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A settant’anni dalla sua inaugurazione
lo sguardo della Casa della Cultura di Milano avvolge e riflette la nostra Storia.
Il  14 marzo alle ore 18:00 presso la sede di via Borgogna
la presentazione del libro di Ferruccio Capelli
La porta rossa 

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na porta rossa. Una porta. Rossa.
È quella che si apre in via Borgogna 3 a Milano ed attraverso la quale si accede alla Casa di Cultura. Un luogo privilegiato di confronto culturale e apertura nazionale e internazionale ancora oggi, a 70 anni dalla sua fondazione.

 

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Ingresso della Casa della Cultura di via Borgogna 3

 

Basta varcare la soglia e guardarsi attorno per respirare un’aria nuova rispetto all’assordante rumore quotidiano. Percorrendo la sua scalinata verso il basso si ha quasi l’impressione di entrare in un luogo sacro. L'atmosfera è sobria e foto alle pareti ne raccontano la storia. Dai padroni di casa Antonio Banfi, Rossana Rossanda, Mario Spinella, Cesare Musatti e Vittorio Spinazzola, ai protagonisti della cultura italiana ed europea. Bertolt Brecht in posa con Paolo Grassi e Giorgio Strehler, e poi Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Dario Fo; e ancora Indro Montanelli, Philippe Daverio, Jurgen Habermas, Alain Touraine, Tzvetan Todorov.
Guardando la galleria di immagini degli studiosi e dei protagonisti della vita pubblica che hanno preso parola alla Casa della Cultura, ancora prima di raggiungere la sala che ospita dibattiti ed iniziative a tutto tondo, si è avvolti da un grande senso di curiosità.

Sono Antonio Banfi, Elio Vittorini ed Eugenio Curiel a progettarne la fondazione durante gli anni della Resistenza, anni in cui essere contro il regime è una follia e i pochi intellettuali che non vengono reclusi o esiliati per le loro idee sono costretti ad agire nella clandestinità. Ed è così che si muovono, assumendone tutti i rischi, Banfi, Vittorini e Curiel, tre personalità molto diverse ma unite nella lotta antifascista da una parte e nell’amore per la Cultura dall’altra.

Il progetto a cui pensano potrà essere attuato solo nel dopoguerra ma porta con sé i segni degli anni in cui è stato preparato. Strettamente legato alla lotta per la Liberazione è infatti il desiderio di rinascita, rifondazione e trasformazione della cultura italiana. Un desiderio che riguarda tutti i campi del sapere e che porterà anche alla nascita del primo teatro stabile italiano, il Piccolo Teatro di Milano, un Teatro d’Arte per tutti che vede peraltro tra i fondatori, insieme a Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Nina Ninchi, lo stesso Antonio Banfi.

Il contesto e la missione della Casa della Cultura sono ben evidenti nel discorso inaugurale tenuto da Ferruccio Parri il 16 marzo 1946:

«Esigenza di rinnovamento. Essa è nell’aria. Urge da ogni lato. (...) Non sono ancor cessati gli orrori e le cure della guerra ed ancor pende sul mondo l’incertezza angosciosa dell’avvenire, che riprende vivacemente l’indagine nei campi della ricerca scientifica e tecnica (...) nei campi del pensiero, della riflessione critica e della creazione artistica e (...) nella osservazione e teorizzazione dei fatti sociali (....). La guerra di liberazione (...) è stata la sagra della “intelligenza” italiana. Che cosa sarebbero stati quei nostri gruppi di operai e di militari sbandati senza lo studente, l’avvocato, il professore che vennero a inquadrare gli uomini, la lotta e le idee? Ed è questa magnifica leva spontanea dei nostri intellettuali che ci dà cuore quando l’impreparazione, la superficialità, il disordine, l’arrivismo, ci fan dubitare dell'avvenire».

