Per gentile concessione dell'autore, presentiamo il testo critico della mostra "La flagellazione di Cristo del Caravaggio" presso la Villa Reale di Monza
Caravaggio, “Flagellazione di Cristo”, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte,
in deposito da san Domenico Maggiore
1 Antefatto
Le circostanze che hanno prodotto l'arrivo del Caravaggio a Napoli sono riconducibili agli eventi immediatamente successivi all'assassinio di Ranuccio Tomassoni, avvenuto il 28 giugno 1606 presso il gioco della pallacorda, e alla fuga da Roma. Il pittore rimase coinvolto in uno scontro armato tra otto uomini (quattro per parte), generato dalle discussioni sorte per l'attribuzione di un punto, ma in realtà legato a un clima di forte rivalità di strada, giunto a un punto di rottura quando la famiglia ternana del suo avversario ottenne il controllo militare del rione di Campo Marzio. Tra le ragioni che avrebbero prodotto l'animosità tra i due gruppi, emerge la contesa per Fillide Melandroni, legata al letterato fiorentino Giulio Strozzi, ma anche amante del Tomassoni, e forse del Caravaggio, che la ritrasse in un dipinto commissionato dallo stesso Strozzi e andato perduto a Berlino. Non è da escludere inoltre che Michelangelo e Ranuccio si siano scontrati per il sospetto di quest'ultimo che il pittore trattenesse una relazione con sua moglie, Lavinia Giugoli. Sullo sfondo vi era infine la conflittualità esistente a Roma tra i sostenitori nella fazione spagnola (nella cui orbita militavano i Tomassoni) e quelli legati alla Francia1, acuiti dai festeggiamenti per la ricorrenza dell'elezione al trono pontificio di Paolo V, sostenuto dalla corona spagnola.
Dopo il fatto d'armi, il pittore, ferito a sua volta, riuscì probabilmente a trascinarsi sino a Palazzo Firenze, sede dell'ambasciatore dei Medici, e dunque sotto il controllo del suo protettore e mecenate, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte. Di lì venne trasportato nottetempo a Palazzo Colonna, residenza romana di Costanza Sforza Colonna, sorella del cardinale Ascanio, moglie di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio, e reggente per il figlio Muzio a partire dal 1583 dopo la morte del consorte2. Già nelle prime ore dopo il tragico avvenimento il Caravaggio comprese che rimanere a Roma gli era impossibile. Di lì la scelta di rifugiarsi provvisoriamente nei feudi Colonna dei Colli Albani. Il “primo salto”, come ricorda il suo biografo più precoce, il medico e collezionista d'arte Giulio Mancini, fu in Zagarolo, presso il Palazzo di Don Marzio Colonna. Per ragioni di sicurezza, tra luglio e agosto il nascondiglio venne forse spostato a Palestrina, in un'altra delle residenze dei Colonna3.
Per la morte di Ranuccio Caravaggio fu dichiarato colpevole di assassinio e nei suoi confronti venne emesso un bando capitale, equivalente a una condanna a morte in absentia. Chiunque lo avesse catturato entro i confini giurisdizionali dello Stato della Chiesa poteva ucciderlo, con la facoltà di troncargli il capo per poterlo presentare al giudice e ottenere il premio della taglia. Fuori da quei confini, Caravaggio restava un uomo libero, ma pur sempre soggetto alla minaccia costituita dai parenti di Ranuccio e impossibilitato a rientrare a Roma. La scelta di dirigersi verso Napoli, e non verso Milano, da dove proveniva (gli altri condannati si rifugiarono nei rispettivi territori di provenienza), Modena, dove sarebbe stato accolto con grandi onori (il duca d'Este da tempo cercava di ottenere una sua opera), Genova, dove aveva protettori e appoggi (già nel 1605, in occasione di un'altra contesa, quella col notaio Pasqualone, si era mosso verso la città ligure), doveva corrispondere a una strategia precisa, forse stabilita a tavolino già prima di lasciare Roma. In questa scelta sembra aver giocato un ruolo decisivo la stessa marchesa di Caravaggio. Il figlio di questa, Fabrizio Colonna, grazie all'intervento del Papa, si era visto commutare una probabile condanna per motivi disciplinari nell'esilio perpetuo a Malta. E nell'estate successiva si sarebbe diretto nell'isola, al comando di cinque galere dell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.
È possibile dunque che il Caravaggio, su consiglio della sua protettrice, abbia scelto Napoli nella convinzione che l'ottenimento del Cavalierato del Santo Sepolcro avrebbe costituito una sorta di immunità efficace anche in presenza del bando capitale, consentendogli di rientrare a Roma e di ottenere la grazia o la revoca della condanna. Non possiamo però escludere che a spingerlo verso Napoli siano stati altri consiglieri e differenti motivazioni: va ricordato in tal senso il già citato soggiorno romano presso la casa di Andrea Ruffetti da Toffia, non lontano da piazza Colonna, per quattro mesi (dal 31 ottobre al 13 marzo), durante i quali il Caravaggio mise mano all'ultima e più impegnativa delle sue opere pubbliche romane, la “Madonna del Serpe”, destinata all'Arciconfraternita dei Palafrenieri di Sant'Anna in San Pietro vaticano, e che deve far riflettere sul suo legame col circolo di intellettuali che gravitava attorno allo stesso Ruffetti: il poeta Marzio Milesi, monsignor Paolo Gualdo, vicentino, biografo del Palladio e successivamente corrispondente di Galileo Galilei, il collezionista di epigrafi Giovanni Zaratino Castellini e il filologo Gian Vittorio De Rossi, amico in gioventù di Tommaso Campanella, ma anche di Giulio Mancini, medico e biografo del Merisi. Ruffetti, De Rossi, Milesi e Castellini erano i fondatori dell'Accademia degli Umoristi. Le curiosità eterodosse di questo circolo di umanisti, lontani dalla sensibilità controriformata che si vuole talvolta attribuire al Caravaggio, assimilandolo alle cerchie dei simpatizzanti degli Oratoriani e inscrivendolo al numero degli artisti che agì sotto la suggestione dell'attività di Federico Borromeo a consolidamento dell'esempio del cugino Carlo, campione della cosiddetta Riforma Cattolica, sono per molti versi assimilabili a quelle di alcuni personaggi che si muovono nelle fila dei primi sostenitori e committenti napoletani del pittore, tra cui il marchese di Villa Giovan Battista Manso, amico di Torquato Tasso, in rapporti con Colantonio Stigliola e Giovanni Battista Della Porta, socio dell'Accademia degli Svegliati e sodale di Giambattista Marino, e, per la mediazione di questo, dei Crescenzi, di cui, secondo quanto ricorda il Bellori, il Caravaggio aveva fatto il ritratto4.
Non va inoltre dimenticato che, al di là della protezione offerta dai Colonna, fu il mercante e banchiere genovese Ottavio Costa ad acquistare e portare a Roma la “Cena in Emmaus” (lo ricorda il Mancini), che costituisce, unitamente alla “Maddalena in estasi”, il solo lascito documentato dei mesi trascorsi tra Zagarolo e Palestrina. Costa, committente del Caravaggio già nella fase romana, rinvia a quella pista genovese che è ricorrente nelle vicende del pittore (ricordiamo anche il breve soggiorno del 1605), e che segnerà anche le ultime commissioni, sino al “Martirio di Sant'Orsola”, ordinato da Marcantonio Doria. E nel contempo può aver contribuito a inserire il pittore non solo nel contesto di committenze maltese (era legato per parentela a uno degli esponenti di spicco dei cavalieri, Ippolito Malaspina, che commissionò al Caravaggio un “San Gerolamo”), ma anche in quello napoletano. Ricordiamo infatti che è del 6 ottobre 1606 la notizia che proprio un mercante, Nicolò Radolovich di Ragusa (l'attuale Dubrovnik), dà a dipingere una pala al Caravaggio. La commissione di quest'opera costituisce la prima attestazione certa dell'arrivo del Merisi in città5.
Da Palestrina il Caravaggio si era nel frattempo spostato a Paliano, altro feudo Colonna, posto più a Sud dei precedenti, la cui reggenza era appannaggio del già citato Marzio Colonna, mentre la titolarità apparteneva al minore Marcantonio IV6. Ne dà comunicazione il 23 settembre l'agente del duca estense Fabio Massetti, che confida di poter recuperare un anticipo di 32 scudi versato al pittore per un'opera probabilmente mai realizzata7. “Commesse il Caravaggio l'omicidio già descritto, et si trattiene in Paliano di dover esser presto rimesso”. La finestra temporale per una sua discesa a Napoli è dunque circoscritta a non più di due settimane, alla vigilia delle quali il Merisi dovette intendere che ogni mediazione (anzitutto quella di Scipione Borghese) per un suo rientro immediato a Roma era fallita.
Nella data suddetta il Radolovich, esponente di una famiglia di facoltosi commercianti dalmati di derrate agricole, che avrebbe acquistato nel 1608 il titolo di marchese di Polignano, fa registrare presso il Banco di Sant'Eligio l'ordinazione di un dipinto per la chiesa dei Minori Osservanti del centro costiero delle Puglie, allora dedicata a Santa Maria di Costantinopoli (ora Sant'Antonio). Sul conto aperto dal Merisi vengono versati duecento ducati: un congruo anticipo, per un'opera a oggi non ancora rintracciata. Si tratta di una “Madonna con bambino e santi”, che deve rappresentare un coro di angeli e di sotto, nel centro, San Domenico e San Francesco nell'atto di abbracciarsi, con ai lati a destra San Nicolò e a sinistra San Francesco8: quanto di più lontano si possa immaginare dalla direzione di radicale rinnovamento che il Caravaggio imprimerà al proprio lavoro nella prima fase napoletana. Non possiamo dunque escludere che l'opera non sia mai stata portata a compimento, o che il soggetto sia stato cambiato in corso d'opera. Tre settimane dopo il versamento, il pittore ritira centocinquanta ducati dal proprio deposito, circostanza che potrebbe indicare la restituzione di una parte dell'anticipo al committente9.
2 Napoli all'età del vicereame
Con poco meno di trecentomila abitanti, Napoli era all'epoca grande tre volte più di Roma. Un'economia fondata soprattutto sul commercio marittimo ne faceva il primo porto del Mediterraneo e la città principale dell'Europa Meridionale. Chi vi arrivava rimaneva sorpreso dai palazzi alti anche sei piani, e dall'impressionante densità della popolazione. Presidiata dalle guarnigioni spagnole e protetta dalla presenza di una flotta di galeoni, era governata in maniera predatoria e autocratica dal vicerè, incaricato ricoperto dal 6 aprile 1603 all'11 luglio 1610 (dunque all'epoca dell'arrivo di Caravaggio e sino allo scadere del suo secondo soggiorno), da Juan Alfonso Pimentel de Herrera, conte di Benavente. L'antica aristocrazia campana era stata spogliata delle proprie prerogative e in gran parte ridotta a un ruolo parassitario presso la corte: buona parte dei nobili aveva lasciato i propri feudi, venendo a vivere in città.
Mappa di Napoli all'epoca del vicereame.
