Giulio Giorello conduce una ricerca sulla scia di Apocalittici e integrati, in cui Umberto Eco sosteneva che davanti alla cultura di massa – fumetti, cinema, musica pop – si fronteggiassero due atteggiamenti contrapposti
Nel 1964 il compianto Umberto Eco pubblicò il libro Apocalittici e integrati, un’opera in cui tentava di fare il punto sulle ricerche compiute fino ad allora che riguardavano lo studio scientifico della cultura di massa.
Il libro ebbe un successo mondiale e innescò un grande dibattito. Umberto Eco sosteneva infatti che davanti alla cultura di massa – fumetti, cinema, musica pop – si fronteggiassero due atteggiamenti contrapposti.
Da un lato esistevano alcuni intellettuali – che Eco chiamava «gli Integrati» – che ritenevano che la «Cultura Bassa», quella dei fumetti per intenderci, potesse essere studiata e analizzata come se si trattasse di un prodotto culturale di alto livello, cioè come se Superman fosse per esempio un prodotto letterario in tutto e per tutto simile ai Promessi Sposi.
D’altro lato c’erano però altri intellettuali – «gli Apocalittici» – che sostenevano al contrario che il fenomeno culturale per sua stessa natura fosse elitario, destinato quindi a poche persone, e con ciò inevitabilmente concludevano che un fenomeno di massa, come per esempio i fumetti, non potesse in alcun modo essere un fenomeno culturale.
I tempi sono proprio cambiati.
Oggi l’idea che la cultura di massa, la Cultura Bassa, possa essere studiata seriamente come la Cultura Alta è un’idea comunemente accettata dalla maggior parte della comunità scientifica. E non a caso, dal 1964 in poi, gli studi e le ricerche pubblicati sui cartoni animati, sui telefilm, sulla musica pop, sui b-movies, sui graffiti, sulla pubblicità e ovviamente anche sui fumetti sono stati migliaia.
Oggi però, cinquant’anni dopo il libro di Umberto Eco, ci troviamo in un periodo di «stanca».
Oggi però, cinquant’anni dopo il libro di Umberto Eco, ci troviamo in un periodo di «stanca».
Intendiamoci: non è più in discussione il rispetto che la cultura di massa, la Cultura Bassa, certamente merita. Il problema semmai è piuttosto che, se negli anni Sessanta la rivalutazione della cultura di massa era stata una proposta talmente innovativa da apparire a qualcuno anche un po’ provocatoria, ebbene oggi l’aspetto innovativo è del tutto scomparso mentre ha preso il sopravvento l’aspetto meramente provocatorio, spesso fine a sé stesso. Un esercizio inutile perché, se negli anni della contestazione l’esigenza di produrre – anche attraverso provocazioni e dissacrazioni di miti intoccabili – la rottura di vecchi schemi consolidati era molto sentita, oggi invece che quegli schemi rigidi di una Cultura Bassa contrapposta a una Cultura Alta sono già stati rotti e da tempo, a cosa può concretamente servire continuare a provocare e a dissacrare?
Mi spiego meglio con un esempio.
Negli anni Sessanta a Milano un movimento hippy stilò un manifesto in cui chiedeva la rivalutazione dei film di Franco e Ciccio. Era una provocazione, d’accordo, che poteva servire a mettere l’accento sul fatto che ci fossero film trascurati dalla critica seria. Oggi però che i film di Franco e Ciccio sono stati abbondantemente rivalutati per davvero, esprimere un’analoga richiesta non avrebbe la carica eversiva e dissacratoria che aveva all’epoca in cui fu formulata per la prima volta. Eppure c’è ancora qualcuno che avanza analoghe richieste come se fossero una novità. Novità per chi viene da Marte, forse.
Non basta. Negli anni Sessanta, e per i venti o trenta anni successivi, la proposta di rivalutare la Cultura Bassa e di studiarla con strumenti di solito utilizzati per la Cultura Alta, ha prodotto risultati interessanti, e penso per esempio agli studi compiuti sulla pubblicità da diversi psicologi che hanno ottenuto risultati di indubbio valore che a loro volta hanno aiutato a comprendere il fenomeno della pubblicità mettendone in luce aspetti fino ad allora trascurati.