 

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Ferruccio Parri durante il discorso inaugurale della Casa della Cultura il 16 marzo 1946.
Accanto a lui, da sinistra, Antonio Banfi, Piero Montagnani-Marelli e Francesco Scotti

 

Antonio Banfi si è affermato sulla scena culturale per il suo razionalismo critico e per una ricerca attenta e aperta alle più vivaci correnti del pensiero novecentesco: dal vitalismo di Simmel alle tradizioni spiritualiste francesi (Bergson soprattutto), dal recupero della filosofia della crisi e della tradizione copernicana alla fenomenologia di Husserl. La sua interpretazione non dogmatica del marxismo, cui ha aderito negli anni della Resistenza, riserva particolare attenzione alla dimensione europea e pone l’accento sulla necessità di una continua verifica critica. L’apertura internazionale che muove la sua ricerca fin da giovane, la vastità della sua cultura, l’innovazione da lui operata in tutti i campi del sapere, il rigore scientifico e le intuizioni personali con le quali analizza e rielabora le più significative figure filosofiche del passato e della contemporaneità ne fanno una personalità talmente autorevole ed eminente a livello internazionale, da consentirgli di proseguire l’attività di docente anche negli anni bui del fascismo, nonostante la sua posizione dichiaratamente antifascista. 
L’insegnamento, l'impegno editoriale alla Bompiani, che si concretizza soprattutto nella collana Idee nuove dove appaiono i volumi di Simmel, Hartmann, Scheler, Jaspers, Klages, e la fondazione nel 1940 della rivista Studi filosofici contribuiscono a rendere Banfi la figura chiave di un orientamento culturale che si occupa di tutte le forme della conoscenza: filosofia, etica, arte, pittura, musica, psicologia, sociologia, etnologia e metodologia della scienza... 

La Scuola di Milano che si raccoglie attorno alla sua figura dagli anni Trenta in poi ha molto peso nella vita culturale della città ed è anche, come ha sostenuto Ferruccio Capelli durante il convegno Scuola di Milano tenutosi recentemente in Via Borgogna, «il punto di riferimento obbligato di ogni ricostruzione della storia della Casa della Cultura». Enzo Paci, Giulio Preti, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Luciano Anceschi, Raffaele De Grada, Alberto Mondadori, Vittorio Sereni, Luigi Rognoni, Ernesto Nathan Rogers, Giovanni Maria Bertin, Antonia Pozzi e Daria Menicanti, un cenacolo di intellettuali, suoi allievi, con interessi e specializzazioni diverse, descritto da Fulvio Papi nello stesso convegno attraverso un’immagine darwiniana:

«Banfi era la specie primitiva da cui si trasformano altre specie, i suoi allievi. E da questi si trasformano altre specie ancora. Attraverso questa trasformazione e modificazione noi abbiamo una specie di giardino intellettuale che riconosce le sue radici e tuttavia ciascuno di essi può rivendicare la sua autonomia intellettuale, la sua libertà e l’azione della sua filosofia, della sua arte, della sua architettura, dei suoi contributi in design...»

 

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Antonio Banfi nel 1956 e un biglietto da lui scritto il 15 dicembre 1950

 

Elio Vittorini si è consolidato nel panorama letterario con Conversazioni in Sicilia, il romanzo pubblicato a puntate tra il 1938 e il 1939 sulla rivista Letteratura, poi edito in volume nel 1941 prima da Parenti, poi da Bompiani. Proprio da Bompiani riceve nel 1939 l’incarico di dirigere la collana La Corona e di curare l’antologia di scrittori statunitensi Americana, che porta in Italia i più significativi autori americani, da Mark Twain ad Ernest Hemingway, da Nathaniel Hawthorne a William Faulkner, da Theodore Dreiser a John Steinbeck, e molti altri. Una narrativa perlopiù ancora sconosciuta in Italia e che fa nascere un vero e proprio mito grazie sia alle varie introduzioni di Vittorini, sia alla collaborazione di traduttori come Eugenio Montale, Cesare Pavese e Alberto Moravia.
Animato da una profonda tensione morale e da un umanesimo universalistico, Vittorini si avvicina al Partito Comunista Italiano e partecipa attivamente alla Resistenza, senza mai negare la forte insofferenza nutrita nei confronti di ogni dogmatismo.

 

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Alcune pagine di Americana di Elio Vittorini

 

Anche Eugenio Curiel, giovane scienziato triestino, studioso di fisica e docente all’università di Padova, ha una storia politica particolare. Durante la Resistenza promuove l’organizzazione unitaria dei giovani antifascisti, il Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà, divenendo poi il punto di riferimento dei comunisti milanesi.
Nello stesso periodo elabora la sua teoria sulla democrazia progressiva: la necessità di preparare, attraverso la lotta di liberazione, le condizioni di un avanzamento sociale e politico delle masse popolari nel post liberazione, riconosciuta come il suo più importante contributo teorico all’antifascismo. Purtroppo non vedrà la concretizzazione del progetto elaborato con Banfi e Vittorini poichè viene  ucciso a Milano nei pressi di piazzale Baracca da militi delle Brigate nere il 24 febbraio 1945.