Madrid, impegnata in quegli anni nelle complesse vicende dei domini nordeuropei (a partire dai Paesi Bassi) lasciava sostanzialmente carta bianca ai propri rappresentanti. A ravvivare l'economia locale erano soprattutto migranti genovesi e toscani, che vi svolgevano le attività mercantili e di cambio. É tra costoro, la classe emergente in possesso di importanti mezzi economici e desiderosa di una veloce affermazione sociale, che il Caravaggio troverà i propri committenti. Nel tentativo di evitare il ripetersi delle rivolte avvenute nel 1508 e 1547, il vicereame applicava un regime di austerità, contingentando i beni principali, a partire dal pane, e tassando i cibi che costituivano la base della dieta della classe meno abbiente. Nonostante la prosperità economica, Napoli non era in grado di dare lavoro a tutti, in particolare al flusso inarrestabile di persone che provenivano dalle campagne di tutto il Sud Italia. La carestia ricorrente negli anni 1603/1606 vide il duca di Benavente imporre una tassa sulla frutta. Nel 1607, il balzello venne esteso sul sale, monopolio di stato. Un vero e proprio scandalo scoppiò di lì a poco, allorché l'ispettore generale inviato da Madrid, Juan Beltran de Guevara, portò alla luce le irregolarità prodotte da personaggi vicini al vicerè, il quale decise di applicare pene esemplari, tra cui la condanna a morte sulla piazza pubblica di tre funzionari per furti annonari, in un probabile tentativo di allontanare da sé i sospetti di malversazione. Napoli era un grande teatro della povertà, che andava in scena a ogni ora del giorno e della notte, e segnava in maniera indelebile la fantasia di chiunque vi arrivava per la prima volta. Lo stato di indigenza della maggior parte della popolazione determinava il moltiplicarsi delle iniziative di carità e favoriva il radicarsi di un cattolicesimo allo stesso tempo ossessivo ed eterodosso, molto diverso dal conformismo del culto che il Caravaggio aveva incontrato a Roma. É probabile che il sentimento religioso, così come la vita quotidiana, gli dovessero sembrare più simili a quelli della Milano in cui era cresciuto. Napoli non aveva però avuto i Borromeo e il mondo religioso partenopeo era attraversato dalla percezione di una profonda antinomia tra fasto e miseria, irriducibile a ogni modello di organizzazione di consenso (mentre invece in Lombardia i Borromeo avevano riconfigurato secondo i dettami della Riforma Cattolica l'effervescenza che procedeva per il moltiplicarsi delle forme di culto, devozione ed azione). Non è un caso che la prima grande commissione pubblica napoletana arrivò al Caravaggio dal Pio Monte della Misericordia, grazie all'azione del già citato Giovanni Battista Manso. Questi era amico di Luigi Carafa Colonna, nipote di Costanza. I due avevano creato l'Accademia degli Oziosi, e Manso possedeva una villa sul mare a Puteoli, che avrebbe ospitato anni dopo il poeta inglese John Milton. Luigi Carafa, principe di Stigliano, figlio di Giovanna, sorella di Costanza, e sposo di Isabella Gonzaga, figlia di Vespasiano duca di Sabbioneta, aveva invece posto la sua residenza a Palazzo Cellamare, a Chiaia, ma dimorava spesso anche in una seconda località, il palazzo baronale di Torre del Greco. Sappiamo che la marchesa di Caravaggio, con l'intenzione di mettere in atto uno scambio dei propri possedimenti, a partire almeno dal giugno del 1607 si trovava a Napoli, e deve essersi fermata alternativamente in uno dei due possedimenti del nipote10. Nel palazzo di Torre del Greco potrebbe aver trovato ospitalità a partire dal febbraio 1611 anche un'altra protettrice del Merisi, Olimpia Aldrobandini, a conferma dei fortissimi legami con Carafa e Colonna11.
Alla passione per gli studi umanistici, che hanno fatto accostare la sua figura a quella del Ruffetti, Manso abbinava, come accennato in precedenza, l'adesione al gruppo di fondatori del Pio Monte della Misericordia. Nel 1604 tra il vicolo dei Zuroli e quello dei Carbonari veniva acquistato il terreno necessario all'edificazione della chiesa definitiva della confraternita, dirimpetto alla porta laterale del Duomo. Nell'affidamento della pala per l'altare maggiore-un'enorme tela di 3,90 cm x 2,60-al Caravaggio hanno giocato un ruolo, oltre al Manso, anche Tiberio del Pezzo, che fissò la somma da destinare all'artista, così come lo stesso Luigi Carafa Colonna. Un altro Carafa, Ascanio, aveva fissato nel 1603 le regole della nascente congregazione. Come le mosse che aiutarono il Merisi a condursi fuori da Roma, evitando la cattura o la vendetta dei Tomassoni, così anche la sua rapida introduzione nella cerchia più prestigiosa delle commissioni disponibili sulla piazza di Napoli avviene dunque in un ambito dove giocano ruoli di primaria importanza da un lato la sua vicinanza agli ambienti umanistici (e un ruolo da potente collante tra i suoi sostenitori romani e quelli partenopei sembra poter essere giocato dal Marino) e dall'altro la protezione esercitata dalle famiglie Colonna, Carafa e Aldobrandini. In merito a cui è ancora da aggiungere che, nell'impossibilità di fissare con precisione la prima residenza napoletana del pittore, conviene attenersi a quei documenti che sembrano confermare la sua presenza nel secondo soggiorno a Palazzo Cellamare, ospite di Luigi Carafa, senza scartare l'idea di una sua temporanea permanenza anche nel Palazzo di Torre del Greco.
Gaspar van Wittel, Chiaia e il Palazzo Cellamare, Napoli, Museo Pignatelli Cortes
3 Excursus sulla prima attività napoletana del Caravaggio
Quando avvenne la commissione della pala per il Pio Monte della Misericordia? Possediamo i documenti di un pagamento, datato 9 gennaio 1607, di quattrocento ducati12. Si tratta quasi sicuramente di un saldo e non di un anticipo13. Il tema iconografico, le “Sette opere di misericordia” rappresentava un vero rompicapo: come rappresentarle tutte in uno stesso dipinto? Non si trattava formalmente di pittura di storia, che imponeva la necessità di dare la sensazione cinematica dell’azione all’immagine. Né d'altronde era equiparabile a un soggetto teologicamente complesso come la “Madonna del Serpe” della Pala dei Palafrenieri, e però scioglibile dal punto di vista compositivo in una rappresentazione rarefatta, a metà tra la sacra conversazione e le scene d'interni della prima attività romana. Questa volta invece la questione era trovare un legante a sette azioni disgiunte, così da costituire un racconto coerente. Bisognava costruire una scena fatta di sette episodi. L’unità d’azione poteva anche essere artificiosa, ma perché “tenesse” occorreva un solo spazio e la possibilità di abbracciare idealmente con un unico sguardo tutto il dipinto. Caravaggio non era mai stato un grande raccontatore. Lotto o Savoldo, i grandi maestri lombardi che aveva osservato da ragazzo, ti facevano sorridere con il loro gusto per l’aneddotica. Lui invece aveva imparato a sublimare la propria adesione alla realtà con un esercizio di sintesi: al paradigma dell’invenzione aveva sostituito una forma d’empatia con il soggetto che paradossalmente corrispondeva con una capacità di enucleazione che arrivava al cuore delle cose. Abituato a una solidissima struttura geometrica, riuscì a dare la sensazione visiva di un andamento casuale, come se davvero in un vicolo napoletano una serie di scene indipendenti si illuminassero in brevissima sequenza, mantenendo la propria autonomia, ma risultando incastrate sintatticamente l’una all’altra da quel sentimento di promiscuità che è una categoria dell’anima consustanziale all’ambiente in cui è collocata la scena. Vista dal basso, la lettura procede quasi automaticamente in senso orario, catturata com’è inizialmente dallo specchietto per le allodole della fiaccola del sacerdote: un lume interno che illumina poco o niente. Lì a fianco un uomo sta seppellendo un cadavere, mentre una ragazza soccorre un vecchio carcerato, dandogli da succhiare il proprio seno, citando il mito classico di Pero e Cimone. Questa brutale condensazione lascia poi spazio a una sorta di cesura, e la lettura ricomincia con una specie di figura di quinta, quel nudo preso di schiena a cui un signorotto sta per lasciare metà del proprio mantello, suddividendolo con un altro elemosinante che sta nascosto nell’ombra, ed è invisibile oggi nelle condizioni di normale fruizione del dipinto. Il ragazzo sembra quasi giungere sul proscenio insieme a un viandante, riconoscibile per la conchiglia di San Rocco, che sta chiedendo ospitalità a un oste. Alle loro spalle un individuo corpulento ripete il gesto di Sansone, allorché bevve dalla mascella di un asino. Le sette opere di misericordia, accatastate così l’una all’altra, senza alcuna retorica, anzi con l’idea pervasiva che ognuno dei protagonisti viva in una dimensione eticamente impermeabile a quel che gli accade attorno, come se a unirli hic et nunc fosse solo il caso, vengono poi ricucite assieme dall’unico sguardo compassionevole di tutto il dipinto, quello del bambino sorretto dalla Madonna. E se sino a quel momento ci è sembrato di assistere alla recita improvvisata di una serie di automi, come in un canovaccio sperimentale, ecco che adesso d’improvviso tutto torna. La simultaneità di tempo è dunque palesemente una finzione, e in tal senso le letture critiche hanno inutilmente abusato del luogo comune di una sequenza di tranche de vie, colte nel loro farsi durante un’incursione nei quartieri spagnoli. È il tipo di lettura deformante che si applica sempre quando c’è di mezzo Napoli, se è vero che lo stesso Roberto Longhi, che adorava questo quadro, tanto da metterne un particolare in copertina al catalogo della mostra del 1951, parlò di “lenzuola lavate alla ben’ e meglio” e dei due angeli come di lazzaroni che starebbero facendo la “voltatella”.
L’analisi dei cambiamenti effettuati in corsa dal pittore, tra la prima redazione e quella definitiva, con lo spostamento di alcune figure, ravvisabile dalle fotografie, ha rafforzato il pregiudizio di una composizione costruita direttamente sulla tela, per abbozzi successivi, come a rimarcare la temperie anarcoide e spontaneista di quest’invenzione. Ma se invece di osservare le figure dal basso verso l’alto, per di più a una distanza inadatta a cogliere la bellezza dei dettagli (le gocce di latte sulla barba del vecchio, l’orecchio che spunta dietro la testa del giovane, a individuare un sedicesimo personaggio, quasi del tutto nascosto, l’accenno a una strana piega del lenzuolo che avvolge il gruppo superiore, quasi a far pensare che la Madonna si sporga da un balcone, sino all’ombra delle due ali proiettata naturalisticamente sul muro, e alla penna dell’angelo che finisce nella grata della prigione), si abbraccia l’insieme da un punto di vista rialzato, come quello del matroneo che fronteggia l’entrata della chiesa, ci si accorgerà della sapiente costruzione prospettica, con la narrazione che di fatto è scalata lungo due diagonali quasi parallele, una individuata dall’elsa della spada del giovane e l’altra dal davanzale della finestra, e con la torcia posizionata molto vicino al centro geometrico del quadro. Alla sua apparizione, “Le sette opere di misericordia” spostò in avanti di mezzo secolo l’orologio della pittura napoletana. E il clamore fu tale che anche il viceré, duca di Benavente, volle immediatamente entrare nel giro dei collezionisti di Michelangelo, ordinandogli una “Crocifissione di Sant’Andrea”14. Con una scelta singolare, derivata da Pietro Cavallini, il martirio dell’apostolo fu realizzato su di una croce tradizionale, e non su quella a X che prende appunto il nome dal fratello di Simon Pietro. Rappresentando il momento in cui Andrea rifiuta di essere risparmiato in extremis, e il carnefice che sta provando a slegarlo viene miracolosamente paralizzato, in modo che possa compiersi il disegno divino, Caravaggio sceglie un punto di vista molto schiacciato. La resa virtuosistica di alcuni dettagli, come le corde che legano i polsi al legno, occulta una fattura veloce e manierata, di cui resta impresso soprattutto il gozzo dell’anziana astante, che il mercante e copista Louis Finson ripeterà nella sua replica di “Giuditta e Oloferne”15, esemplificata su di una versione realizzata a Napoli dal Merisi in quegli stessi mesi, più a tinte forti di quella Barberini, documentata dalle fonti antiche e tuttora da rintracciarsi.