Da alcuni anni a questa parte tutto è però cambiato.
La voglia, fine a sé stessa, di provocare ha preso il sopravvento su tutte le altre considerazioni, così come il bisogno di stupire a tutti i costi e di far parlare di sé con tesi sempre più aberranti. In questo nuovo contesto i risultati sono stati sempre più relegati a prodotto secondario della provocazione, tanto che l’elevazione della Cultura Bassa a oggetto di studio è andato addirittura a detrimento della Cultura Alta.
Tutti i fenomeni culturali hanno pari dignità, almeno in linea di principio. Il problema è però il «fine» per cui è avvenuto questo fenomeno di elevazione complessiva
Di rivalutazione in rivalutazione, di provocazione in provocazione si è giunti infatti a elevare tutto, ma proprio tutto, al rango di oggetto di studio. E fin qui – intendiamoci – nulla di male. Tutti i fenomeni culturali hanno pari dignità, almeno in linea di principio. Il problema è però il «fine» per cui è avvenuto questo fenomeno di elevazione complessiva, e cioè semplicemente per stupire l’uditorio con tesi sempre più ardite e non per portare qualche contributo significativo al dibattito culturale. Pare anzi sempre più frequente l’impressione che diversi studiosi non mettano prioritariamente al centro dell’interesse l’oggetto dei loro studi – fumetti, videogiochi, graffiti – quanto piuttosto sé stessi.
I sintomi di tale degenerazione sono stati evidenti, ovviamente per chi li ha voluti vedere: dalla lettura psicoanalitica dei poliziotteschi anni Settanta all’ermenuetica dei film di Edwige Fenech; dal marxismo in Hello Spank allo strutturalismo nei Jefferson; dalla relatività di Alvaro Vitali alla Scuola di Francoforte in Tomas Milian; accostando poi Diabolik a Spinoza, Sampei a Popper, Alberto Sordi a Sartre; e passando infine per Rino Gaetano, Hegel e i film in cui Gianni Morandi faceva il militare. Insomma: un potpourri che ha messo tutto su uno stesso piano senza essere in grado di fare distinzioni, giocando più sul filo di una pur comprensibile nostalgia degli anni giovanili e di una voglia di stupire che non di un discorso culturale serio, che era però ciò che si voleva fare, pur tra mille provocazioni, negli anni Sessanta e che aveva come alfiere proprio Umberto Eco.
Abbiamo dunque assistito a un ribaltamento delle prospettive: non più una Cultura Bassa studiata attraverso gli strumenti e le prospettive di quella Alta, ma una Cultura Bassa semplicemente travestita da Alta. Punto e stop. E sapete perché dico “punto e stop”? Perché, come dicevo, sotto il travestimento della Cultura Bassa da Cultura Alta non c’è niente.
Faccio anche qui un esempio.
I film poliziotteschi degli anni Settanta sono stati certamente un tipico oggetto di consumo culturale di massa. Ma studiarli «seriamente» costerebbe fatica, perché bisognerebbe vederseli tutti, conoscere la storia del cinema in generale e la storia del cinema italiano in particolare, studiare il momento storico e politico in cui sono stati girati e via dicendo. E se, oltre a ciò, si volesse dare dei poliziotteschi degli anni Settanta – per aggiungere qualcosa alla loro comprensione, e non tanto per dire qualcosa di strano – per esempio un’interpretazione psicoanalitica, ebbene prima di farlo bisognerebbe studiarsi seriamente la psicoanalisi, fare lunghe letture e fare ricerche per confermare tale ipotesi.
Studiare costa fatica
La verità è che il 99% di quelli che oggi fanno accostamenti come quelli che ho citato sopra, non hanno in realtà voglia di fare la fatica – perché studiare costa fatica – di fare sul serio studi di quel tipo. Si accontentano piuttosto della boutade che fa parlare di sé, della sparata che fa rumore, della chiacchiera su argomenti orecchiati, della suggestione di parallelismi arditi, e via dicendo. Poi si passa ad altro. E tale ricerca – come capite – è semplicemente sterile perché non porta ad alcun risultato.
