Un saggio di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano aggiunge un tassello importante alla conoscenza della storia della Resistenza
All’origine del libro Un’odissea partigiana: dalla resistenza al manicomio c’è una scena da film. Estate 1954. Campania. Provincia di Salerno. Aversa per la precisione.
Angelo Jacazzi, un giovane attivista del Partito Comunista Italiano che era stato incaricato di riordinare l’archivio della sezione cittadina del Partito, trovò nei faldoni della corrispondenza inevasa due lettere – una delle quali ricevuta addirittura un paio di anni prima – scritte da sconosciuti compagni dell’allora lontanissimo Nord Italia. Pur arrivando da due località distinte, Reggio Emilia e Venezia, entrambe le lettere raccontavano una storia simile e chiedevano aiuto.
Pareva infatti che, nove anni dopo la fine della Guerra di Liberazione e nonostante i reiterati provvedimenti di clemenza concessi, nel manicomio di Aversa fossero ancora rinchiusi due partigiani che scontavano una pena per fatti compiuti durante la Resistenza.
Parte da qui, da una scena da film come questa, da un archivio mal tenuto in una sezione periferica del Partito Comunista Italiano, la vicenda umana e politica di Angelo Jacazzi.
I casi registrati dagli autori sono molteplici e riguardano tutto il territorio nazionale, e ciò suggerisce l’esistenza di una questione più generale.
L’ampia documentazione che egli raccolse in modo scrupoloso per tutta la sua esistenza costituisce la base del presente saggio. Essa è stata poi integrata da Mimmo Franzinelli e da Nicola Graziano con interviste, atti giudiziari, documenti provenienti da diversi manicomi italiani, e contestualizzata storicamente in modo rigoroso. Ne è venuto fuori un bel libro che aggiunge un tassello importante alla conoscenza della storia della Resistenza. Sì, avete letto bene: storia della Resistenza. Se si fosse trattato infatti solo di un paio di partigiani che erano finiti per qualche motivo in manicomio, la cosa poteva essere anche derubricata a curiosità. Invece i casi registrati dagli autori sono molteplici e riguardano tutto il territorio nazionale, e ciò suggerisce l’esistenza di una questione più generale.
Ma cos’era successo? Contestualizziamo i fatti ripassando un po’ di Storia, esercizio che serve sempre. A grandi linee le cose andarono così. Subito dopo l’armistizio che Badoglio sottoscrisse con gli Alleati a nome dell’Italia nel settembre 1943, l’esercito tedesco occupò il nostro paese (in parte c’era già) per continuare la guerra contro gli Alleati che erano sbarcati in Sicilia a luglio e che stavano risalendo la penisola. Tra l’autunno del 1943 e l’aprile 1945 si affrontarono dunque sul suolo italiano due schieramenti, quello nazista e quello anglo americano, che alla fine prevalse. E gli italiani?
Nella zona settentrionale dell’Italia, occupata dall’esercito nazista, si creò un governo collaborazionista filonazista (la Repubblica Sociale Italiana, talvolta chiamata anche “Repubblica di Salò” poiché i suoi uffici politici più importanti erano appunto a Salò, sul lago di Garda) composto principalmente da ex appartenenti al Partito Nazionale Fascista e formalmente guidato da Mussolini. Sul suo territorio nacquero però anche una serie di bande – la maggior parte delle quali di ispirazione comunista, ma sarebbe scorretto definirle tutte comuniste – che si opponevano al governo collaborazionista e agli occupanti nazisti attraverso azioni di guerriglia e di sabotaggio, compiute in gran parte a ridosso delle zone montuose. Tali bande assunsero il nome di “Resistenza” e i loro appartenenti divennero noti come “partigiani”.