Al nome di Finson, è legata anche la tentata vendita nel settembre 1607 al duca di Mantova di un dipinto coincidente con la “Madonna del Rosario”16. Forse commissionata originariamente dal Duca di Benavente, la tela è entrata nel 1786 nelle collezioni di Giuseppe II d’Austria, ed è esposta oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Dopo la morte del Finson, fu Rubens a comperare la Madonna del Rosario, e a destinarla a una chiesa di Anversa17.
Caravaggio, “Le sette opere di misericordia”, Napoli, Pio Monte della Misericordia
4 La Flagellazione di Cristo: le fonti
A principio di maggio presso il Banco dello Spirito Santo viene registrato un nuovo pagamento al Merisi. Un documento che reca la data dell'11 recita infatti così: “A Tomase di Franco ducati cento e per lui a Michelangelo Caravaggio dite ce li paga a compimento ducati 250, atteso li altri D.150 l'have ricevuti contanti et sono in conto nel prezzo di una (…) che li averà a consegnare. A lui contanti.18”. La nota di pagamento è dunque riferita a un dipinto di cui non è indicato il soggetto, cosa però comune trattandosi di una trascrizione sul libro di banco del Giornale Copiapolizze (l'originale, che probabilmente portava l'indicazione del soggetto, veniva conservato in appositi fascicoli), effettuata da uno scrivano che non utilizza in questo caso une delle definizioni generiche ricorrenti per identificare la tipologia d'opera. Un secondo documento del 28 maggio attesta il pagamento attraverso il Banco di Sant'Eligio di una somma di 40,09 ducati al pittore: “da Tomase de' Franchis duc(ati) 40-9/a di 28 maggi(o) Caravaggio”. Scoperti da Vincenzo Pacelli, i due pagamenti sono stati messi in relazione alla “Flagellazione di Cristo” conservata originariamente in san Domenico Maggiore19. Il primo pagamento si presta a essere considerato alternativamente un anticipo per un dipinto non ancora realizzato o un saldo per un quadro già intrapreso ma non ancora consegnato. Il secondo è invece di difficile decifrazione. A prima vista potrebbe far pensare a un'integrazione a breve distanza del pagamento dell'11 maggio, ma potrebbe anche riferirsi ad altra opera di diversa destinazione (un quadro da collezione?20) commissionata dai De Franchis, anche se in quest'eventualità la cifra pare forse troppo esigua.
Il 24 giugno il pittore lascia Napoli, imbarcandosi sulle galere guidate da Fabrizio Colonna21. Non tornerà a Napoli che nel principio dell'autunno 1609, dopo i soggiorni a Malta, Siracusa, Messina (con possibile sosta, non documentata, a Palermo).
Nei primi anni del Seicento, la famiglia De Franchis appartiene al gruppo sociale dei notabili di recente affermazione a Napoli. Di origine genovese, stabilitasi inizialmente a Capua, è all'epoca da poco assimilata alla nobiltà cittadina22. Vincenzo De Franchis è presidente del Sacro Regio Consiglio nel 1590, e ancora giudice della Grande Corte della Vicaria e vice Grande Protonotario del Regno. Tommaso, a cui sono ricondotti i due pagamenti riferiti al dipinto del Caravaggio, è suo figlio e ricopre gli incarichi di Regio consigliere e Presidente della Regia Camera Sommaria. Tra i suoi fratelli, un ruolo speciale lo gioca Lorenzo, avvocato fiscale della Vicaria, ma soprattutto tra gli ammessi al Pio Monte della Misericordia: è dunque il probabile tramite della commissione, avendo potuto ammirare l'esito straordinario della pala saldata a gennaio. Degli altri figli di Vincenzo, Giacomo è consigliere regio, Geronimo è arcivescovo di Capua e Giovan Battista notaio. Nel 1612 i De Franchis (o Di Franco, come vengono altrimenti citati) ottengono il feudo di Taviano, di cui diviene marchese Giacomo. Come appare evidente dalle cariche cumulate, l'ascesa sociale di questa famiglia di giureconsulti, cementata con l'ottenimento della nobiltà, è molto rapida. Vincenzo De Franchis muore nel 1601. L'8 marzo1602, viene donata agli eredi una cappella in san Domenico Maggiore, di proprietà di Ferdinando Gonzaga, principe di Molfetta, Gran Giustiziere del Regno di Napoli. Val la pena di ricordare i profondi legami famigliari tra i Gonzaga e i Carafa. Non solo, come abbiamo già accennato, Luigi aveva sposato Isabella, figlia del duca di Sabbioneta Vespasiano; anche la prima moglie di Antonio Carafa era una Gonzaga, Ippolita, figlia del Ferdinando che abbiamo appena citato23. Di qui l'idea che a determinare la commissione a Merisi possa aver contribuito anche l'indirizzo dato dai suoi protettori napoletani Carafa/Colonna.
La cappella ceduta da Ferdinando Gonzaga si trovava all'inizio della navata sinistra. Era possibile accedervi dal cortile del monastero. Esisteva una porta comunicante con la cappella contigua, che apparteneva alla famiglia Spinelli. Il muro di fondo era infatti lo stesso. É possibile che inizialmente il dipinto sia stato esposto nella parte della cappella aperta verso l'esterno. Giacomo De Franchis, che muore l'11 ottobre 1624, chiede di esservi sepolto. Il marchese ha infatti investito di sua tasca nei lavori in parte già intrapresi di rifacimento della struttura. Nel 1631 viene acquistata una seconda cappella, a destra dell'altare. L'anno successivo la si permuta con quella degli Spinelli, in modo da avere le due cappelle comunicanti nella navata. A questo punto si può procedere a un vero e proprio rifacimento, in modo da ottenere una sola struttura, da trasmettere in eredità ai figli maschi della famiglia. I lavori partono nel 1635. Nel 1652 Tommaso fa testamento, devolvendo una cifra per la fabbricazione dell'inferriata. In quell'anno la cappella acquista il titolo della “Flagellazione del Signore”, ed è dunque presumibile che solo allora la tela vi sia esposta, mentre negli anni precedenti i De Franchis potrebbero averla ricoverata presso una delle loro residenze. Non è un caso che né le fonti più antiche relative alla vita del Caravaggio né le guide che risalgono alla prima metà del secolo ne parlino. Al silenzio di Mancini (1621) e Baglione (1642) corrisponde quello della “Napoli Sacra” del D'Engenio Caracciolo (1643), così come quello del De Pietri nella coeva “Dell'Historia napoletana”. Nel 1654 Carlo De Lellis descrive la cappella nel “Supplimento a Napoli Sacra di D' Engenio Caracciolo”: l'imprimatur è però del 1651. Bellori, che visita Napoli nel 1661, cita il dipinto nel 1672. “Prese dopo il camino per Napoli, nella qual città trovò subito impiego, essendovi già conosciuta la sua maniera e 'l suo nome. Per la Chiesa di San Domenico maggiore gli fu data a fare nella cappella de' signori di Franco la Flagellazione di Cristo alla colonna, ed in Sant'Anna de' Lombardi la Risurrezione”, scrive nelle “Vite”24. In quello stesso anno De Lellis nell' “Aggiunta” manoscritta al suo testo ricorda il quadro, precisandone le misure. Nel 1681 Filippo Baldinucci sembra riprendere Bellori: “Vi trovò già fatto chiaro il suo nome”, scrive in relazione al Caravaggio, “che subito v'ebbe a fare per la chiesa di S.Domenico Maggiore, nella cappella dei signori di Franco, l'historie della Flagellazione del Signore”25. Nel 1675, come apprendiamo da un documento notarile stipulato tra i padri domenicani e Andrea De Franchis, sull'altare della cappella viene posizionata una statua lignea della Vergine del Rosario, scolpita da Pietro Cesaro, di proprietà in precedenza di Fra Andrea d'Auria di San Severino. Dal soprannome di questo la cappella viene successivamente indicata come di “Zi Andrea”. Il dipinto viene così dislocato dal lato dell'epistola, ossia il lato destro guardando l'altare. Lì lo ricorda il Parrino nella “Nuova guida de' Forastieri” (1725). Bernardo De Dominici formula nel 1743 il giudizio più complesso che ci sia pervenuto da una fonte antica: “(tanto) avea sopraffatto gli animi degli intendenti, e de' Professori medesimi quella nuova maniera cacciata di scuri con pochi lumi, e che terminava nell'ombre, ove per lo più si perdevano que' contorni, che devono essere un chiaro esempio, per istruire, dar norma agli studiosi dell'arte del disegno”, scrive del Caravaggio. E in merito alla “Flagellazione”: “Esposta al pubblico trasse a se tutti gli occhi de' riguardanti, e benché la figura del Cristo sia presa da un naturale ignobile e non gentile, come era necessario, per rappresentare la figura d'un Dio per noi fatto Uomo; Ad ogni modo la nuova maniera di quel terribile modo di ombreggiare, la verità di quei nudi, il risentito lumeggiare senza molti riflessi, fece rimaner sorpresi, non solo i dilettanti ma Professori medesimi in buona parte...”26.
L'interno di San Domenico Maggiore
Charles Nicolas Cochin, viaggiatore e conoscitore d'arte che ci lascia l'unica descrizione esistente della “Resurrezione” perduta della Cappella Fenaroli in Sant'Anna dei Lombardi, cita brevemente anche la Flagellazione27. Dopo quella data il dipinto ricorre esclusivamente nelle guide artistiche napoletane, senza giudizi di valore o elementi qualificanti che possano aiutarci a capire quale fosse il suo rango tra le opere conservate in San Domenico Maggiore28. La “Flagellazione” viene spostata nella cappellina di Sant'Antonino, come documenta il Perrotta (1830)29. Secondo il Volpicella (1850) il passaggio risale alla fine del Settecento. Un restauro determina un altro trasferimento, nella cappella di Santo Stefano, come riporta Valle (1853), informazione che va integrata con quella del Chiarini (1856). De Rinaldis30 nel 1928 attesta che l'opera è pervenuta nella Cappella del Rosario. Da qui, nel 1972, dopo tre tentativi di furto (tutti piuttosto maldestri) viene deciso di spostarla a Capodimonte.
