autori e a Burchard un processo per grave oltraggio all'esercito del Terzo Reich, sorte che tocca anche a Grosz per le sue scritte.
Una sala della Galleria Burchard, sede della Prima Fiera Internazionale Dada tenutasi a Berlino nel 1920. Tra le persone inquadrate Raoul Hausmann, Hannah Hoch, Georg Grosz, John Heartfield e Otto Burchard.
Alcune delle opere visibili nella foto precedente. In alto Mutilati di Guerra di Otto Dix appeso sulla parete di sinistra. A sinistra Germania. Un racconto d’inverno di George Grosz appeso sulla parete di fondo della galleria. Sotto una recente riproduzione de L'Arcangelo di prussia appeso sopra le persone sedute e la ricostruzione di Borghese arrabbiato - scultura elettromeccanica tatliniana di Grosz e Heartfield, visibile all'estrema destra della fotografia.
L’esperienza dadaista è condivisa anche da Christian Schad nelle fasi svizzere del movimento. Non volendo rischiare l’arruolamento nella prima guerra mondiale, Schad va a vivere a Zurigo dove stringe amicizia con i dadaisti. Sarà proprio Tristan Tzara, il capofila del movimento, a dare il nome di Schadografie agli esperimenti che l'eclettico artista tedesco comincia ad effettuare con la fotografia senza camera, esperimenti che affianca alla produzione pittorica, in quel momento ancora influenzata da cubismo e futurismo. Impressioni su carta fotosensibile spesso realizzate con passaggi successivi, le schadografie forniranno la base per le evoluzioni dei due più importanti sperimentatori del settore László Moholy-Nagy e Man Ray, che peraltro entra in competizione con Scahd nel rivendicare la paternità dei primi esperimenti che a sua volta chiama Rayografie.
Christian Schad, alcune fotografie senza camera che Tristan Tzara definisce Schadografie.
Anche Felixmüller gravita intorno al movimento Dada di Berlino. Il bel ritratto di Raoul Haussman con il monocolo tanto di moda all'epoca ne è solo un esempio. La sua militanza nel Partito Comunista al quale si iscrive nel 1919 lo avvicina sempre più anche agli altri dadaisti iscritti al partito come Dix, Grosz e Schlichter che saranno tra i più significativi artefici di quel Realismo Sociale dalle varie forme espressive degli anni di Weimar.
Otto Dix, Ritratto della famiglia Felixmüller (1919)
La militanza politica resta invece del tutto estranea a Christian Schad che al termine della guerra si trasferisce dalla Svizzera all'Italia dove resta per cinque anni. Non dovendo lavorare per vivere poiché ricco di famiglia, Schad conduce una vita in parte da dandy frequentando ambienti adeguati al suo status sociale, in parte da studioso dell’arte italiana del passato. Nello stesso tempo si appassiona anche alla pittura "realisti magici" italiani che diventano il punto di riferimento contemporaneo del suo nuovo stile pittorico.
Come Schad anche Grosz e Felixmüller non sfuggono al fascino esercitato dalle nuove teorie sulla necessità di un ritorno al classico e al mestiere. Anch'essi giungono infatti alla perfezione formale non solo dei grandi del passato, ma di maestri del calibro di Casorati, Donghi, Cagnaccio di San Pietro.
George Grosz, Donna con cappotto nero (1928);
Conrad Felixmüller, Immigrata russa di Baku, la signora Grinda Grettingen (1932);
Christian Schad, Lotte (1927)
Tuttavia se Grosz è pronto a sacrificare questa conquista formale per affidare la sua spietata critica sociale alla forza di quel realismo cinico, caricaturale e grottesco che lo caratterizza inconfondibilmente, Schad e Felixmüller, sebbene con motivazioni diverse , si orientano sempre più verso il tipo di pittura che Hartlaub inserisce nell'ala destra della Nuova Oggettività, fino a farla diventare preponderante nelle loro rispettive produzioni.