Se i due eserciti stranieri si affrontarono frontalmente in modo convenzionale, i due scompaginati eserciti italiani si affrontarono invece compiendo principalmente azioni di guerriglia e di controguerriglia nel Nord Italia, che portarono a risultati non diversi da quelli che si verificano tutte le volte che c’è una guerra civile: saccheggi, attentati, villaggi dati alle fiamme, spie fucilate, prigionieri torturati, esecuzioni sommarie, civili parificati a militari e tutto il corollario che ci è ben noto.
Con la resa incondizionata della Germania nel maggio 1945, le ostilità belliche tra l’esercito nazista e quello alleato cessarono immediatamente anche sul suolo italiano (l’esercito tedesco al momento della resa aveva però già abbandonato quasi completamente la penisola).
Le ostilità tra italiani continuarono invece ancora per un po’.
I conti di venti anni di dittatura, cinque anni di guerra e venti mesi di guerra civile vennero saldati nel giro di alcune settimane quasi ovunque. In Emilia e nella zona di Milano invece le cose andarono diversamente perché le violenze proseguirono per mesi, e casi di vendetta vennero compiuti anche alcuni anni dopo la fine della guerra.
Il giornalista Gianpaolo Pansa ha raccolto un’ampia documentazione sulle rappresaglie compiute dai partigiani nei confronti degli ex appartenenti al governo collaborazionista di Salò o nei confronti di ex simpatizzanti fascisti che, oltre ad aver perso la guerra, avevano perso anche il loro protettore teutonico, e per ciò erano vulnerabili. A onor del vero va però ricordato che anche molti fascisti – come era comprensibile che fosse – non deposero le armi il 25 aprile, ma continuarono a combattere, talvolta compiendo omicidi mesi, se non anni, dopo il 1945, anche se essi furono molto meno rispetto a quelli compiuti dai partigiani nel dopoguerra.
Un aspetto va in ogni caso tenuto presente: le rappresaglie a guerra finita non sono state una specificità esclusiva della guerra civile italiana, come talvolta si suppone, ma purtroppo rappresentano la triste norma di tutte le guerre civili, cioè delle guerre alla fine delle quali gli eserciti di entrambi gli schieramenti rimangono mescolati tra loro sul territorio nazionale. Pensate per esempio alle rappresaglie compiute dai nordisti sui sudisti dopo la guerra di secessione americana, o alle rappresaglie compiute dai franchisti sui comunisti e sugli anarchici dopo la guerra civile spagnola, o alle rappresaglie compiute dai bolscevichi contro i Kulaki dopo la rivoluzione russa, o alle rappresaglie compiute dagli esponenti della Resistenza francese nei confronti degli ex appartenenti al governo collaborazionista di Vichy (un caso molto simile a quello italiano). E gli esempi potrebbero continuare.
I governanti italiani del tempo tentarono di arginare le violenze serpeggianti in alcune zone del nord nell’unico modo in cui potevano farlo. Tra il 1945 e il 1953 promossero infatti una quindicina tra indulti e amnistie, piccole e grandi. I maggiori provvedimenti di clemenza (con l’importante eccezione dell’amnistia del novembre 1945 che era rivolta esclusivamente agli antifascisti) erano indirizzati ai contendenti italiani di entrambi i fronti, ma oggettivamente ne beneficiarono di più gli ex fascisti imprigionati, per il semplice fatto che sull’onda della vittoria erano stati arrestati molti più fascisti di quanti partigiani si trovassero ancora in carcere in quel momento.
La più famosa amnistia venne firmata nel giugno del 1946 dal Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, che era anche il segretario del Partito Comunista Italiano. Nei sette giorni successivi a tale amnistia vennero liberati 7.000 ex fascisti e 100 ex partigiani.
In questo senso va però ricordato invece che l’altra grande amnistia del 1953 venne fatta soprattutto per sanare le pendenze giudiziarie degli ex partigiani che si erano scontrati con le forze dell’ordine a seguito dell’attentato a Togliatti del 1948.