5 La vicenda critica
Data per condivisa da tutti, senza eccezioni, l'autografia del dipinto, La “Flagellazione di Cristo” ha diviso invece gli storici dell'arte in merito alla sua datazione. Il dipinto viene citato per la prima volta dalla critica novecentesca in un contributo del Kallab31 (1906) in relazione a una “Deposizione” di provenienza Giustiniani, poi distrutta, che si trovava al Kaiser Friedrich Museum di Berlino, attribuita al Caravaggio, o alternativamente, al Rustici, o al Krabbeth, e che Slatkes (1965) riferì plausibilmente a David De Haen. Rouches32 assegna la tela di san Domenico Maggiore all'ultimo periodo del Merisi, rimarcandone il minor contrasto tra chiari e scuri, e lo sviluppo dei grigi, che segna uno scarto dalle superfici impenetrabili del periodo romano33. Negli Anni Cinquanta si registra una convergenza su una datazione al primo periodo napoletano, su cui si allineano Baroni, Venturi, Hinks, Samek Ludovici e Longhi; Mahon la posiziona tra la “Maddalena in estasi” e il “San Francesco” di Cremona. É ancora Longhi a scartare per la prima volta dal riferimento al soggiorno del 1606/1607: in un contributo su Paragone viene proposto lo slittamento al 160934. Jullian (1961) dissente, riposizionandola come la terza tela napoletana del primo periodo, dopo le “Sette opere di misericordia” ma prima della “Salomè con la testa del Battista” del Prado35. L'assunto longhiano, che apre a una riconsiderazione complessiva dell'operato degli ultimi mesi trascorsi a Napoli, è accolto da Bottari (1966)36, che la data alla prima metà del 1610. Raffaello Causa, che in quegli anni rappresenta il punto più avanzato degli studi relativi alla pittura napoletana37, si pronuncia per una collocazione all'estremo della produzione del Merisi, considerando il dipinto “ultima grande tela del Caravaggio”38. Maurizio Fagiolo Dell'Arco invece torna a retrocedere il quadro al 160739, mentre Marini, nel primo dei suoi numerosi contributi, si pronuncia già per una datazione tarda40. Mia Cinotti41 riconosce nel dipinto elementi di classicità e ne propone una realizzazione vicina al momento della “Madonna del Rosario”. Moir42 ricapitola la questione della copia presente ancor oggi in San Domenico Maggiore, legandola a un documento del luglio 1609, già noto sin dalla pubblicazione del De Dominici, in cui si dice che il duca di Scognano paga 50 ducati a Battistello Caracciolo per una “Flagellazione di Cristo”. Mancano però gli elementi per escludere che il dipinto citato non sia un originale, e difatti oggi l'orientamento è di riferire il pagamento a un'altra opera, in collezione privata. Per la copia presente nella sede originaria Moir propone i nomi dello stesso Battistello e di Andrea Vaccaro, su cui si orienta la maggior parte della critica, a eccezione di Marini, che chiama in causa Angelo Caroselli. Ancora Moir torna sul tema nel 1982, suggerendo per il dipinto, che a quell'epoca è già definitivamente a Capodimonte, una realizzazione al 1607, per le consonanze con la “Morte della Vergine” e la “Cena in Emmaus”43. Hibbard, che per errore pubblica la foto della copia e non dell'originale, ritiene che il primo pagamento dell'11 maggio 1607 sia un saldo e che la consegna avvenga in coincidenza del secondo pagamento44. Le opinioni formulate da Vincenzo Pacelli al momento della pubblicazione dei due documenti45 vengono riprese da Mina Gregori46, che sposa l'idea di una realizzazione in due tempi, cominciata nel primo soggiorno e completata non al ritorno dalla Sicilia, ma in un precedente rientro a Napoli, non documentato, da Malta. Questa tesi prende forza a partire dalle radiografie realizzate a Parigi nel 1983, dalle quali emerge per la prima volta una stesura in cui appare sul lato destro del dipinto un personaggio poi eliminato, raffigurato con grande verismo, che farebbe pensare a un ritratto, forse del committente47.
La scelta di rimuovere questa figura è attribuita da Calvesi48 al timore che essa potesse riecheggiare l'utilizzo che si fa dell'inserzione del committente in area riformata. L'indicazione per il suo oscuramento potrebbe in tal senso essere arrivato da Gerolamo De Franchis, fratello di Tommaso e arcivescovo di Capua. L'esito delle indagini diagnostiche è accolto nelle biografie di Cinotti, Puglisi e Spike49, con una datazione collocata al termine del primo soggiorno.
Il ritratto visibile in radiografia sotto lo strato pittorico della “Flagellazione di Cristo”
Diverse sono invece le deduzioni di Ferdinando Bologna, che ricava dal saggio di restauro50 di Bruno Arciprete gli elementi per configurare una realizzazione che si compie solo dopo il ritorno a Napoli. “Innanzitutto, resta confermato che nessuno dei due pagamenti è a saldo; per il pagamento maggiore è detto anzi, esplicitamente che è “in conto del prezzo” di un'opera “che li haverrà da consignare”. In secondo luogo, il Caravaggio partì da Malta appena un mese dopo quei pagamenti, e non v'è motivo alcuno per ritenere fondata l'ipotesi che ne tornasse prima della fuga dalla Valletta. In terzo luogo, le radiografie avevano già rivelato l'esistenza di una prima redazione della composizione, lasciata incompiuta sulla destra, con l'abbozzo di un ritratto straordinario, forse del committente, poi tralasciato. Per ultimo, gli esami condotti durante il restauro recente hanno messo in evidenza, a partire dal ritratto tralasciato o poco più avanti, l'esistenza di un ampio tratto di tela aggiunto sul lato destro. A parere dello scrivente, tutto ciò non può che indicare che il Caravaggio avesse incominciato l'opera prima di partire per Malta, e con la rapidità che era sua, l'avesse portata abbastanza avanti. Indotto a partire subitamente, la lasciò in abbozzo, e la riprese dopo più di un anno, al rientro dal soggiorno siciliano. Avevo già avanzato la possibilità che il grande e straordinariamente adombrato flagellatore di destra, posto a coprire l'abbozzo del ritratto tralasciato, fosse, esso principalmente, il frutto del secondo intervento; e avevo anche rilevato che la mole, la costruzione pittorica e “l'azione” di quel flagellatore richiamavano a tal punto il fossore addetto a maneggiare la pala del “Seppellimento di Santa Lucia” a Siracusa, da non poter essere inteso senza di esso. La scoperta che quella parte della “Flagellazione” è il risultato di un ingrandimento programmato, induce ora a sostenere che il Caravaggio, decisa la soppressione del ritratto del committente-forse perché giudicato troppo ansioso dal committente stesso, o perché sempre questi considerasse irriverente la vicinanza in cui il proprio ritratto sarebbe apparso accanto alla sacra figura del “flagellato-decidesse di sua scelta di riutilizzare quella figura per reinventarla nel nuovo contesto. Si potrebbe sostenere, anzi, che proprio la riutilizzazione e reinvenzione del fossore siracusano nella “Flagellazione” di Napoli sia la prova più lampante del rifacimento di questa dopo il rientro del Caravaggio dalla Sicilia”, scrive Bologna51.
Maurizio Marini interpreta invece che il presunto ritratto come l'inserzione di un'iconografia poi abbandonata: “Le radiografie del quadro hanno posto in evidenza che l'aguzzino a destra è una sovrapposizione, ossia una variante intervenuta in corso d'opera. Infatti, la prima stesura mostra al posto di questa l'immagine di un personaggio che si è, alquanto affrettatamente, identificato col committente Tommaso de' Franchis. Tuttavia di costui s'ignorano i caratteri somatici e l'ipotetica “aria di famiglia” nella conformità alla moda contemporanea circa i presunti abbigliamento e taglio dei baffi e della barba non appare determinante e m'induce a ricusare tale paralogismo.”52
Caravaggio, “Seppellimento di santa Lucia”, Siracusa, Palazzo Bellomo.
Viene invece proposta una consonanza con le contemplazioni della Passione di area iberica, con particolare riferimento a Velazquez e Zurbaran, che peraltro potevano aver osservato i dipinti intrisi della stessa sensibilità lasciati alla corte madrilena da Tiziano; il clima culturale-rimarca Marini-è lo stesso (“ispano-borromaico”) in cui il Merisi è cresciuto in Lombardia. “Le migliori radiografie del dettaglio in questione, eseguite nel corso del recente restauro, indicano che il personaggio eliminato è san Francesco: l'inserto del cappuccio nel collo dell'abito è, in tal senso, evidentissimo, e non lascia margine a dubbi. In un primo momento Caravaggio aveva, quindi, introdotto il santo di Assisi (col sajo cappuccino) in ginocchio, nell'atto di contemplare il “Cristo flagellato”. Un'iconografia (intercambiabile col certosino san Bruno) in rapporto con quanto detto, frequente perciò in area fideistica iberica, e comprendente le varianti in cui san Francesco abbraccia (talvolta scambievolmente) il Crocifisso. A mio avviso la combinazione di questa religiosità ispano-borromea con l'eponimo familiare del committente deve aver suggerito all'artista, come in altre circostanze, una specie di “emblema iconografico”: de Franchis o di Franco, sta per “di Francesco”, di conseguenza Caravaggio costruisce su questa idea la sua prima invenzione figurativa. Vale a dire “san Francesco (cioè i di Franco) contempla(no) la sofferenza del Redentore” nella pala destinata a ornare la cappella di famiglia. Tuttavia la concessione di questa in San Domenico Maggiore, sopraggiunta quando il quadro era allo stato d'abbozzo, ha imposto un'altra scelta iconografica53”.
6 Davanti al dipinto: l'iconografia
Il tema iconografico della passione compare nell'arte cristiana a partire dal IX secolo, prima in codici manoscritti e piccoli avori, generalmente tripartiti, con Cristo al centro e i due flagellanti ai lati. Risalgono al X secolo le rappresentazioni più antiche della scena all'interno di cicli di pitture murarie. Nel XII secolo la tunica di cui appare vestito Gesù mentre gli viene inferta la pena viene sostituita con un panno, legato attorno ai fianchi, in modo da poter mostrare le ferite, e lo sguardo del Redentore è sovente rivolto verso il fedele. I riferimenti testuali nel Nuovo Testamento sono particolarmente laconici in merito all'episodio54. Secondo quanto stabilito dalla Lex Porcia nel 195 A.C., e confermato dalla Lex Sempronia nel 123 A.C., la flagellazione veniva impartita a coloro che non erano cittadini romani prima della crocifissione, utilizzando fruste a cui venivano applicati pezzi di metallo o di osso all'estremità, in modo da procurare traumi e ferite, che spesso comportavano ipovolemia55. Il condannato veniva assicurato a una piccola colonna o palo, in modo da consentire che vi si piegasse sopra. I due lictores (ma in qualche caso potevano essere quattro o addirittura sei) procedevano allora alla flagellazione, il cui scopo non era procurare la morte, ragion per cui anche quando la vittima veniva capovolta si evitava di procurare ferite nella regione cardiaca56, che potevano risultare fatali57. La pratica giudaica della flagellazione prevedeva invece trentanove colpi, tredici per spalla, e tredici ai lombi, inferti da una guardia alle dipendenze del sinedrio58: questa tradizione viene riportata nello “Speculum Humanae Salvationis”, un testo tardo medioevale di elaborazione domenicana, prodotto probabilmente tra il 1309 e il 1324, che ebbe una profonda influenza nella determinazione dell'iconografia delle scene della Passione (e non solo). Di poco successivo è un altro riferimento, le “Rivelazioni” dettate ai propri padri spirituali dalla religiosa svedese Brigida di Finsta, morta a Roma nel 1373 e canonizzata da Bonifacio IX nel 1391. Brigida racconta di aver vissuto un'esperienza mistica, nel corso di cui Gesù le ha rivelato, tra le altre cose, il numero di colpi inferti durante la Flagellazione, che sarebbero stato 5480. Chi avesse voluto onorarli, doveva recitare 15 orazioni al giorno, più altre preghiere59. A partire dalla diffusione delle “Rivelazioni di Santa Brigida”, le rappresentazioni pittoriche della Flagellazione divennero più cruente, dando luogo all'elaborazione scene sempre più complesse, in cui compaiono numerose varianti, tra cui l'inserimento come astanti di Pilato, accompagnato talvolta dalla moglie e da un servo, e ancora di Pietro (con riferimento all'episodio della “Negazione”), della Vergine o di Giuda. Il numero stesso dei carnefici sale, soprattutto in area tedesca, dove diventa tradizionalmente di tre, l'uno impegnato con il flagellum, l'altro intento a fissare Cristo alla colonna-che è alta e snella-scalciandolo per trascinarlo più vicino, mentre il terzo stringe un fascio di verghe. Gli aguzzini sono vestiti con abiti variopinti, e recano espressioni brutali, al limite del grottesco, mentre in area italiana all'aneddotica si preferisce lo studio della loro muscolatura, ragion per cui li si rappresenta a torso nudo e gambe scoperte. Un'altra importante modifica interviene a partire dall'epoca della Controriforma, con il riferimento iconografico alla reliquia portata a Roma nel 1244 dal cardinale Giovanni Colonna, e conservata in Santa Prassede. La colonna ancor oggi visibile nella basilica dell'Esquilino è bassa, in marmo nero con venature bianche, e in cima è munita di un anello di ferro. Se l'arte medioevale aveva preso a modello il frammento di colonna venerato durante i pellegrinaggi in Terra Santa all'interno della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, quella di Santa Prassede ricorre in gran parte dei dipinti seicenteschi60, da Pietro da Cortona a Ciro Ferri, e ancora Lanfranco, Reni, Guercino, Domenichino, Maratta e Lazzaro Baldi (con dunque una persistenza tra i “classicisti”) e, tra i napoletani che risentono dell'influenza del Caravaggio, Bernardo Cavallino e Andrea Vaccaro.