In Schad questo orientamento artistico si accompagna ad una precisa scelta di vita che lo tiene lontano per diversi anni dal suo paese, mentre in Felixmüller la "voglia di classico" si accompagna ad un progressivo e sofferto distacco dall'impegno sociale come conseguenza delle profonde delusioni politiche. E’ infatti il corso della storia, con la direzione che la Germania sta prendendo, a scoraggiarlo talmente tanto da abbandonare il Partito Comunista e da rinunciare a quell’attivismo politico che l'aveva visto combattere in prima linea per le trasformazioni sociali. I suoi temi diventano sempre più personali ed autoreferenziali, quasi il mondo esterno con l'ascesa del nazismo, favorito dalla indifferenza ed ignavia di una piccola borghesia pronta a seguire il nuovo futuro capo a mo' di gregge, fosse, come è stato, qualcosa di ineluttabile contro cui è del tutto inutile tentare qualsivoglia azione di contrasto.
Conrad Felixmüller, Ritratto di Julia Kirchhoff (1928), Londa allo specchio (1933), Allo specchio (1934)
Qunto a Schad, dopo cinque anni di permanenza in Italia e il matrimonio con una romana, va a vivere a Vienna per un anno. Qui ha modo di conoscere una serie di personaggi interessanti, frequentatori di feste e di locali notturni dove la promiscua nuova società "bene" si incontra, anticipando di alcuni decenni le notti della dolce vita felliniana.
Ci sono nobili decaduti degli ex-imperi europei, forse effettivamente tali o forse semplici avventurieri ed avventuriere che per nobili si spacciano, ci sono benestanti più o meno nuovi e individui più o meno eccentrici, tutti in cerca di visibilità, celebrità e fortuna. Tornato a Berlino nel 1925 Schad continua questo suo stile di vita per alcuni anni, almeno fino a quando le conseguenze del crollo di Wall Street non determina la rovina economica della sua famiglia.
I ritratti più o meno ironici e pungenti che dipinge in questo periodo offrono una galleria impagabile dei personaggi tipici del “nuova società” delle grandi città europee. A questi lavori affianca immagini di dichiarato contenuto erotico e persino illustrazioni per una guida turistica molto particolare alla quale collaborano anche Jeanne Mammen e George Grosz, La guida alla Berlino dei vizi. Non manca inoltre quel tipo di ritrattistica in cui l'idealizzazione di stampo classicista è predominante, che anzi connoterà sempre più la sua produzione in una successiva fase della sua carriera artistica, facendo definitivamente di Schad il portotipo di artista in grado di collocandosi in ugual misura sia nell’ala sinistra sia in quella di destra di Hartlaub.
Sintesi di questa ambivaleza si trova sovente anche all'interno di una stessa opera, peculiarità tutt'altro che facile nella quale Schad eccelle. Un esempio su tutti, almeno perora, è il ritratto del Conte St. Genois di Anneacourt, un elegante diplomatico viennese vagamente somigliante ad Humphrey Bogart.
Christian Schad, Conte St. Genois di Anneacourt (1927) e fotomontaggio di Elisabetta Raimondi con il Conte St Genois e Humphrey Bogart sullo sfondo ritoccato del quadro di Schad.
Il classicismo della composizione con la fredda perfezione formale dei tre personaggi e il panorama notturno sullo sfondo oltre la finestra rappresentano appieno quel ritorno all’ordine e al mestiere sostenuto dalla rivista italiana Valori Plastici. Teorie che Schad conosce bene data la sua lunga frequentazione dell’Italia. Tuttavia la scelta di rappresentare le eleganti ed equivoche feste del jet-set in momenti di generale sofferenza economica per il popolo tedesco collocano l’opera anche nell'ala sinistra. Risulta inoltre provocatoria la scelta dei soggetti rappresentati, a causa dei pettegolezzi che gli appartenenti a quella esclusiva elite non si risparmiavano l'un l'altro.
Il dipinto, come nei migliori casi del Realismo Magico, è un capolavoro di ambiguità e suscita domande le cui risposte questa volta possono forse trovare alcune risposte nella composizione dell'opera.