Tali scelte impedirono oggettivamente di fare giustizia, ma di fatto contribuirono alla pacificazione del paese.
Fino a qui arriva la storia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Di qui in poi prende le mosse il saggio Un’odissea partigiana: dalla resistenza al manicomio, che ad essa aggiunge nuovi aspetti.
Fino alla pubblicazione del saggio di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, abbiamo infatti generalmente ritenuto che alla metà degli anni cinquanta – ovviamente ad eccezione di alcuni appartenenti alle forze armate del Terzo Reich che avevano compiuto vere e proprie stragi, tra cui Kappler per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e Reder per l’eccidio di Marzabotto – in Italia i reclusi per i fatti legati alla guerra civile di dieci anni prima e all’immediato dopoguerra, che fossero ex fascisti o ex partigiani, si potessero contare sulle dita di una mano. Oggi sappiamo che non è così.
Inoltre, se Pansa e altri autori hanno documentato i crudi quanto reali fatti accaduti nell’immediato dopoguerra, quando lo stato italiano non riusciva ancora ad avere il pieno controllo della situazione, il saggio di Franzinelli e Graziano ci aiuta a comprendere cosa accadde quando lo stato riuscì a riprendere in mano la situazione, aggiungendo un tassello importante alla nostra conoscenza storica di quei lontani eventi.
È noto per esempio che vennero rimossi i Prefetti nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale e che ritornarono i vecchi Prefetti, che erano stati nominati da Mussolini.
È noto anche che dalle forze di Polizia vennero espulsi i partigiani che vi erano stati provvisoriamente inquadrati.
È noto perfino il fatto che il sistema giudiziario venne epurato solo in minima parte, tanto che un certo punto Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne presidente della Corte Costituzionale.
Insomma, è noto il fatto che la clemenza c’era stata non solo per i combattenti, ma anche per i vertici burocratici, giudiziari e polizieschi dell’ex regime fascista. E forse non poteva che andare così.
È cosa meno nota però che una piccola parte di questi apparati burocratici, giudiziari e polizieschi, nei turbolenti anni a cavallo e dopo 1948, forse per un istinto di autoconservazione, compì vere e proprie “rappresaglie legali” nei confronti di alcuni ex esponenti della Resistenza che venivano visti come un pericolo per l’ordine “ricostituito”.
Quando infatti la continuità dello stato venne ripristinata, per alcuni ex partigiani cominciarono i guai. Intendiamoci: in linea teorica non avrebbero avuto nulla da temere perché i fatti bellici non potevano essere considerati reati in base alla già citata amnistia del novembre 1945, e cioè una norma addirittura precedente all’amnistia voluta da Togliatti che aveva spazzato via tutto. E poi comunque c’era stata un’amnistia anche nel 1953 che aveva sanato, e per tutti, anche le ultime pendenze per i fatti accaduti fino al 1948.
Eppure, eppure... eppure per chi avesse voluto farla pagare in qualche modo ai partigiani un appiglio c’era. Era un tecnicismo.
Tutti i provvedimenti di clemenza coprivano infatti i comportamenti penalmente rilevanti compiuti durante o subito dopo la guerra, ma tali provvedimenti di clemenza non si applicavano all’ordinamento psichiatrico italiano.
Detto in altri termini: un partigiano (o un fascista) che prima o dopo il 25 aprile avesse fucilato un avversario politico non sarebbe stato perseguibile per questo fatto a meno che... a meno che non fosse stato dichiarato pazzo. In questo caso avrebbe evitato la condanna penale, ma non il manicomio.
Questo cavillo non fu applicato da tutti i giudici, ma fu utilizzato da schegge impazzite dell’ordinamento giudiziario, poliziesco e burocratico italiano che ignorarono lo spirito di pacificazione nazionale promosso dalle reiterate e avvedute scelte politiche dei nostri governanti di allora, che avevano deciso la liberazione di tutti detenuti politici – neri rossi o bianchi che fossero – per i fatti compiuti non solo prima, ma anche dopo il 25 aprile 1945, e fino al 1948 (tecnicamente per coloro che avevano compiuto i delitti più efferati le porte del carcere non dovevano spalancarsi, ma le cose andarono in modo diverso: venne per esempio rimesso in libertà anche l’autore di 80 delitti).