Una rarefazione degli elementi aneddotici caratterizza l'unico precedente figurativo che raccoglie le segnalazioni concordi di molti specialisti del Caravaggio61: la Flagellazione di Cristo realizzata nella cappella Borgherini in San Pietro in Montorio da Sebastiano del Piombo tra il 1516 e il 152462, su disegni di Michelangelo63. L'interesse del Merisi per il dipinto del Luciani era originariamente legato alla tecnica: non ad affresco, ma olio su muro, con l'utilizzo di particolari leganti64, come ricorda già il Vasari. Una prassi esecutiva che il Caravaggio studiò da vicino prima di realizzare il dipinto di “Giove, Nettuno e Plutone” sul soffitto del camerino alchemico che il cardinal Del Monte possedeva nella villa a Porta Pinciana (ora Casino Ludovisi), intorno al 1597-98. Anche in quel caso, che rappresenta la sua sola pittura muraria, alla tecnica comune dell'affresco venne infatti preferito l'olio, con stesura sul soffitto intonacato65.
La critica si è soffermata su altri possibili fonti iconografiche66, a partire dalla “Flagellazione” presente nella sacrestia di Santa Prassede, sede del titolo cardinalizio di Carlo Borromeo, tradizionalmente attribuita a Giulio Romano, ma ricondotta da Maurizio Calvesi al Peterzano, maestro del Caravaggio, che secondo lo studioso romano potrebbe aver contribuito direttamente alla realizzazione67 della tavola 68.
Sebastiano Del Piombo, Flagellazione di Cristo, San Pietro in Montorio,
cappella Borgherini, olio su muro, 1516-1524
Hibbard69, sondando l'ambito della tarda maniera che rappresenta il contesto competitivo con cui il Merisi dovette confrontarsi al suo arrivo a Roma, ricorda la “Flagellazione di Cristo” lasciata da Federico Zuccari all'Oratorio del Gonfalone, mentre Keith Christiansen segnala l'esistenza di uno stendardo processionale del Romanino, collegato a un disegno di Hans Baldung Grieg riprodotto in incisione da Bartsch e che sarebbe strettamente imparentato con le scene della “Passione” che appartengono al repertorio grafico di Dürer70, suggerendo dunque a una possibile conoscenza diretta maturata durante l'apprendistato in Lombardia. Da ultimo è interessante notare versioni “tenebriste”, legate, oltre che al precoce frequentatore della pittura di lume notturno Luca Cambiaso, anche al contesto della prima maniera, come nel caso del dipinto di anonimo inventariato nella fototeca Zeri71, mentre sembrano da ricondursi a una ricorrenza iconografica tradizionale le similitudini con la “Flagellazione” di Ludovico Carracci conservata presso il Museo della Certosa di Douai72.
Il Caravaggio sceglie dunque un'impaginazione che, almeno sotto il profilo iconografico, segue la tradizione. Cristo indossa unicamente il panno attorno ai fianchi, ed è circondato da tre carnefici. Quello di sinistra lo tiene per i capelli, quello di destra lega le corde attorno ai polsi del condannato e il terzo sta preparando un nuovo fascio di verghe. Se per la figura a destra abbiamo già citato la possibile relazione esistente con il fossore di Siracusa, segnalata dal Bologna (ma il rapporto tra esempio e citazione potrebbe anche essere rovesciato)73, per l'aguzzino di sinistra la critica è concorde nel riconoscere il modello nello schiavo presente in un'altra “Flagellazione di Cristo” legata alla produzione del primo periodo napoletano, quella ora al Musée des Beaux Arts di Rouen74.
Caravaggio, “Flagellazione di Cristo”, Rouen, Museé des Beaux Arts
Il dipinto in questione, acquistato nel 1955 quando era attribuito a Mattia Preti, non è documentato, ma è stato riconosciuto come autografo da Denis Mahon nel 195675 e confermato da Longhi nel 196076; è interessante notare come, alla coincidenza del modello corrisponda però la scelta di utilizzare un altro tipo per il carnefice che stringe i capelli di Cristo77. Un gesto questo che ricordiamo anche in un altro quadro riferito al Merisi, l' “Incoronazione di Spine” appartenente alla Cassa Risparmio e Depositi di Prato, e commissionato probabilmente dal nobile Massimo Massimi. L'uno e l'altro dipinto, quello di Rouen e quello di Prato, sarebbero transitati dalla collezione napoletana del marchese Fernando Vandeneynden, anche se il secondo è quasi sicuramente di realizzazione romana ante 1605. La circostanza è significativa, perché l' “Incoronazione di Spine” di Prato, unitamente a quella più nota che appartiene alle collezioni del Kunsthinstorisches Museum di Vienna, costituisce un precedente per la redazione di un “Cristo alla Colonna” che oggi conosciamo solo attraverso tre copie, rispettivamente nelle collezioni civiche di Macerata, al Museo Ursino di Catania e nella collezione Camuccini di Cantalupo Sabino78. Tra questo gruppo di opere, che a loro volta ne evocano altre (in primis, per la postura del “Cristo alla Colonna” la stessa “Flagellazione” di Sebastiano del Piombo, e poi, per l'astante vestito da armigero nella “Incoronazione di Spine” di Vienna, la “Crocifissione di Sant'Andrea” di Cleveland), esiste un sistema di relazioni complesso, che porta a pensare che l'inserimento di una figura di mediazione ottica tra il piano della scena e quello dello spettatore nel dipinto di san Domenico Maggiore sia frutto di una lunga meditazione che il Merisi ha condotto prima a Roma e poi a Napoli, e che riguarda quella ricerca di un osmosi tra il quadro e chi la osserva che rappresenta uno degli elementi ricorrenti lungo tutto il corso del suo operato79. E d'altronde le ricorrenze non si limitano a questo: “Incoronazione di spine” di Vienna, le copie del perduto “Cristo alla Colonna” risalente al primo periodo napoletano e la “Flagellazione di Cristo” di san Domenico Maggiore condividono infatti anche uno stesso imprinting classico, che si sostanzia nel richiamo all'Ercole, derivato da un torso antico80 e mediato dalle elaborazioni cinquecentesche nella scia di Michelangelo81.
Caravaggio, “Incoronazione di Spine”, Prato, Collezione Cassa di Risparmio
7 Il restauro e le indagini diagnostiche
La “Flagellazione di Cristo” di san Domenico Maggiore ha subito un primo intervento conservativo presso la bottega del Chiariello nel 192882, allorché venne sostituito il telaio ormai consumato con uno nuovo in legno di abete, con traversa centrale nel senso della larghezza e rinforzi agli angoli con regoli diagonali83. Il dipinto, che attualmente misura 286x212,5 cm, era stato ridotto in altezza di 4 centimetri, in un intervento antecedente quello del 1928.
Nel corso dell'intervento guidato da Bruno Arciprete nel 1998-1999, con affidamento della parte diagnostica a Marco Cardinali, Maria Beatrice De Ruggieri e Claudio Falcucci, è stata individuata una cucitura a punti fitti, che percorre il dipinto nel senso dell'altezza, dividendo l'unità del supporto in due settori, i quali misurano rispettivamente 116 (sx) e 96,5 (dx) cm. Sono inoltre emerse le impronte di un primo telaio, di circa 17 centimetri inferiore rispetto alla misura attuale, per una dimensione che di fatto non include il tallone del flagellatore di destra. L'indagine radiografica ha consentito di riconoscere lungo la traccia del montante destro del primo telaio una fascia di tela che da quel punto prosegue per circa diciassette centimetri in larghezza. Dopo la prima inchiodatura al telaio, il tessuto eccedente doveva essere stato lasciato al bando: un accorgimento utile qualora si volesse disporre di una riserva, da sfruttare nel caso di modifiche o ampliamenti. Questa fascia è connotata da una stesura di preparazione differente per radiopacità e caratterizzata da andamento e misura diversa delle spatolate. Al momento dell'allargamento del dipinto da parte del Caravaggio, il telaio non venne sostituito: si procedette ad applicare tre listelli alla dimensione originaria, e poi la tela fu rimessa in tensione, ripreparata nella parte di riserva e dipinta, con la stesura di uno spesso strato di vernice che uniformasse l'integrazione a ciò che era già stato eseguito.
A conferma della rarefazione nella fase napoletana delle incisioni, che il Caravaggio utilizzava probabilmente per fissare la posa dei propri modelli84, nella “Flagellazione di Cristo” appaiono limitate alla colonna, con funzione non chiarissima e di certo diversa da quella indicata comunemente per i dipinti napoletani. La loro assenza corrobora l'ipotesi del ricorso per la figura di Cristo e dei carnefici a un mix calibrato di reminiscenze classiche e fisiognomiche di modelli utilizzati in precedenza85. Lo studio comparato delle radiografie e delle sezioni stratigrafiche evidenzia nelle prime una resa intensamente chiaroscurata (il pittore muoveva dagli scuri per definire i chiari con pennellate corpose e rapide), con le campiture di biacca che non sono coperte da velature brune, se non nel caso del carnefice in primo piano, limitatamente al ginocchio e al gomito in ombra, che sono caratterizzati da un vigoroso abbozzo. La tecnica utilizzata nell'attenta definizione volumetrica del busto di Cristo, ottenuta a partire dall'abbozzo è radicalmente differente da quella che ricorre nelle figure dei due carnefici a sx e dx, dove l'abbozzo è più sintetico. La stesura non omogenea, con parti in cui la pennellata sembra risolversi in una semplificazione bidimensionale (i lictores in piedi) e altre invece ad andamento diversificato, spesso a tratti brevi, sintomo di quella ricerca espressiva che nel Caravaggio si sposa sempre alla velocità esecutiva rintracciabile nel ductus, porta Cardinali, De Ruggieri e Falcucci nel saggio di diagnostica pubblicato nel 199986 a concludere che nella prima impostazione “fossero presenti contemporaneamente Cristo, il personaggio inginocchiato e il ritratto attualmente nascosto”. Solo in un secondo momento sarebbero state inserite le due figure dei carnefici. Quanto al terzo aguzzino, è lì che si concentrano i maggiori pentimenti, ed è possibile che originariamente non fosse impegnato a legare le verghe, ma, suggeriscono i diagnostici, a mettere in tensione la corda che legava il Cristo alla colonna. La postura del Cristo è differente così come quella del flagellante a terra. Resta a parere dello scrivente una consonanza con la redazione presente nelle copie da originale del Caravaggio presumibilmente perduto di cui abbiamo riferito nel capitolo dedicato all'iconografia del dipinto87. Al netto delle notevoli differenze di impaginazione, il richiamo è un indicatore di un possibile cambio di iconografia in corsa, laddove non si può escludere che nella prima redazione la scena, se davvero coinvolgeva anche il ritratto del committente, nelle vesti di san Francesco o in quelle del secolo, poteva essere più simile a un “Cristo alla Colonna” che a una “Flagellazione”88.