Varrebbe la pena anche di osservare che lo scadimento generalizzato della preparazione culturale del pubblico, anche di quello che si pretende medio alto, fa sì che sia il pubblico stesso a cercare ed apprezzare la boutade che enunci la tesi secondo cui esista un legame tra la violenza della polizia degli anni Settanta e il complesso di Edipo, piuttosto che valutare ed eventualmente apprezzare l’argomentazione scientifica a supporto di tale tesi.
Pensate che io stia esagerando? Vi sbagliate.
Qualche mese fa il più importante filosofo della scienza italiano, Giulio Giorello, ha pubblicato il libro La filosofia di Topolino, in cui il simpatico topo viene definito «come il filosofo più provocatorio del XX secolo» – capite l’importanza della provocazione! – e viene accostato a dozzine di grandi intellettuali di tutte le epoche, a scuole e a discipline per tutti i gusti.
Intendiamoci: è perfettamente legittimo lo studio scientifico delle strutture narrative e visive di Topolino, così come è perfettamente legittimo proporre una lettura marxista o psicoanalitica di Topolino, peraltro già condotte (e a più riprese), o di proporre nuove letture. Così come è legittimo che la figura di Topolino venga accostata a figure come quella di Nietzsche o Carnap, o proporre nuovi accostamenti. Anche queste sono tutte cose già viste.
A fianco della figura del simpatico Topo vengono citati circa 160 tra filosofi, scienziati e scrittori
Il problema secondo me però sta proprio qui, perché Giorello nel suo libro propone contemporaneamente moltissime letture diverse e accosta Topolino a tutti i filosofi e scienziati possibili. Mi sono preso la briga di fare un conteggio sommario per sostenere questa tesi: a fianco della figura del simpatico Topo vengono citati circa 160 tra filosofi, scienziati e scrittori diversi in meno di 250 pagine di libro, cioè uno ogni 25 righe circa. Giorello cita dunque tantissime tesi una dietro l’altra, ma non ne argomenta nessuna. Come un venditore di automobili, spara una caratteristica dietro l’altra dell’auto che deve vendere sperando che almeno una faccia breccia nel cuore del possibile acquirente, e non importa quindi che il discorso sia organico: l’auto è una tra le più sicure; una tra quelle più sportive; una tra quelle più connesse; una tra quelle che costano meno; che consumano meno; che inquinano meno e via dicendo all’infinito.
Giorello ci dice che Topolino è copernicano? Benissimo. Ma la dimostrazione dov’è? In una puntata Topolino avrebbe sostenuto il contrario rispetto all’opinione corrente fino ad ottenere ragione? E che argomentazione è? Sarebbe questo il copernicanesimo di Topolino? Peraltro in una puntata sola! Niente paura: venti righe dopo Giorello passa a citare un Topolino leninista e dopo altre venti righe Topolino diventa (bontà sua) gramsciano.
Si tratta in tutta evidenza di un saggio di portata scientifica pressoché nulla e perfino di una modesta portata divulgativa. Un aspetto positivo però voglio trovarglielo: proprio con questo saggio Giorello mostra come si sia esaurita la spinta propulsiva che avevano le prime ricerche serie sulla cultura di massa e come anche lui, un illustre professore, sia caduto nella moda del momento, quella di spararla, spararla grossa, per far parlare di sé.
Cosa sappiamo di più di questo caleidoscopico Topolino dopo il libro di Giorello? Niente, se non che Giorello dimostra un’invidiabile erudizione scientifica, filosofica e letteraria. Ma allora il centro del discorso è Giorello e non Topolino, anche perché lo stesso risultato poteva essere ottenuto utilizzando Diabolik.
Come concludere?
Di solito i fenomeni culturali – come le mode – hanno un movimento oscillatorio come quello un pendolo.
Penso che l’oscillazione degli «integrati» sia ormai arrivata fino in fondo e che per la cultura di massa sia giunta l’ora di una considerazione che, seppur sempre elevata, sia non di meno più equilibrata.
Nei giorni in cui si commemora, e giustamente, l’autore del Pendolo di Foucault, questa è una considerazione da tenere senz’altro presente.
Giulio Giorello, Ilaria Cozzaglio, La filosofia di Topolino, Guanda, 2013, 252 pp., 17,00 euro