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Da una parte gli entusiasmi sul progresso tecnologico, dall’altra critiche e rappresaglie sempre più feroci alla civiltà che abbiamo costruito. Gli apocalittici sono tornati tra noi. Si salvi chi può.

 

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Una confezione di caramelle alla liquirizia contro la tosse, popolarissime negli anni cinquanta del secolo scorso. Si chiamavano così perché, secondo la Gazzoni di Bologna, la ricetta era stata creata da Fra’ Giacomo il Portoghese, farmacista alla corte del Re Sole. Trilussa le gratificò di una poesia pubblicitaria: «Loreto è un pappagallo ammaestrato.Se quanno parlo co’ Ninetta mia / s’accorge ch’entra in camera la ziatosse e fa finta d’esse raffreddato: / e noi che lo sapemo, appena tosse / se damo l’aria come gnente fosse. / Però la zia, ch’è furba e che capisce, / jeri se ne sortì co’ ste parole: – Je darò le Pasticche der Re Sole, / perché co’ quelle è certo che guarisce; / ma se per caso seguita a sta’ male / è segno ch’è una tosse artificiale.»

 

Venditori di caramelle

La pubblicità suscita correnti d’opinione spesso negative. Da giovane ho avvertito, da certi silenzi, la commiserazione di persone care: amici talmente fiduciosi nelle mie potenzialità da giudicare un ripiego e uno spreco la mia scelta di operare in quel genere di comunicazione. E fino all’ultimo ho dovuto difendermi da mia madre, il cui dissenso aveva un movente alquanto eccentrico: giudicava i miei lavori non per ciò che dicevano o per come lo dicevano, ma dal settore merceologico di turno. Si rallegrava in caso di automobili ma si oscurava in caso di soft drink o altre merci di poco prezzo, perché questo era – secondo lei – una prova di fallimento. Se ci imbarcavamo in un’accesa discussione politica, sport in cui le piaceva trascinarmi con qualche provocazione gettata lì quasi per caso, sul più bello tagliava corto con un insulto singolare: «Sei solo un venditore di caramelle.»

Le opinioni sulla pubblicità variano nel tempo e sono indizi da non sottovalutare, perché registrano come un elettrocardiogramma le pulsazioni e il flusso dei cicli ideologici. Una delle critiche più stabili consiste nell’accusare la pubblicità – non questa o quella, ma in blocco – di essere menzognera e di istigare al consumismo. Non sempre si tratta di un giudizio coerente, a giudicare dal tenore di vita dei censori, dai loro desideri e dai loro acquisti. Lo stesso giudizio riveste un valore più razionale, invece, quando insieme al consumismo (che è un effetto forse ineliminabile del capitalismo) si prende di mira l’intero sistema economico e culturale da cui scaturisce. È ormai nota ai lettori di questa rivista la risposta di Bernbach allo storico Arnold J. Toynbee, che accusava la pubblicità di essere immorale: «L’oggetto del disprezzo di Toynbee non è la pubblicità. È l’economia dell’abbondanza o, per usare il termine che tutti conosciamo, il capitalismo. Non ci sarebbe nulla di male, se dicesse chiaramente qual è il reale obiettivo delle sue critiche. Molti aspetti del capitalismo dovrebbero essere corretti, e Toynbee farebbe un gran favore a tutta l’umanità se riuscisse a convincerci a operare queste correzioni, ma non lo farà mai se continuerà a gettare fumo negli occhi con le sue filippiche contro uno strumento che viene usato dalle grandi aziende per vendere di più.»[1]

 

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La stilografica Aurora in un manifesto di Achille Mauzan, 1921.