Comune alle tre figure dunque una grande curiosità intellettuale, il rifiuto del dogmatismo, un orizzonte di ricerca cosmopolita e aperto.
Il loro incontro dopo la Liberazione definisce tre obiettivi: la nascita di un’associazione culturale di massa, una nuova rivista e un centro di confronto della Milano colta ma aperto a tutti.

Il primo progetto che prende vita, nell’agosto 1945, è il Fronte della Cultura, occupando un palazzo in via Francesco Sforza, già sede del Minculpop, il Ministero della Cultura Popolare della Repubblica Sociale Italiana. La direzione operativa dell'associazione, che si propone di animare il dibattito culturale nei quartieri e nelle fabbriche, viene affidata al filosofo e critico d’arte Dino Formaggio. L'attività del Fronte inizia a pochi giorni dai fatti di Hiroshima con la conferenza L'energia nucleare: rovina o benessere?, per poi concentrarsi soprattutto su corsi di alfabetizzazione nelle fabbriche, sui corsi preparatori per gli esami di riparazione  e su quelli di preparazione ai concorsi magistrali.

 

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Corso organizzato dal Fronte della Cultura per il superamento degli esami magistrali

 

Il secondo passo è l’uscita, a fine settembre 1945, della nuova rivista, Il Politecnico, sotto la direzione di Elio Vittorini.
Nella prima pagina del primo numero il manifesto di questi intellettuali: in alto a destra la fotografia di un caduto che detta ad un compagno le sue ultime volontà; sotto la foto la seguente didascalia:
I caduti per la libertà di tutto il mondo ci hanno dettato quello che scriviamo.
A sinistra l’editoriale del direttore dal titolo e sottotitolo inequivocabili:
Una nuova cultura. Non più una cultura che consoli nella sofferenza, ma una cultura che protegga dalla sofferenza, che la combatta e la elimini.

 

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Dettagli del primo numero della rivista Il Politecnico, 29 settembre 1945

 

Una cultura nuova dunque, che sia testimone degli orrori della guerra e si faccia interprete della Resistenza, in stretto e proficuo dialogo con il progetto definito da Antonio Banfi al V Congresso del Pci: una nuova scuola per «l’uomo moderno, non semplicemente l’uomo, di tutti i tempi» poiché «noi sappiamo cos’è l’uomo moderno ma non sappiamo che cosa sia l’uomo di tutti i tempi».
Il Politecnico si avvale inoltre della collaborazione di prestigiose firme internazionali e stabilisce un fecondo scambio con la rivista di Sartre Les temps modernes.

L’anno successivo, il 16 marzo 1946 il progetto si completa.
In via dei Filodrammatici 5, ad un passo dalla Scala, in un palazzo un tempo sede di istituzioni fasciste, viene inaugurata la "prima" Casa della Cultura. Fra i soci figurano oltre a Banfi e Vittorini, alcuni protagonisti della cultura progressiva del dopoguerra: Mario Borsa (allora direttore de Il Corriere della Sera, poi primo presidente della Casa della Cultura), Giulio Einaudi, Alberto Mondadori, Ernesto Nathan Rogers, Gaetano Baldacci, Raffaele Mattioli (presidente della Banca Commerciale), Remo Cantoni, Raffaele De Grada, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Ernesto Treccani. Nel primo direttivo anche nomi come Francesco Flora e Cesare Merzagora, futuro presidente del Senato. 