Anonimo, “Cristo alla Colonna”, Macerata, Palazzo Buonaccorsi
8. Il ricordo della “Flagellazione” in un dipinto del Tanzio
Gli echi ora segnalati suggeriscono un'altra deduzione. In una collezione privata romana, legata agli eredi di Giacinto Bosco, esiste un piccolo dipinto su rame raffigurante un “Martirio di San Lorenzo”. Portava tradizionalmente un’indicazione a Battistello Caracciolo, ma Ferdinando Bologna89 l'ha ricondotta a un autografo di Tanzio da Varallo. Lo studioso fissa tra i laterali della Contarelli in San Luigi dei Francesi(1601) e il ritorno a Roma di Orazio Borgianni90 dalla Spagna (1608)91. Il dipinto ha sì un evidente riferimento al Caravaggio, che non però riguarda, come sostiene Bologna e ribadisce in un contributo recentissimo Maria Cristina Terzaghi92, l'attività romana del Merisi, bensì il soggiorno napoletano. Mentre infatti la figura del carnefice di destra è anticipazione della pala dei “Martiri francescani a Nagasaki” di Brera (opera tarda di Tanzio), quello di sinistra è dedotto dallo studio attento della “Flagellazione di Cristo” di Capodimonte, per le ricorrenze evidenti col il carnefice inginocchiato. Le incertezze relative alla cronologia dell'attività meridionale di Tanzio non consentono di utilizzare questa ricorrenza iconografica come elemento dirimente ai fini della determinazione delle tempistiche di realizzazione del dipinto di san Domenico Maggiore, ma resta la potente suggestione di un possibile studio dal vivo che il pittore piemontese potrebbe aver realizzato con la pala già in opera nella cappella De Franchis (o nel luogo di collocazione temporanea del dipinto) o addirittura in una fase precedente al completamento del quadro da parte del Caravaggio93.
Tanzio da Varallo, “Martirio di San Lorenzo”, collezione privata.
9. Il quadro indiziario
Abbiamo messo in fila i seguenti elementi:
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L'esistenza di due pagamenti da parte di Tommaso De Franchis al Caravaggio, l'uno, quello dell'11 maggio 1607, di entità tale (250 ducati) da poter essere un saldo o un anticipo rispetto a un quadro non ancora consegnato, altro, del 28 maggio (40,09 ducati) difficilmente riferibile a un dipinto (alla luce dell'entità delle commesse avute dal Merisi in quella fase) e riconducibile a un'integrazione del primo versamento.
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Un mese più tardi, il 24 giugno 1607 Caravaggio lascia Napoli, per tornarvi solo nel settembre/ottobre 1609.
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Le fonti più antiche (Bellori e Mancini) non parlano della “Flagellazione di Cristo”, né di opere commissionate dai De Franchis.
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Il dipinto viene citato la prima volta dal Bellori nel 1672. Sappiamo di un passaggio napoletano di questi nel 1661.
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Nel 1652 sono completati i lavori di ristrutturazione della cappella De Franchis in san Domenico Maggiore.
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Le radiografie effettuate nel 1983 sul dipinto hanno evidenziato la presenza di sulla destra di un personaggio poi eliminato nella stesura finale.
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Le diagnostiche realizzate in occasione del restauro del 1998/1999 hanno individuato un allargamento della composizione, ottenuto grazie a una porzione della tela lasciata di riserva, e messa in tensione grazie a un prolungamento del telaio.
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All'interno degli stessi sondaggi sono emersi pentimenti limitato alla figura del carnefice inginocchiato. La stesura mostra però sensibili differenze nell'abbozzo e nella stessa conduzione pittorica tra la figura del Cristo e quella dei due carnefici a sinistra e destra.
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Tra le ricorrenze fisiognomiche, si segnalano quelle tra il carnefice di sinistra e il modello utilizzato per la “Flagellazione” ora a Rouen e per la “Salomè con la testa del Battista” di Londra. Tratte dal repertorio antico sembrano invece la figura del Cristo, imparentata con il tipo dell'Ercole cavato dal Torso del Belvedere, e del carnefice inginocchiato, che ricorda la scultura ellenistico/romana dello Scita. Da segnalare infine la ricorrenza posturale del carnefice di destra e il fossore del “Seppellimento di santa Lucia” di Siracusa.
10. Conclusioni
La “Flagellazione di Cristo” di san Domenico Maggiore sembra riferibile, per documentazione, tecnica e stile, al momento conclusivo del primo soggiorno napoletano. Le anticipazioni del periodo siciliano a livello di conduzione sono congruenti con la necessità di un completamento rapido dell'opera, prima della partenza per Malta. Non esistono a oggi elementi sufficienti per immaginare una ripresa della tela nel secondo soggiorno, le cui vicende, a partire dal ferimento del 20 ottobre circa all'Osteria del Cerriglio (la notizia compare negli avvisi romani il 24), sono difficilmente compatibili, per i tempi della convalescenza e per un palinsesto in cui va già disposto un numero di opere soverchiante le energie residuali del Caravaggio, con un completamento dell'opera per Tommaso De Franchis. Il quale, nell'arco di un'assenza del Merisi da Napoli che supera i due anni (l'ipotesi di un rientro da Malta nel 1608 non è suffragata da alcuna fonte), avrebbe potuto affidare il completamento del dipinto a un altro pittore. Non possediamo elementi probanti l'ipotesi che la figura eliminata con l'allargamento della composizione facesse effettivamente parte della prima formulazione della stessa. L'idea di una sua preesistenza sulla tela, come traccia di un altro dipinto poi abbandonato, resta al vaglio di ulteriori contributi, in particolare quelli che saranno prodotti a partire dalle diagnostiche delle “Sette opere di misericordia”, per verificare se l'una o l'altra composizione presentino nella stesura sottostante traccia della perduta pala Radolovich. Quel che ci sentiamo di affermare è che i cambiamenti in corsa, soprattutto per ciò che concerne i pentimenti relativi al carnefice inginocchiato e al trattamento corsivo delle figure dei due lictores a sinistra e a destra del Cristo, paiono suggerire non solo differenti stadi della composizione, ma anche un ripensamento dell'iconografia, che inizialmente pare più assimilabile a un “Cristo alla Colonna” e poi evolve nella direzione di un recupero delle suggestioni classiciste e manieriste, compendiate nell'impaginazione finale della “Flagellazione”. Si segnala a conclusione di questo contributo una ricorrenza all'interno dell'impianto chiaroscurale del dipinto con la “Cena in Emmaus” Patrizi, ora alla Pinacoteca di Brera. La scelta antinaturalistica di lasciar pienamente in ombra la testa del terzo aguzzino (quello inginocchiato) non può infatti non richiamare la figura del discepolo di sinistra del dipinto milanese: un indizio in più della vicinanza cronologica tra le due opere.
1Una brillante ricapitolazione della vicenda, di fresco taglio narrativo, ancorché ancorata saldamente alle fonti, è offerta in Andrew Graham Dixon, “Caravaggio-Vita Sacra e Profana”, Milano 2011, pp. 298-309.
2È documentato il soggiorno della marchesa a Roma, dal 1592 al maggio 1605.
3Questa ricostruzione, che la storiografia ha fatto propria, è in gran parte legata a una discordanza tra le tre fonti antichi costituite dai primi biografi del pittore. Se Mancini, che scrive tra il 1617 e il 1621, cita Zagarolo, il Baglione, nelle sue “Vite...” del 1642, parla di Palestrina, mentre Bellori, nel 1672, opta per la prima località. Palestrina era un feudo dei Colonna di Paliano.
4Cfr. Ferdinando Bologna, “Caravaggio l'ultimo tempo (1606-1610)”, Napoli 2004, pp. 20-22.
5Cfr. Antonio Ernesto Denunzio, “Aggiunte e qualche ipotesi per i soggiorni napoletani del Caravaggio”, in “Caravaggio l'ultimo tempo (166-1610)”, Napoli 2004, pp.48-49.
6Cfr. Maurizio Marini, “Caravaggio Pictor Praestantissimus”, Roma 2001, Aggiornata nel 2005, ultima edizione dicembre 2014, pag.69. Tutt'e tre località erano dunque poste sotto il controllo di don Marzio Colonna.
7O forse coincidente con la “Madonna del Rosario”, vedi alla nota 16.
8Per una possibile identificazione di questo dipinti con la “Madonna del Rosario” ora a Vienna, cfr. Maurizio Marini, op. cit., p. 74.
9Tra le ipotesi di recente formulazione, c'è quella che la tela la pala Radolovich, abbandonata in corso d'opera, sia stata riutilizzata per le “Sette opere di misericordia”.
10Gli spostamenti, con i relativi appigli documentali, sono condensati da Ernesto Antonio Denunzio. Cfr. op. cit., pag. 51-54. Vedi anche Vincenzo Pacelli, “L'ultimo Caravaggio dalla Maddalena a mezza figura ai due san Giovanni (1606-1610)”, Todi 1994 (terza edizione integrata 2002), pp. 120-132. Per l'identificazione della residenza napoletana della residenza di Costanza Sforza Colonna in Palazzo Cellamare, cfr. Maurizio Calvesi, “Novità e Conferme”, in “Art e Dossier”, 66, 1992, pp.12-14.
11I rapporti tra le tre famiglie sono stati oggetto di osservazioni dello scrivente a proposito della commissione del “San Francesco in meditazione sul teschio” ora a Carpineto Romano. Vedi il saggio reperibile on line (al sito www.cultureconsulting.it) della mostra “Caravaggio e Francesco”), Monza 2015.
12Per la vicenda del pagamento vedi Vincenzo Pacelli, “Caravaggio-Le sette opere di Misericordia”, Salerno 1984, pp- 102-103, nota 9.
13Marini nota correttamente che il documento parla di “un quadro che (Caravaggio) ha dipinto”. Cfr. Maurizio Marini, op.cit. pag.511.
14Il dipinto venne portato dal Benavente a Valladolid alla fine del suo incarico, e installato nel palazzo del conte, dove è ricordato da quattro documenti, tra cui gli inventari della collezione redatti nel 1653. In momento ancora da identificare perviene poi a un convento di clausura castigliano, da cui passa nel 1972 alla raccolta di Josè Manuel Arnaiz di Madrid. Segue nel 1976 l'esportazione che, via Svizzera-Londra, lo porta al Cleveland Museum of Art, dov'è attualmente conservato.
15Identificata con il dipinto cm 140x160 conservato al Museo Pignatelli, collezione San Paolo Banco di Napoli.
16Il pittore Frans Pourbos, emissario a Napoli del duca di Mantova, scrive il 25 settembre: “Ho visto qui doi quadri bellissimi di mano di Michel Angelo da Caravaggio: l'uno è d'un rosario et era fatto per un'ancona et è grande da 18 palmi et non vogliono manco di 400 ducati; l'altro è quadro mezzano da camera di mezze figure et è un Oliferno con Giudita, et non lo dariano a manco di 300 ducati”.
17Resta comunque aperta la possibilità di un'appartenenza del dipinto alla fase estrema del soggiorno romano, o che sia la pala commissionata dal duca d'Este, che il pittore, insoddisfatto dell'entità del pagamento, avrebbe portato con sé a Napoli, senza consegnarla. Per quest'ipotesi vedi Alfred Moir, op. cit., pp. 130-131 e Howard Hibbard, op. cit., pp. 180-184; pp. 316-317 nota 118. Per l'analisi e la storia della “Madonna del Rosario” resta fondamentale Wolfgang Prohaska, “Untersuchungen zur “Rosenkranz Madonna” Caravaggios” in “Jahrbuch der Kunsthistorisches Sammlungen in Wien”, band 76, 1980 (edit. 1981), pp. 111-132. Cfr. Maurizio Marini, op. cit., pp.513-514.