Il conte guarda in faccia l’osservatore, quasi volesse chiedergli quale delle due donne tra cui è stretto come in una morsa debba scegliere per una fase successiva del party. Entrambe vestite con velatissimi abiti trasparenti, che già denotano l’impronta erotica della festa, si guardano tra loro con aria di sfida dichiarando la contesa per aggiudicarsi il trofeo.
La scelta compositiva sembra avere decretato che la vincitrice non sarà l'androgina donna a sinistra, probabilmente una di quelle vere o presunte "contesse" decadute cui si faceva riferimento precedentemente. Seppure inquadrata di quinta parzialmente, Schad è abilissimo nell'esprimere sulla ridotta porzione del suo volto uno sguardo sprezzante verso la rivale, destinata a trionfare. In effetti il personaggio di destra è un famoso transessuale di allora dell'altrettanto famoso Cabaret Eldorado di Berlino. La sua figura, unica delle tre ad essere visibile quasi interamente e ad uscire verticalmente dal dipinto anche in alto, domina il quadro tanto letteralmente quanto simbolicamente.
Considerato il taglio dato a queste pagine, la citazione del cabaret Eldorado di Berlino dovrebbe fornire l'occasione per un'incursione nel locale, peraltro servita su un piatto d'argento dal pannello centrale del trittico di Otto Dix, un'ulteriore Metropolis, che ne ritrae una tipica scena. L'inevitabile digressione porterebbe al Kit Kat Klub del film Cabaret di Bob Fosse, passando per lo scrittore inglese Christopher Isherwood e per una serie di curiosità più o meno note e divertenti.
Otto Dix, Metropolis (1927-28). Il pannello centrale riprende una tipica scena d’interno del Cabaret Eldorado.
Una decina d'anni dopo l'omonimo dipinto di George Grosz e quasi contemporaneo al film di Fritz Lang, anche Otto Dix produce un lavoro con lo stesso titolo. Come le altre due opere anche quella di Dix diventa non solo uno dei quadri più celebri e celebrati della sua produzione, ma un simbolo della società di quel tempo.
Tuttavia è preferibile ora cercare di portare a termine quel discorso in bilico tra Realismo Magico, Realismo Sociale e Realismo Socialista anticipato dal tsottotitolo di questo capitolo, rimandando l'appuntamento all'Eldorado alla prossima puntata e dando innanzitutto un' occhiata a cosa ne è di Grosz, Felixmüller e Schad con il trionfo nazista, dal momento che i loro destini sono ancora una volta rappresentativi di quelli degli artisti di Weimar.
Grosz è tra coloro che scelgono l'esilio, seppure per lui come per molti altri l'esilio non sia tanto una scelta quanto una fuga per la sopravvivenza. Se ne va negli Stati Uniti dove resta fino al 1958, quando decide finalmente di tornare a vivere in patria. Purtroppo sarà una permanenza breve in quanto la sua vita si conclude poco dopo il suo ritorno per una rovinosa caduta notturna in stato di ubriachezza.
Felixmüller, le cui opere vengono ritirate dai musei pubblici fin dal 1933, viene tenuto d'occhio per la sua ex militanza nel partito comunista e viene inserito tra gli artisti della Mostra Arte Degenerata di Monaco del 1937. Tuttavia, correndo meno rischi personali di Grosz, non abbandona la Germania anche perché ormai la sua produzione di dipinti ed incisioni ha perso la carica eversiva che contraddistingueva i suoi precedenti lavori.
La sorte più strana e anomala, considerato il contesto, è quella che tocca a Schad. A differenza di Grosz, Felixmüller e della maggior parte degli artisti del suo calibro, egli non viene incluso tra i "degenerati" e così, nonostante buona parte dei suoi lavori siano perfettamente assimilbili a quelli della Entartete Kunste, nessuna delle sue opere fa parte della mostra così intitolata. Al contrario Schad figura nella parallela esposizione sulla Grande Arte Germanica, cosa che nel dopoguerra penalizzerà l'artista almeno fino agli anni '60, nonostante il suo indubitabile antinazismo.