 

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Manifesto e programma della Casa della Cultura di via Filodrammatici 5 

 

Elio Vittorini e Antonio Banfi. Il Politecnico e la Casa della Cultura. La missione portata avanti dalla rivista e dal centro culturale sono così assimilabili da far dire a Vittorini: «La Casa della Cultura è Il Politecnico parlato, Il Politecnico è la Casa della Cultura scritta». O ancora «Un umanesimo radicale e completo è ciò che vuole Studi filosofici, è ciò che vuole Il Politecnico».
Sebbene molto diversi dal punto di vista della formazione e del temperamento, le strade di Antonio Banfi ed Elio Vittorini si incrociano in più di un’occasione. L’esperienza della Resistenza è per entrambi una tappa fondamentale per l’elaborazione delle rispettive proposte culturali. Tra i punti di contatto oltre ad un ideale di impegno pratico della cultura, l’attenzione per l’attività scientifica, il confronto con la moderna società industriale, con la modernità e la cultura urbana, la necessità di fare i conti con una società di massa e le sue nuove tecniche di produzione culturale.

Dopo l’autarchia culturale degli anni della guerra, che ha portato all’isolamento e all’inaridimento di ogni sviluppo, si assapora finalmente un’aria di grandi cambiamenti.
La lotta per la libertà si unisce alla battaglia per lo sviluppo della cultura e il centro progettato da Banfi-Vittorini-Curiel si fa portavoce della nuova atmosfera rivoluzionaria e della rinascita spirituale di Milano. Come dichiara infatti il fondatore della psicoanalisi italiana Cesare Musatti, nel contesto sociale e politico rivoluzionario degli anni successivi al fascismo:
«La gente aveva sete di sapere e si presentava sulla soglia della Casa della Cultura, curiosa e ingorda, pronta ad ascoltare e dibattere qualunque tema».

O ancora il poeta Sergio Solmi, in un articolo uscito su Fiera letteraria nel maggio 1946:
«Confesso che in pochi mesi ho sentito conferenze almeno venti volte tanto che in tutto il resto della mia vita messo assieme ... E conferenze, quel ch’è peggio, quasi tutte vive, quasi tutte interessanti. (...) per l’artista e l’uomo di lettere Milano sembra trasformarsi ogni giorno più in un luogo astratto, contrassegnato dalle frecce indicative d’una rinnovata, frenetica civiltà culturale, che anela a scarnire le cose fino all’osso, ad agitare miti totali, ad imprimere alla vita un segno tanto forte da lasciarla senza fiato».

L’improvvisa frenesia non coinvolge solo il campo delle lettere e delle arti, bensì l’intero mondo della cultura: filosofia, scienza, economia, tecnica, politica. Ogni campo del sapere viene rivisto e analizzato criticamente in alcuni circoli e caffè milanesi in generale e dentro la Casa della Cultura di via Filodrammatici 5 in particolare.

La prima sede è di ampie dimensioni: il portone di ingresso conduce in un ampio e suggestivo giardino, mentre direzione, segreteria, libreria e un bar-ristorante sono collocati nei locali intorno ad esso. Al primo piano un grande salone è adibito agli incontri in cui si prevede maggior afflusso di pubblico, mentre altre sale consentono l’organizzazione di più eventi contemporaneamente e l’ospitalità di oltre venti associazioni.
Mostre di pittura, letture di poesie, proiezioni di film e documentari, concerti di musica da camera sono solo alcune delle iniziative che si svolgono alla Casa della Cultura fin dalle sue origini.

Una finestra sul mondo che, insieme al Fronte della Cultura e a Il Politecnico, ottiene un vivo consenso a Milano, interpretando a tutto tondo quella tensione innovativa che caratterizza tutti gli ambiti della vita culturale. Basti pensare oltre alla nascita del Piccolo Teatro, anch’esso ricavato da uno spazio che portava i segni del regime (durante la guerra lo stabile di via Rovello era stato luogo di detenzione e tortura ospitando la sede operativa della Legione Ettore Muti), al sodalizio artistico e culturale formatosi attorno alla rivista Corrente, fondata nel 1938 da Ernesto Treccani.

Banfi, Vittorini, Treccani, Grassi, Strehler, e quel “vento del nord” cui dare voce come è scritto sulla prima pagina de Il politecnico.

 

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Alcuni protagonisti della Casa della Cultura. In alto Paolo Grassi, Bertolt Brecht e Giorgio Strehler.
A sinistra Ernesto Treccani e Raffaele De Grada in occasione della conferenza su "Società ed arte", 6 marzo 1953. 
A destra Mario Dal Pra, Cesare Musatti, Antonio Banfi e Luigi Longo durante un dibattito sulla Resistenza.