Attenzione: non è possibile sostenere che tutti coloro che vennero condannati al manicomio per fatti accaduti durante e dopo la guerra di Liberazione fossero davvero pazzi, perché in tal caso avremmo dovuto trovare in manicomio anche ex fascisti appartenenti alla Repubblica di Salò (teniamo presente che l’entità numerica dei suoi apparati militari e polizieschi era superiore a quella della Resistenza). E invece, allo stato attuale delle nostre conoscenze in materia, non è stato ancora possibile documentare una casistica significativa di ex fascisti condannati al manicomio per fatti avvenuti durante o immediatamente dopo la guerra civile. Pare dunque giustificato concludere, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze in materia, che il cavillo giuridico venne utilizzato solo per gli ex partigiani.
È bene però precisare che a creare questa situazione contribuirono anche errori di strategia difensiva, soprattutto per quanto riguarda i fatti compiuti dopo il 25 aprile 1945.
Come dicevamo, nei convulsi anni del dopoguerra si susseguivano infatti rappresaglie ma anche diversi indulti e amnistie. L’aspettativa di tali provvedimenti di clemenza convinse dunque alcuni avvocati difensori a chiedere la seminfermità mentale per i propri assistiti, nella convinzione che questa scelta avrebbe giovato loro. Essa avrebbe infatti portato innanzitutto a una pena lieve che – data appunto la sua esiguità – sarebbe con certezza rientrata nella casistica del successivo provvedimento di clemenza (le pene più severe potevano infatti essere escluse da tali provvedimenti). Era un’aspettativa che trovò una parziale conferma: le amnistie e gli indulti effettivamente arrivarono. Il problema era che esse non riguardarono mai l’internamento in manicomio.
Accadde dunque che alcuni partigiani, che si erano fatti passare per pazzi per avere pene lievi, si trovarono poi rinchiusi in strutture psichiatriche dalle quali non sarebbero mai più usciti: una situazione che non può non far tornare in mente Jack Nicholson nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Insomma, all’alba degli anni Sessanta in Italia non c’era più nessun fascista in carcere per i crimini commessi prima o dopo il 25 aprile, e questo perché amnistie, indulti e grazie e avevano svuotato le carceri. Ma ancora negli anni Sessanta, e per fatti accaduti prima o dopo il 25 aprile, un numero cospicuo di partigiani era ancora richiuso in manicomio.
La vicenda oggi è dimenticata, ma – attenzione – non è irrilevante. I casi documentati sono infatti decine.
È auspicabile quindi che ricerche come quella di Mimmo Franzinelli e di Nicola Graziano proseguano, in modo tale da capire l’esatta portata di un fenomeno che all’epoca ebbe una certa risonanza, tanto che esistevano su tutto il territorio nazionale diversi comitati ufficiali di solidarietà – è un altro pregio del aggio averne ricordato l’esistenza – che tentarono di alleviare le sofferenze dei partigiani reclusi in manicomio e che soprattutto per molti anni tentarono di farli uscire da lì (erano questi comitati che avevano scritto a Angelo Jacazzi).
Segnaliamo infine che della sorte di quelli che il libro definisce “pazzi per la libertà” se ne occuparono a vario titolo anche un altro giovane attivista comunista campano, Giorgio Napolitano; il Ministro della Giustizia Aldo Moro e il deputato comunista ed ex presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini.
Mimmo Franzinelli, Nicola Graziano, Un’odissea partigiana: dalla resistenza al manicomio, Feltrinelli, 2015, 222 pp., 18,00 euro