18Napoli, Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo. Giornale copia-polizze, matr.44, partita di D.100, estinta l'11 maggio 1607.
19Vincenzo Pacelli, Nuovi documenti sull'attività di Caravaggio a Napoli, in “Napoli Nobilissima”, XVII, n.2, mar.-apr. 1978, p. 58. Già in Vincenzo Pacelli, “New documents concerning Caravaggio in Naples”, in “The Burlington Magazine”, CXIX, n.897, dic. 1977, p.820.
20Cfr. Maurizio Marini, op. cit., pag 529.
21 Monsignor Alessandro Boccabarile, vescovo di Ortona e Campli, agente a Napoli del duca Ranuccio Farnese, scrive alla corte di Parma il 22 giugno, annunciando l'arrivo “otto giorni or sono” nel porto di cinque galere provenienti dalla Provenza e appartenenti alla flotta dei Cavalieri di Malta, sotto il comando di Fabrizio Sforza Colonna, aggiungendo che le navi ripartiranno “fatto” il giorno di San Giovanni. Cfr. Antonio Ernesto Denunzio, op. cit., pag. 49. Per una ricostruzione del viaggio via mare e del soggiorno a Malta del Merisi, vedi Keith Sciberras e David M. Stone. “Caravaggio in bianco e nero: arte, cavalierato e l'ordine di Malta”, in “Caravaggio l'ultimo tempo (1606-1610)”, catalogo della mostra tenuta a Napoli, Museo di Capodimonte 23 ottobre 2004-23 gennaio 2005, Napoli 2004, pp. 61-79.
22Vedi Denise Maria Pagano, “Il dipinto”, in “La flagellazione di Caravaggio-Il Restauro”, Napoli 1999, pag. 11-12.
23Il rapporto tra i Carafa e i Gonzaga è ricostruito in Maurizio Calvesi, “La Realtà del Caravaggio”, Prima Parte (Vicende), in “Storia dell'Arte”, n.53, pag.70.
24Giovanni Pietro Bellori, “Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni”, Roma 1672, ed. a cura di Evelina Borea, Torino 1976, pp.225-226.
25Filippo Baldinucci, “Notizie de' Professori del disegno da Cimabue in qua”, Firenze 1681-1728, ed. cons. Firenze 1845-1847, a cura di F. Ranalli, vol. III (1846), pp. 685-686.
26Bernardo De Dominici, “Vite de' Pittori, Scultori ed Architetti napoletani”, Napoli 1742/45, II (1743), p.275.
27Charles Nicolas Cochin, “Voyage d'Italie”, Parigi 1763, p.165.
28Tra cui figurano altre opere capitali per la storia della pittura a Napoli, tra cui, ricordiamo, la “Deposizione” di Colantonio, la “Salita al Calvario” di Pedro Fernandez, la “Madonna del Pesce” di Raffaello, l' “Annunciazione” di Tiziano scambiata a lungo per una copia firmata da Luca Giordano, le sculture di Tino da Camaino e gli affreschi di Pietro Cavallini, solo per limitarsi ai lavori più importanti.
29Per la bibliografia esaustiva che consente di seguire questi spostamenti, vedi Denise Maria Pagano, op. cit., pag. 14.
30Aldo De Rinaldis, “Bollettino d'Arte, “Cristo legato alla colonna di Michelangelo da Caravaggio, in “Bollettino d'Arte”, VIII, 1928, pp.456-458. Nell'occasione l'opera, in cattive condizioni di conservazione, venne restaurata.
31Cfr. Wolfgang Kallab, “Caravaggio”, in “Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerhochsten Kaiserhauses”, 26, 1906-1907, pp. 272-292.
32In Gabriel Rouchès, “Le Caravage”, Parigi 1920.
33Cfr. Maurizio Marini, op. cit., p.530.
34Cfr. Roberto Longhi, “Un'opera estrema del Caravaggio”, in “Paragone”, n. 111, 1959, pp.28-29.
35In René Jullian, “Caravage”, Lione-Parigi 1961.
36In Stefano Bottari, “Caravaggio”, Firenze 1966
37A partire dal volume pubblicato nel 1956. Per una prima trattazione della “Flagellazione” vedi Raffaello Causa, “Pittura Napoletana dal XV al XIX secolo”, Napoli 1957, p.27.
38In Raffaello Causa, “Caravaggio”, parti I-II, in “I maestri del colore”, Milano 1966. L'ipotesi è confermata anche in “La pittura del Seicento a Napoli dal Naturalismo al Barocco”, II: “La natura morta a Napoli nel Sei e nel Settecento”, in “Storia di Napoli”, Napoli 1972.
39Cfr. Maurizio Fagiolo Dell'Arco, “Le opere di misericordia: un contributo alla poetica del Caravaggio”, in “L'arte”, 1, 1968, pag. 58, nota 40 (riedito a Milano nel 1969)
40 Per la ricostruzione della storia critica del dipinto, riferimento fondamentale è Marini, op. cit. p.530. Per il primo pronunciamento dello studioso romano cfr. Maurizio Marini, “Tre proposte per il Caravaggio meridionale”, in “Arte Illustrata”, n.43-44, pp.56-65. Vedi anche Maurizio Marini, “Michelangelo da Caravaggio”, Roma 1974 (I edizione fuori commercio 1973), pp. 58, 279-281, 456-458, n. 91).
41In Gian Alberto Dell'Acqua e Mia Cinotti, “Il Caravaggio e le sue grandi opere in San Luigi dei Francesi”, Milano 1971.
42Alfred Moir, “Caravaggio and his copysts”, New York 1976, p.100, 132, nota 128.
43Alfred Moir, “Caravaggio”, Milano 1982, pp. 140-141.
44Howard Hibbard, “Caravaggio”, pp.223-224.
45Cfr. Vincenzo Pacelli, op. cit., pag. 820.
46In Mina Gregori, “Caravaggio e il suo tempo”, catalogo della mostra, New York-Napoli 1985.
47Cfr. Vincenzo Pacelli e Arnaud Brejon De Lavergnée, “L'eclisse del committente? Congetture su un ritratto nella “Flagellazione” di Caravaggio rilevato dalla radiografia”, in “Paragone, n. 419-421-423, pp. 209-218, tavv. 136-137.
48Maurizio Calvesi, op. cit., pp. 130; 425.
49Cfr. Mia Cinotti, “Caravaggio”, Bergamo 1991, n.64, pag. 217, pp. 143-44. Vedi anche Catherine Puglisi, “Caravaggio”, Londra 1998, pp. 268-271; John Thomas Spike, “Caravaggio”, New York 2001, n.54, pp. 233-237.
50Cfr. Bruno Arciprete, “Il restauro”, in “La Flagellazione di Caravaggio. Il restauro”, Napoli 1999, pp. 32-40.
51Ferdinando Bologna, “Caravaggio, L'ultimo tempo (1606-1610)”, in “L'incredulità del Caravaggio e l'esperienza delle cose naturali”, Torino 2006, nuova edizione accresciuta (prima edizione 1992), pp. 437-438.
52Il riferimento è a Vincenzo Pacelli e Arnaud Brejon De Lavergnée, op. cit.
53Ma la cappella è donata l'8 marzo 1602. Lo ricorda lo stesso Marini in op. cit. pag. 529.
54Cfr. Matteo, 27:26: “Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso” ; Marco 15:15: “E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso”; Giovanni 19:1: “Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare”. Un altro riferimento alla pratica romana della flagellazione è contenuto in Atti, 22:25: “Ma quando l'ebbero legato con le cinghie, Paolo disse al centurione che gli stava accanto: «Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?»”.
55Orazio nelle “Satire” parla di “horribile flagellum”, in riferimento all'abbandono del supplizio della flagellazione prima della condanna a morte per decapitazione riservato ai cittadini romani.
56La Sindone di Torino, ritenuto tradizionalmente il lenzuolo in cui venne avvolto Cristo dopo la sepoltura, reca segni riferibili alla flagellazione, distribuiti su tutto il corpo, ma non nella regione cardiaca.
57Non di meno Tito Livio, Gaio Svetonio Tranquilli e Giuseppe Flavio riportano notizia di condannati deceduti durante il supplizio, e Cicerone scrive “Sic ille adfectus illim tum pro mortuo sublatus perbrevi postea est mortuus”: “Torturato in tal modo fu portato via da là come morto e pochissimo tempo dopo morì”.
58La prescrizione viene dalla Legge di Mosè. Cfr. “Deuteronomio”, 25:3.
59In Arnold Esch, “Tre sante ed il loro ambiente sociale a Roma: s. Francesca Romana, s. Brigida di Svezia e s. Caterina da Siena”, in “Roma nel Rinascimento”, Roma 2001.
60Cfr. Denise Maria Pagano, op. cit., pag. 16.
61La prima segnalazione è di Bernard Berenson in “Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama”, Firenze 1951: “Variante più drammatica dell'affresco di Sebastiano del Piombo in San Pietro in Montorio a Roma”. L'accostamento è ripreso in Walter F. Friedlander, “Caravaggio Studies”, Princeton 1955, e poi ancora in Maurizio Marini, “Michelangelo Da Caravaggio” Roma (prima edizione fuori commercio 1973) 1974, pag. 58 e in Alfred Moir, “Caravaggio”, New York 1982. Per una ricognizione sugli antecedenti cinquecenteschi del Merisi a Roma, tra cui Sebastiano del Piombo, vedi Andrea Dusio, “Caravaggio White Album”, Roma 2009, pp. 37-42 e 63-65.
62Cfr. AA.VV, “Sebastiano del Piombo e la Cappella Borgherini nel contesto della Pittura Rinascimentale”, atti del convegno del 13-14 maggio 2009, Firenze 2010.
63 Ricordiamo che il Buonarroti fornì al Luciani i disegni di molte altre opere, dalla “Resurrezione di Lazzaro” (National Gallery) alla “Pietà” (Viterbo, Museo Civico).
64Cfr. Angela Cerasuolo, “Approfondimento su Sebastiano del Piombo a Capodimonte”, in AA. VV. “Sebastiano del Piombo e la Cappella Borgherini nel contesto della Pittura Rinascimentale” , op. cit. pp. 254-261.
65 Va inoltre ricordato che il successo della “Flagellazione” portò a Sebastiano la commissione di tavole in cui riproduceva l'olio su muro, come quella realizzata per monsignor Botonti, ora al Museo Civico di Viterbo.
66Per una ricapitolazione bibliografica, vedi Denise Maria Pagano, op. cit., pag. 20.
67La questione della “Flagellazione” di Santa Prassede costituisce a oggi uno dei problemi aperti della pittura romana. Se l'accostamento tradizionale a Giulio Pippi sembra legata a un'opera perduta, le ragioni dell'attribuzione al Peterzano, che procede anche per richiami nel corpus di disegni conservato al Castello Sforzesco, a oggi non sembra soddisfacente, perché non supportata da documenti che provino una sua attività romana negli anni in cui non opera a Milano. Recentemente il dipinto è apparso in pubblico, in occasione della mostra “Roma al tempo di Caravaggio”, tenuta a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012, con l'indicazione “precoce testimonianza dell’attività giovanile del Merisi ”, così come è stata pubblicata con il riferimento “bottega caravaggesca”, che allude a una possibile assimilazione alla temperie culturale che segna gli esordi romani del Merisi, ipotesi che chi scrive non ritiene convincente. Cfr. Maurizio Calvesi, “Simone Peterzano, maestro del Caravaggio”, in “Bollettino d'Arte”, 1954, pp. 114-133; Ilaria Toesca, “La Flagellazione in Santa Prassede”, in “Paragone”, 1966. n. 193, pp. 79-85 e sulle implicazioni “ideologiche” della proposta di Calvesi, Ferdinando Bologna, “Il Caravaggio, le istituzioni e i prelati della Controriforma, in “L'incredulità del Caravaggio”, op. cit. pp. 1113-14 e Andrea Dusio, op. cit. pp. 5 e 21-24.