 

Rossa si diceva è la porta.
Rosse sono anche le polemiche aspre rivolte alle riviste di Vittorini e Banfi, costrette a chiudere alla fine degli anni Quaranta, così come rosse sono le ragioni che causano le prime scissioni in seno alla Casa della Cultura. Stretta tra l’accusa di essere comunista (da parte degli anticomunisti) e il sospetto di essere “eretica” (da parte del Partito Comunista) la Casa della Cultura chiude i battenti alla fine del 1949 per riaprirli due anni più tardi in una nuova sede, sotto la direzione di Rossana Rossanda. Giovane allieva di Banfi, funzionaria del partito comunista, pone un’unica condizione prima di accettare l’incarico: avere le mani libere.

La prima casa della cultura si è infatti spenta nelle polemiche tra comunisti e socialisti, tra comunisti e comunisti e con la crisi del Partito d’azione.
«La guerra fredda irrigidì, raggelò, rese più fragile tutto» dice Rossana Rossanda «per quanto tutti noi pensassimo, e non a torto, che i comunisti italiani erano un’altra cosa, che non eravamo figli dell’Internazionale se non per un legame ideologico assieme autentico e distante, e che non sarebbe stato possibile perire per quel che accadeva all’Est, una cosa avevo capito: che il Pci era il mio partito, ma che certi suoi metodi, che preferivo attribuire alla federazione milanese, erano una disgrazia».

 

20160225 Rossana Rossanda

 

Rossana Rossanda

 

Della cultura non ci si dovrebbe servire. Al di là dei conflitti e degli orientamenti politici, gli intellettuali sentono la necessità di rinnovare la loro funzione e la ricerca culturale in piena autonomia. Ed è così che, dopo un confronto con i socialisti, “i più vicini e scottati”, e la ricerca di una sede da acquistare per garantirne l’indipendenza e la continuità, nasce la "seconda" Casa della Cultura, in via Borgogna 3. Quasi tutti gli intellettuali laici della prima sede, duemila soci, una strada ridefinita insieme e nuove sfide da affrontare e a cui dar voce.
Nel 1962 Rossana Rossanda viene chiamata a Roma per dirigere la sede culturale del Pci e delle battaglie portate avanti dalla Casa della Cultura, un luogo riaperto e rimasto aperto nonostante i successivi momenti di tensioni politiche, dice: «non schivammo mai nulla, e fu questo, credo, a tenerci in piedi ogni volta che la situazione si surriscaldava».

 

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Copertina del libro La porta Rossa di Ferruccio Capelli

 

In settant’anni la Casa della Cultura attraversa molteplici scenari politico-sociali ed è diretta da diverse personalità. Ed è proprio l’attuale direttore Ferruccio Capelli a raccontare la sua storia in La porta rossa. 70 anni di casa della cultura tra storia e storie, libro che verrà presentato il prossimo 14 marzo alle ore 18:00 presso la sede di via Borgogna.
Con sguardo analitico e storicistico il libro mira a ricostruire dettagliatamente la problematicità delle trasformazioni che hanno segnato epoca per epoca lo scenario nazionale e internazionale: il boom economico, la stagione della distensione, il primo governo di centro-sinistra, il terremoto di Tangentopoli, la radicale trasformazione della discussione pubblica dovuta alla televisione, la crescita sregolata del sistema finanziario europeo, l’avvento del libertarismo individuale e liberista, i tumultuosi cambiamenti dopo il crollo del muro di Berlino.
Non meno problematico l’inizio del nuovo millennio con la nascita del movimento no global e i tragici eventi dell’11 settembre 2001, che fanno entrare prepotentemente nell’agenda pubblica le tematiche del mondo islamico e sono occasione per una riflessione più ampia sul senso e la possibilità di un confronto tra civiltà.
Su questa linea si collocano le iniziative della Casa della cultura, dall’incontro Dialogo tra culture e civiltà già nel settembre 2001 al ciclo Per il dialogo, cui partecipano filosofi, antropologi, esponenti politici, associazioni culturali e religiose. O ancora il seminario di filosofia Per una geografia della morale. Dalla Cina all’Islam, dall’Europa all’America tenutosi nel 2004.