Tre opere diChristian Schad:Ragazzi che si amano (1929); Agosta, l'uomo dal petto di piccione, e Rasha, la colomba nera (1929); Ritratto di Egon Erwin Kisch (1928). Una donna di colore , due omosessuali, un giornalista ebreo e comunista. Tre opere che avrebbero dovuto fare inorridire Hitler. Eppure Schad non è incluso tra gli artisti degenerati.
Se i cenni su questi artisti sono riusciti almeno in parte a dimostrare quale mescolanza di stili, forme e contenuti regnasse nel campo dell'arte visiva nel 1925 quando le definizioni Nuova Oggettività e Realismo Magico vengono coniate, non è azzardato affermare che in quel momento la confusione sembra essere il tratto distintivo nel tentativo di classificazione. Tuttavia col passare del tempo le incertezze tassonomiche trovano una specie di ordine, sempre che di ordine si possa parlare per movimenti così aperti alle più diverse influenze.
Sta di fatto che, pur nella condivisione di tratti comuni, con le due espressioni ci si riferisce oggi a due realtà distinte. Con Nuova Oggettività si intende un movimento prevalentemente tedesco e mitteleuropeo più che altro circoscritto agli anni tra le due guerre e per lo più caratterizzato da istanze di tipo politico e sociale.
Con Realismo Magico ci si riferisce invece ad un movimento più ancorato alla tradizione pittorica del passato, in particolare quattrocentesca, caratterizzato da atmosfere sospese tra realtà e irrealtà ed inoltre estraneo a contenuti di denuncia sociale. Caratteristica quest'ultima che vale perlomeno fino a che il termine di Roth non si allarga a dimensioni temporali, geografiche ed artistiche extraeuropee ed extrapittoriche.
Il Realismo Sociale della Nuova Oggettività e il Realismo Socialista dello Stalinismo
La Nuova Oggettività tedesca si configura dunque come quel movimento delle arti figurative impegnato a mostrare le numerose brutture di una società allo sbando dopo il disastro della guerra.
Il repertorio cui attingere è talmente vasto che pochi sono gli artisti in grado di coprirne l'ampio spettro.
Se Max Beckmann, George Grosz e Otto Dix sono coloro che ne hanno rappresentato il maggior numero di tematiche, molti sono comunque gli artisti che hanno lasciato opere esemplari e sconcertanti sui tanti soggetti adeguati per urlare la protesta di una nazione consumata da una guerra voluta dai potentati economici e politici europei.
Tra questi l’estrema povertà di gran parte della popolazione letteralmente ridotta alla miseria ed alla fame; lo squallore nel quale vivono gli strati più emarginati della società con la crudezza di strade e di interni degradati pullulanti di prostitute disfatte, di ubriachi, mendicanti e assassini, luoghi in cui spesso la violenza è fine a se stessa e in cui vittime e carnefici si scambiano continuamente i ruoli.
Max Beckmann, La notte (1918)
Ed ancora ancora l'indifferenza della piccola e media borghesia che si lascia trascinare lentamente ma inesorabilmente verso il nazismo; la guerra civile con la conseguente sconfitta del movimento spartachista; l’industrializzazione e le innovazioni tecnologiche che lungi dal migliorare la vita di tutti aumentano a dismisura la forbice tra i diversi ceti sociali; la corruzione degli uomini di potere e la loro connivenza con i corruttori, esponenti tanto di quella borghesia spregiudicata arricchitasi sulla pelle della povera gente grazie a speculazioni favorite dall'elevatissima inflazione quanto dell'altrettanto speculativa categoria dell'imprenditoria agricola industriale.
Parecchi artisti inoltre hanno vissuto la guerra, o una parte di essa, al fronte e una volta tornati a casa si fanno testimoni sia degli orrori cui hanno assistito, sia dell'indegno trattamento riservato ai cosiddetti "scemi di guerra", quei reduci definitivamente compromessi da mutilazioni fisiche o mentali.
In alto Erich Drechsler, Mendicante cieco (1923).