68Cfr. Andrea Dusio, “Caravaggio, sei proprio tu?”, pubblicato su “Il Giornale”, 21-11-2011, reperibile nell'archivio on line del quotidiano.
69Cfr. Howard Hibbard, op. cit. pag. 223,
70Keith Christiansen, “Toughts of the lombard training of Caravaggio”, in “Come dipingeva il Caravaggio”, Atti della Giornata di Studio, a cura di Mina Gregori, Milano 1996, pp. 27-28.
71Numero di inventario 73601, con possibile attribuzione a Giulio Romano e collocazione ignota.
72Il dipinto, datato 1598-1591, è segnalato da Vincenzo Pacelli in “Caravaggio. Le sette opere di misericordia”, Salerno 1984, pag. 84.
73 Le opere siciliane d'altronde sembrano contenere pochi esempi di modelli certamente ripresi dal vivo, se si eccettua forse per il corpo di Lazzaro nella “Resurrezione” messinese.
74Crf. Denise Maria Pagano,op. cit., pag. 16.
75Cfr. Denis Mahon, “A late Caravaggio rediscovered” in “The Burlington Magazine”, July 1956, pp. 225-228, rieditato in “Paragone”, 1956, n.77, pp. 25-34.
76Nel 1951 lo aveva considerato una copia. Vedi Roberto Longhi, “Sui margini caravaggeschi”, in “Paragone”, 1951, n.21 pp.28-29.
77Per i rapporti di quest'opera con il dipinto di medesimo soggetto già in collezione Doria di mano di Tiziano, Cfr. Ferdinando Bologna, op. cit. 438-441.
78Marini segnala anche un'ulteriore derivazione, in un “Cristo alla Colonna” oggi nella sacrestia della basilica di San Pietro in Perugia, “in cui un manigoldo sembra aver una posa affine a quella del San Francesco nella prima Flagellazione De Franchis”, interessante anche perché vi compare la colonna di Santa Prassede in luogo di quello presente nel dipinto di San Domenico Maggiore. Il quadro, un piccolo olio su rame, corrisponderebbe a una realizzazione di Abraham Vink da una trascrizione finsoniana della prima redazione della pala. Quest'opera è imparentata con alcune realizzazioni napoletane, a partire dal “Cristo alla Colonna” di Battistello Caracciolo e a un dipinto di Bernardo Cavallino segnalato in collezione Gualtieri e messo in relazione con quello esistente in collezione Falanga dallo stesso Marini. Cfr. op. cit. pag. 532.
79Un tema suggeritomi da Rossella Vodret nella conversazione che abbiamo avuto in preparazione della mostra.
80Cfr. Mina Gregori, “Caravaggio e il suo tempo”, op. cit., pag. 322.
81Da rimarcare, a partire da Alfred Moir, “op. cit.”, i numerosi consensi che ha ricevuto l'indicazione di un'eco nella figura del carnefice inginocchiato della statua ellenistica de “Lo Scita” (o più comunemente “L'arrotino”), nota per la copia in marmo degli Uffizi da un originale pergameno del III secolo A.C. Cfr. anche Hugo Wagner, “Michelangelo da Caravaggio”, Berna 1958, nota 606. Per le influenze della statuaria classica ed ellenistica nell'operato del Caravaggio post 1606 vedi Rodolfo Papa, “Caravaggio-Gli ultimi anni”, Firenze Milano 2004.
82A. De Rinaldis, “Cristo legato alla colonna di Michelangelo da Caravaggio”, in “Bollettino d'Arte”, VIII, 1928, pag. 54: “Molleggiata sul logoro telaio, fatta panciuta, la vecchia tela si era andata offuscando ed alterando sotto stratificazioni di polvere incrostata e si che, la critica moderna, insaziabilmente sollecita dell'opera caravaggesca, l'avea quasi tenuta in quarantena, come documento di non agevole lettura”.
83Cfr. Bruno Arciprete, op. cit., pag. 32.
84Cfr. Andrea Dusio, op. cit., pag 76; Keith Christiansen, op. cit., pp. 421-425.
85Alle ricorrenze già segnalate va aggiunta quella tra il carnefice di di sinistra e quello della “Salomé con la testa del Battista” della National Gallery, per cui la critica propone generalmente una datazione oscillante tra primo e secondo periodo napoletano. Cfr. AA. VV. “Caravaggio l'ultimo tempo (1606-1610)”, catalogo della mostra al Museo di Capodimonte, 23 ottobre 2004-23 gennaio 2005, Napoli 2004, pag. 181. Vedi anche Maurizio Marini, op. cit., pag. 523-525. La coincidenza tra i due modelli è segnalata per la prima volta in Roberto Longhi, “Caravaggio”, Roma-Dresda 1968 (rivista rispetto a quella del 1952 e rieditata nel 1982 con introduzione di Andrea Previtali). Da notare che la Salomè è unanimemente identificata con la modella della “Madonna del Rosario” e della “Sacra Famiglia con San Giovannino” della collezione Clara Otero-Silva di Caracas, in deposito al Metropolitan di New York.
86Vedi in particolare nel volume dedicato al restauro, che costituisce il riferimento bibliografico imprescindibile per una lettura della “Flagellazione”, le pag. 58/60.
87Longhi (1910-11, pubblicata nel 1915) reperisce la copia di Catania, ritenendola una derivazione di Battistello dalla “Flagellazione di Cristo”. L'emersione della redazione di Macerata lo porta a riconsiderare nel 1926 la questione, ritenendo entrambe le versioni copie da originale perduto. D. Mahon ritiene (1951) che non vi siano i presupposti per immaginare l'esistenza di un originale del Merisi. R. Jullian (1955) mette in relazione le due versioni di Catania e Macerata con “L'incoronazione di spine” di Vienna, scrivendo che i tre dipinti sono copie da originali del Caravggio realizzati nel periodo napoletano. A.Berne Joffroy (1959) scrive che i dipinti di Macerata e Catania sono entrambe copie da un'originale perduto del Caravaggio. Nel 1960, su indicazione del restauratore De Mata, Longhi collega il quadro di Cantalupo Sabino all'attività di copista di Vincenzo Camuccini. Jullian torna sul tema nel 1961, asserendo che le due composizioni risentono entrambe della “Flagellazione di Cristo” e dunque sono di un pittore napoletano post 1607. Maurizio Marini (1973) riabilita il quadro di Cantalupo Sabino, collegandolo alle fonti documentarie del Mannilli che proverebbero l'esistenza di un “Cristo alla colonna” nelle collezioni di Scipione Borghese a metà Seicento e oltre ( De Sebastiani 1683, Montelatici 1700, Venuti 1766). L'opera sarebbe successivamente pervenuta nella collezione del barone Pietro Camuccini, dove è ricordata dal Falconieri come dipinto del Caravaggio nel 1875. La datazione proposta da Marini è al 1598, in rapporto con il “Cristo coronato di spine” ex Giustiniani oggi a Vienna. Moir (1976) ritiene che il prototipo sia di Valentin de Boulogne, e lo mette in relazione tanto coi dipinti di Vienna e Prato quanto con la “Flagellazione” di Napoli. Marini (op.cit., pag 427) ritiene che la versione di Catania sia riferibile alla cerchia del Saraceni. La redazione di Macerata è classificata come “Ignoto XVII secolo” nel catalogo della mostra napoletana del 2004. In quell'occasione lo schedatore Gabriele Barruca riepilogando la vicenda attributiva delle tre versioni ricorda che per la cronologia del dipinto la critica si divide tra sostenitori di una pertinenza al periodo romano (Marini, Hinks, Mahon, Gregori, Puglisi) e chi invece “ha giustamente messo in evidenza i rapporti-come copia da Caravaggio o come opera di qualche seguace-con la “Flagellazione di san Domenico Maggiore”, nonché con l'”Incoronazione di spine” di Vienna, specie per la figura del Cristo, modellato su un maestoso prototipo ispirato all'antico” (cfr. AA.VV., “Caravaggio l'ultimo tempo (1606-1610), op. cit., pag. 168.
88Un'indicazione in tal senso l'ho ricavata dalla conversazione con Claudio Falcucci fatta in preparazione della mostra.
89Ferdinando Bologna, “Battistello e gli altri, Il primo tempo della pittura caravaggesca a Napoli”, in “Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli”, Napoli 1991, pp. 152-155. Vedi anche Filippo Maria Ferro, “Tanzio in mostra a Napoli e a Torino”, in Paragone 1995, n.539, p.71, nota 3, in cui si ricorda come l'assegnazione del rame a Tanzio fosse già stata proposta da Roberto Longhi in un'expertise del 14 febbraio 1967.
90Bologna cita anche per il dipinto un'ascendenza fiammingo-romana, spendendo i nomi del Cavalier d'Arpino, di Matteo Brill e di Arnaut Mytens.
91 La probabile assenza di Antonio D'Errico, detto Tanzio da Varallo, da Varallo Sesia, suo paese di provenienza, è inscritta nel periodo che va dal febbraio 1600 alla primavera del 1616. Sappiamo infatti che parte per Roma con il fratello Melchiorre, in occasione del giubileo promosso da Clemente VIII, con l’intenzione di ottenere sì l’indulgenza, ma soprattutto di provare a vivere nella città del Papa come pittore. Melchiorre nel 1607 è già rientrato in patria, mentre la prima commissione documentata a Tanzio è la “Madonna dell’incendio sedato” per la collegiata di Pescocostanzo. In quello stesso anno i fabbricieri del Sacro Monte incaricano Guglielmo Caccia detto il Moncalvo di eseguire gli affreschi per la cappella XXXIV del Sacro Monte (quella del mistero di Ponzio Pilato che si lava le mani). Viene anche versato un acconto al Moncalvo, ma poi il progetto entra in stand-by, per l’intenzione di girare la commissione a Tanzio. Il 30 aprile 1616 questi è tornato a Varallo: fa infatti da testimone in un atto notarile relativo alla retrovendita di un terreno stipulato tra due compaesani. L'attività nel Centro-Sud del Tanzio dura dunque sedici anni, ed è convinzione di chi scrive che essa sia a oggi emersa solo in maniera parziale, e che resti soprattutto ancora da chiarire l’ambito non solo di influenze ma anche più strettamente operativo in cui Antonio dovette muoversi a Roma e poi a Napoli. Cfr. Francesco Frangi,“Itinerario di Tanzio da Varallo”, in AA.VV., “Percorsi caravaggeschi tra Roma e Piemonte”, a cura di Giovanni Romano, Torino 1999, pp. 114-124.
92Cfr. Maria Cristina Terzaghi, “Tanzio, Caravaggio e compagni tra Roma e Napoli”, in “Tanzio da Varallo incontra Caravaggio”, Cinisello Balsamo 2015, pp. 19-49 e Pietro Caiazza, "Caravaggio somiglianze, ascendenze e discendenze", 2015, qui.
93La prima segnalazione di questa ricorrenza iconografica è in un articolo dello scrivente, pubblicato on line il 21 marzo 2013 (dunque precedente al contributo di Terzaghi che ritorna su Bologna) e reperibile qui.