E se l’interculturalità è ormai un tratto distintivo del nostro mondo, tanti altri sono gli interrogativi e i diritti cui la Casa della Cultura dà voce negli ultimi anni: Berlusconi fa approvare leggi ad personam come l’abolizione del falso in bilancio e intende riscrivere lo Statuto dei diritti dei lavoratori?  La Casa della Cultura risponde organizzando seminari e convegni sulla Costituzione (Capelli ricorda ad esempio la calorosissima accoglienza ricevuta da Oscar Luigi Scalfaro alla presentazione del suo libro La mia Costituzione alla Casa della Cultura, il 17 ottobre 2005).

Il problema del soggetto e la domanda di senso emergono dal tessuto sociale come questioni di primaria importanza? Ecco allora l’intensificarsi degli incontri di filosofia, gli appuntamenti sulle problematiche religiose, le iniziative dedicate alle questioni di genere o i cicli Il disagio nella modernità e Le nuove frontiere della psicoanalisi.

L’attenzione al presente, la necessità critica, l’apertura a 360 gradi, il progetto che persiste nel tempo sono sintetizzati nell’espressione del filosofo Salvatore Vecailluminismo per tutti”, utilizzata durante la celebrazione dei Sessant’anni della Casa della Cultura:
«In una società democratica la cultura e la conoscenza svolgono un ruolo fondamentale: la cultura deve essere fatta vivere come la risorsa più preziosa per la costruzione di una cittadinanza democratica. Le persone devono poter fronteggiare le circostanze, accrescere la propria competenza e autonomia nel giudicare e nel valutare le cose, per non restare suddite o schiave delle circostanze naturali e sociali, per essere partecipi dell’avventura della ricerca, dell’esplorazione e della riflessione su come stanno le cose e su come possiamo convivere».

L’esigenza di trasmettere l’importanza e la vitalità del rapporto cultura-politica è alla base non solo dell’organizzazione del “Sessantesimo” ma di iniziative poi raccolte nel volume Politica e cultura. Per un rinnovato rapporto tra memoria, scelta politica e progetto.
È il 2006. La battaglia delle idee si concentra sul ruolo dell’antifascismo nella storia italiana. Nel delineare la battaglia pubblica sulla necessità della "memoria", in contrasto con una operazione di revisione storiografica che culmina con Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, Ferruccio Capelli lamenta l’indifferenza della leadership politica:
«Invece di impegnarsi in un’operazione storico-culturale di alto profilo, per criticare quanto doveva essere condannato e valorizzare quanto meritava di essere salvato, il mondo politico della sinistra preferì glissare ed evitare le insidie e le asprezze di quella battaglia culturale. Vi fu qualche esponente politico che strizzò l’occhio alla destra, altri minimizzarono, i più si attennero rigorosamente alla scelta di parlare d’altro. Al duro impegno del confronto ideale e culturale si preferì la politique politicienne: tutte le energie convogliate nella lotta politica quotidiana».

Certo, la querelle ha un sottotesto difficile da affrontare, i suoi nodi storiografici e culturali evocano alcune delle vicende più drammatiche del Novecento. Ma la posizione della Casa della Cultura in merito alla difesa della memoria antifascista è molto chiara. La sinistra avrebbe potuto rivendicare con orgoglio il ruolo tenuto nella Resistenza, le battaglie e le conquiste delle organizzazioni politiche e sindacali nel mondo del lavoro, l’emancipazione e il protagonismo delle classi oppresse. Ma ancora una volta è la Casa della Cultura a stimolare e ospitare il dibattito necessario. Da quel momento la serie di incontri Revisionare il revisionismo, è un appuntamento annuale dedicato a discussioni alternate a proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali e musica. E da allora si organizzano diverse iniziative per sollecitare una riflessione sistematica sulla funzione della sinistra in Italia e sulla storia italiana.