Sotto Georg Grosz, Giorno grigio, funzionario per l’assistenza ai colpiti della guerra (1921)
e Otto Dix, Il venditore di fiammiferi, (1921)
Ma la guerra ha anche i suoi risvolti positivi, perlomeno per alcuni. Per gli uomini di potere corrotti e per i loro corruttori, esponenti di quella spregiudicata borghesia industriale, edilizia e agricola arricchitasi sulla pelle della povera gente prima con la guerra e poi grazie a speculazioni favorite dall'elevatissima inflazione.
Ed ecco allora i tronfi veterani pluridecorati in abiti eleganti e i grassi imprenditori edili e ancora i mostruosi agricoltori industriali immortalati da Georg Scholz nei suoi dipinti.
Georg Scholz, Veterani di Guerra (1922)
Sebbene la raffigurazione satirica di Veterani di guerra, renda ridicoli i personaggi e la rappresentazione naif del paesaggio dia l'impressione di trovarsi in un villaggio idilliaco, una osservazione attenta del dipinto e dei simboli di cui è carico mostra il disgusto di Scholz verso la società che i tre personaggi in primo piano rappresentano. Tanto per cominciare non s diiamo in presenza reduci della grande guerra, ma vecchi e ricchi veterani della guerra franco-prussiana, come indicano un piccolo memoriale con la scritta 1870-71 alle spalle della bambina e lo stendardo con lo stemma del Secondo Reich. Fanno cioè parte di quella classe conservatrice e antirepubblicana che dalla prima guerra mondiale ha solo tratto profitto, proprio come quell'Hugo Stinnes il cui nome troneggia su uno degli edifici dello sfondo. Già enormamente arricchitosi con il carbone e con molte altre industrie prima del 1914, Stinnes moltiplica talmente le sue ricchezze durante e dopo la guerra da venire definito il re dell'inflazione e il nuovo imperatore della Germania. Un'altra scritta simboleggia le nostalgie autoritarie e militariste della classe conservatrice ed è l'insegna dell'albergo o locanda Zum eisernen Hindenburg (Al ferreo Hindenburg), che fa esplicita allusione al feldmaresciallo Paul von Hindenburg, futuro presidente della Repubbluca tedesca, anche se Scholz ancora non lo sa visto che dipinge il quadro tre anni orima della sua elezione.
Georg Scholz, Cose a venire (1922) e Agricoltori industriali (1920)
Se satira e caricatura caratterizzano i veterani di guerra e le tre macchiettistiche figure in primo piano di Cose a venire, probabilmente speculatori edilizi che ragionano di come far profitti sull'area che li separa dalle fabbriche sullo sfondo, è un grottesco cinico e mostruoso a caratterizzare i componenti della famiglia degli speculatori dell'industria agricola che non si fanno problemi ad espropriare la terra dei piccoli contadini ma che restano "cristianamente religiosi", come mostra la bibbia saldamente stretta tra le mani del capofamiglia in cui cranio aperto è pieno di banconote. Anche in questo dipinto, come in Veterani di guerra l'autore ha riempito il dipinto di interessanti simboli da scoprire.
Heinrich Maria Dravinghausen, Lo speculatore (1920-21)
Diverso è invece lo stile formale dello Lo speculatore (1920-21) di Heinrich Maria Dravinghausen . Dall’ultimo piano di uno degli ultra-moderni grattacieli visibili dalle finestre del suo elegante ufficio di legno pregiato, se ne sta seduto alla sua scrivania, raffinato tanto nel vestire quanto nella scelta di vino e sigari, pronto a ricevere le telefonate e a compilare le scartoffie che gli procureranno altri profitti. L’impostazione compositiva e prospettica risente ampiamente delle influenze di De Chirico e Carrà, ma il tema è esclusivamente politico. L’uomo seduto, prototipo della speculazione edilizia (dato il compasso ben visibile sulla scrivania) e degli intrecci tra affari e politica, non è forse abbastanza sfrontato da guardare in faccia l’osservatore come quelli dell’era televisiva, ma non si è certo posto problemi morali nella scalata che l’ha portato alla posizione sociale nella quale si trova. Quante facce nostrane potrebbero essere sostitute a questa? E senza ricorrere alla banalità dell’ex-Trump italiano, basterebbe sostituire al volto dello speculatore di Dravinghausen le facce di quei due individui che ridevano al telefono la notte del terremoto dell’Aquila per fornire l’archetipo degli striscianti personaggi che oggi forse ancor più di allora anche noi non ci facciamo mancare.
La satira e il grottesco caratterizzano anche molti lavori di un altro significativo esponente dell'ala sinistra della Nuova Oggettività, Karl Hubbuch, che in alcune sue opere a carattere drammatico anticipa peraltro i personaggi e l'inquietudine di George Tooker. Ma il fuori tema americano non compete a questo capitolo, dove la scelta per Hubbuch è ricaduta su due quadri pungenti e divertenti.
Karl Hubbuch. Dall’alto L’ora del the (1932-34) e Ognuno mostra ciò che ha (1930)
In The del pomeriggio e in Ognuno mostra quel che ha, Carl Hubbuch prende in giro tanto le signore della società bene, quanto le prostitute dei bordelli che i loro stessi mariti non disdegnano di frequentare. Quasi sempre rappresentati con corpi grassi e visi che ricordano più o meno esplicitamente i maiali, costoro sono i simboli di quella connivenza tra corruttori e corrotti e che regolano la vita politica ed economica di una repubblica destinata a piegarsi al controllo dell’inizialmente sottovalutato partito nazional-socialista, quando anche le cose per la pittura e l'arte in generale, cambieranno radicalmente.
Per il momento però in Germania siamo all’esatta antitesi di quanto sta avvenendo in Russia negli stessi anni, dove il diktat stalinista impone ed incoraggia un ben diverso tipo di realismo.
Un realismo teso ad esaltare lo stato e le condizioni di vita della sua popolazione , finalmente “liberata” da diseguaglianze sociali, orgogliosa del proprio lavoro e dell’importanza mondiale che la nazione è riuscita a conquistare proprio grazie al contributo di ogni cittadino. Nella Russia di Stalin non c’è posto per alcuna critica nei confronti del regime, né potrebbe essere tollerata pena la reclusione nei Gulag o l’eliminazione fisica. Siamo insomma in pieno Realismo Socialista, che per quanto possa essere confuso per l’assonanza dell’aggettivo con Realismo Sociale, ne rappresenta esattamente l’opposto. Almeno fino al 1933.
Jurij Pimenov, La nuova Mosca (1937)
Scopo specifico dell'arte è celebrare la nuova realtà e non importa se la donna alla guida della bella auto nel centro di Mosca nel quadro di Jurij Pimenov La nuova Mosca (1937) rappresenti un’infinitesimale parte della popolazione cittadina e sia del tutto estranea alla popolazione non moscovita o delle poche altre grandi città. Come mostrano sia questo sia altri dipinti presenti in Russia on the road, ciò che conta è mostrare i veri o presunti miglioramenti sociali che il comunismo ha porta con sé e di cui tutti possono beneficiare. Non che la società russa sia esente da miglioramenti sociali rispetto all’epoca degli zar per molti aspetti della loro vita, anzi, tuttavia la propaganda ne amplifica la portata a dismisura.
Aleksandr Labas, Metro (1935)
La costruzione della metropolitana di Mosca, la cui prima linea viene inaugurata verso la metà degli anni ’30, è senz’altro un enorme vantaggio per gli spostamenti della popolazione cittadina e innumerevoli dipinti devono ovviamente celebrarla. Anche in questo caso i due quadri scelti per rappresentare questo tema mostrano che quando un pittore è un artista non c'è esigenza propagandistica che tenga. Ciò che viene fuori, al di là del tema imposto, è un'opera d'arte. Metro di Aleksandr Labas e Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca di Grigorij Segal. Nella loro differenza stilistica testimoniano ancora una volta come l'artista sia in grado di superare le imposizioni dell’establishment, affermando piuttosto la propria sensibilità ed individualità, conferendo al contempo alle proprie opere un’universalità che travalica le richieste del regime, quasi queste non esistessero affatto.