Non stupisce allora che nei capitoli finali Ferruccio Capelli si soffermi sul concetto di politica light: attenzione scarsa nei confronti del sociale e rilevante verso la manovra politica, strabordante peso riconosciuto ai media. Anche il baricentro politico, organizzativo e culturale della sinistra italiana si adegua alle logiche di massificazione e alla seduzione facile delle nuove forme di comunicazione, con effetti dirompenti sul nesso politica-cultura, sul ruolo della cultura umanistica e sul rapporto dei cittadini con le istituzioni, con le proprie origini e con l’idea di futuro. La spettacolarizzazione e la banalizzazione della vita pubblica, i nuovi luoghi o non luoghi di discussione come i talk show, le campagne elettorali concentrate sull'efficacia e sulla velocità del messaggio più che sul suo contenuto non fanno altro che ripercuotersi sulla stessa figura dell'intellettuale. Tradizionalmente inteso come il punto di riferimento per l’opinione pubblica, il maitre a penser deve fare i conti con la dittatura dell’audience e la moltiplicazione delle fonti di conoscenza messe a disposizione dall’evoluzione tecnologica e digitale.
E quando l’autorevolezza della “repubblica delle lettere” viene messa costantemente in dubbio, quando hanno la meglio i potentati mediatico-culturali da una parte e i dilaganti populismi e i movimenti dell'indignazione dall'altra, la Casa della Cultura si pone l’obiettivo di ricostruire una nuova enciclopedia critica della contemporaneità.

Con la crisi finanziaria del 2008, che fa esplodere le distorsioni del mercato globale, anche l’economia entra prepotentemente a via Borgogna, ancora una volta in controtendenza rispetto al liberalismo dilagante. Ecco allora le presentazioni di libri sull'argomento e un secondo ciclo di discussione, Dieci lezioni sulla crisi, che porta come sottotitolo: Una visione non liberista.
Nella stessa ottica di costante impegno civile e culturale si colloca la fondazione, nel 2010, della Scuola di cultura politica, nata per fronteggiare lo scollamento tra cittadini e politica nel mondo globalizzato, la crescita esplosiva delle disuguaglianze, le nuove forme di individualismo e più in generale per stimolare una ricerca e una riflessione approfondite dei grandi nodi storici.

La Casa della Cultura reagisce inoltre rilanciando lo spirito illuminista e quel razionalismo critico che ne hanno ispirato la fondazione poiché ancora oggi essi, come sostiene Ferruccio Capelli, «aiutano ad affrontare il cambiamento con uno spirito positivo, con quel particolare tocco di fiducia nel futuro che ha sempre caratterizzato l’approccio illuminista. Servono anche ad impostare la discussione con metodo razionale e non è poca cosa in tempi di dibattiti pubblici sovraeccitati e di ricerca ossessiva della seduzione».
Il richiamo alla scuola di Banfi è più che esplicito. Così come lo è la proposta di un nuovo umanesimo, in aperta polemica con il nichilismo diffuso, la perdita di senso, lo smarrimento dei fini e l’abbandono del soggetto alle logiche del mondo esterno.

 

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Scorci dell'interno della Casa della Cultura di via Borgogna 3

 

Oggi, a 70 anni dalla sua fondazione, la Casa della Cultura “ritorna al futuro”poichè, pur mantenendo una salda identità culturale e una certa continuità nello stile, è una realtà molto attiva anche sul web.
Presente su Facebook e Twitter, con like e follower in costante crescita, ha potenziato il sito arricchendolo di materiali (stampa, audio, video) e di un canale in streaming per la trasmissione in diretta degli eventi che si tengono in sede. Grazie all’attività online e alla testata giornalistica Via Borgogna 3, che uscirà prossimamente, il luogo della “cultura parlata” di Vittorini si è oggi moltiplicato.
E la porta rossa può così essere varcata innumerevoli volte, superando i limiti temporali e geografici, nella convinzione che la dilatazione dell’offerta culturale aumenti anche la responsabilità dell’intellettuale:

«Oggi più che mai abbiamo bisogno di intellettuali che aiutino a “ripulire le lenti”, di studiosi che contribuiscano a fare sì che “il dibattito democratico sia meglio informato”. (...) A nessuno può sfuggire la responsabilità di questa tenace opera critica di stimolo e di chiarimento. (...) Insomma, in tanti avvertono che servono appoggi, supporti, apposite istituzioni che si facciano carico dell’approfondimento, della rielaborazione, della ricostruzione di criteri interpretativi».

Non stupisce allora che la Casa della Cultura, da sempre luogo del dibattito pubblico rigoroso e approfondito, sia un centro molto attivo ancora oggi e possa rinnovare ogni giorno l’invito ad aprire quella porta rossa che «sta simbolicamente a significare la volontà di aiutare i cittadini a orientarsi dentro il flusso caotico, disordinato e senza gerarchie della cultura globale attuale e di mantenere un distacco critico rispetto al pensiero unico».