Nel dipinto di Labas la velocità descrittiva dell’impressionismo si combina con la varietà realistica delle tipologie di passeggeri in un dipinto in cui l’armonia dei colori e la struttura compositiva conferiscono un che di quasi soprannaturale. Il realismo della parte bassa della scala mobile sembra infatti perdersi sempre più man mano si procede in diagonale verso l’alto dell’astratto cerchio grigio chiaro sfumato nell’altrettanto astratto resto dello sfondo beige. Verrebbe quasi vogli di starsene a a contemplare l’opera, antesignana Stairway to Heaven pittorica, sulle note del capolavoro dei Led Zeppelin.
Grigorij Segal, Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca (1941-43)
Molto più realistico nella concreta fisicità dei suoi passeggeri è il dipinto in cui Grigorij Segal utilizza la sua maestria compositiva per mettere in scena persone di ogni età ed estrazione sociale. Tranne due donne che stanno salendo, gli altri personaggi sono ammassati sulla scala discendente. C’è il bambino in fasce simmetrico al lampione ed alla giovane donna bionda che sta guardando in macchina in questa inquadratura dal taglio cinematografico. Tra loro al centro centro del dipinto un rombo i cui vertici sono il giovanotto ben vestito che guarda verso il basso, il soldato con il volto sorridente dalla parte opposta, la mamma del neonato che stringe il fagotto delle coperte e una delle due donne che stanno salendo di cui vediamo solo il cappello ma di cui intuiamo lo sguardo rivolto verso mamma e bebè. Ogni personaggio sembra avere il suo corrispettivo simmetrico. Alle opposte estremità due figure stanno leggendo. In basso a sinistra un anziano signore con un colbacco di lusso è concentrato nella lettura di un giornale, mentre in alto a destra una donna col volto parzialmente in ombra sta leggendo un libro. Dietro di lei un ulteriore figura entra nell’inquadratura solo con una piccola parte del volto, mentre davanti a lei la coppia anziana dall’atteggiamento dall’abbigliamento dimessi sembra controbilanciare socialmente il vecchio col giornale dall’aspetto elegante ed intellettuale. E poi altri personaggi interessanti, come il ragazzo con gli sci dallo sguardo perso e il bambino pensieroso che seppure di traverso guarda in macchina come la ragazza bionda.
Un alJulija Razumovskaja, In tram (anni 1930)
Un taglio diagonale e cinematografico caratterizza anche In tram della pittrice Julija Razumovskaja, dove le due donne in primo piano già sedute sulla vettura stanno conversando piacevolmente. Elemento cruciale del dipinto le linee rosse diagonali e verticali dei corposi stipiti dei finestrini, colore richiamato anche da un dettaglio, forse una cravatta, nell’abbigliamento di una delle due donne e da due piccoli tocchi sulle labbra di entrambe. Le spesse linee rosse che incorniciano i vetri accentuano da una parte la separazione tra l’interno dall’esterno del tram, dove altri passeggeri sono assembrati in attesa di salire, e riflettono al contempo l’interno della carrozza non solo raddoppiando l’immagine di una delle due donne ma mostrando i passeggeri, fuori inquadratura, seduti dalla parte opposta del vagone.
L'orgoglio dell'appartenenza alla nazione sovietica traspare anche dalla ritrattistica, un genere pittorico frequentato dai vari realismi magici, sociali o socialisti che siano e da tutte le loro combinazioni curiosamente possibili in un periodo storico così tragico eppure così ricco di vitalità culturale e artstica.
Aldilà delle enormi delle differenze stilistiche, concettuali e intenzionali, la ritrattistica offre spesso spunti divertenti per...
continua con
DOLCE VITA ON THE ROAD III
Girovagare nella multiforme ritrattistica europea della prima metà del secolo scorso, tra esplosioni antiepronazionalistedittatorialbelligeranti e soprattutto artistiche, può portare a curiose ed imprevedibili scoperte.