 

Non ho mai letto Toynbee e confesso di aver dato una semplice occhiata al suo profilo wikipedico, curioso di capire da quale sponda filosofica o sociologica arrivasse il suo malcontento. L’impronta religiosa dei suoi scritti sulla nascita e il declino delle civiltà farebbe escludere una sua simpatia per il marxismo, il pensiero anarchico o altre forme di critica radicale al sistema. Posso sbagliarmi sul suo conto, lo so; ma non importa. Perché ciò che ci interessa, almeno nei limiti di questi appunti, è un altro tema: vedere a quali condizioni e con quali argomenti si può – o si deve – criticare la pubblicità senza entrare in contraddizione con sé stessi. Più in generale, vorremmo misurare – attraverso le critiche più solide e coerenti alla pubblicità e al sistema che ne fa uso – lo spessore e le eventuali conseguenze di nuove o rinnovate ideologie che si vanno formando dopo il declino quasi universale del comunismo.

Premessa necessaria: per i motivi ai quali abbiamo già alluso in partenza (la comunicazione commerciale come fenomeno inscindibile dal tipo di economia che la utilizza) sarebbe sterile riferirsi alla pubblicità nella sola accezione di advertising, cioè di quell’insieme di messaggi costruiti ad hoc per il raggiungimento di obiettivi temporanei. Parliamo invece di pubblicità in tutte le sue manifestazioni, inclusa l’architettura di edifici di rappresentanza e altre opere realizzate a scopo persuasivo. Se separiamo la Nutella dalla torre Eiffel, dall’imponenza dei palazzi aziendali e dalla Cappella Sistina perdiamo di vista il paesaggio generale, la scena in cui la civiltà della produzione (di merci, di miti, di credenze) si è andata esprimendo nei secoli o millenni fino a portarci al punto in cui siamo. L’oggetto delle critiche più feroci (e strutturate con maggiore coerenza ideologica) al sistema, da Adorno ai no global, non è la réclame di turno ma l’insieme che la comprende.

 

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1946, manifesto ufficiale della Fiera campionaria di Milano. Studio Crix.

 

Era inevitabile che Adorno e Horkheimer vedessero nella pubblicità il mostro dei mostri: «La pubblicità rappresenta, oggi, un principio negativo, uno strumento di esclusione, un congegno di sbarramento: tutto ciò che non reca il suo marchio è economicamente sospetto. Dal momento che, sotto la pressione del sistema, ogni prodotto adopera la tecnica pubblicitaria, questa è penetrata trionfalmente nell’idioma, nello “stile” dell’industria culturale. La sua vittoria è così completa che essa, nei punti decisivi, non ha più nemmeno bisogno di diventare esplicita: i palazzi monumentali dei giganti, pubblicità pietrificata sotto la luce dei riflettori, sono privi di réclame, e tutt’al più si limitano a esporre, sui merli delle loro torri, fulgide e lapidarie, senza bisogno di elogi o di autoincensamenti superflui, le iniziali della ditta.»[2] Su una parte del discorso non si può non convenire: è vero, e in tal senso i due filosofi sono stati addirittura profetici, che le logiche pubblicitarie hanno stravinto su tutta la linea. Ma prendersela con l’architettura delle sedi aziendali è un pensiero da talebani. Come sparare sulle statue di Buddha o buttar giù la basilica di San Pietro: perché anche quella non scherza in fatto di propaganda.

 

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Coppertone divenne una marca famosa in America e altrove con questa immagine del 1953. Il disegno originale andò perduto in un incendio nel 1959.  Fu poi ricreato da Joyce Ballantyne, vincitrice di un concorso internazionale per illustratori, che usò come modella la figlia Cheri. Anni dopo, Jodie Foster esordì a tre anni impersonando la bambina negli spot televisivi. In tempi più recenti l’immagine della piccola con il costume abbassato ha suscitato perplessità, grazie alla nuova sensibilità sociale relativa alla pedofilia: ora il risultato dell’azione del cagnolino è appena accennato. 

 

Coppertone sulle macerie

 

Ma prima di procedere coi pensieroni, lasciatemi sfogare un po’ con una digressione personale.

Sono nato durante la seconda guerra mondiale e sono cresciuto fino all’età adulta nell’indigenza, come molti dei miei coetanei e conterranei. Che cos’era la pubblicità, ai miei occhi, nei primi anni del dopoguerra? I manifesti dei film, prima di tutto. Ricordo specialmente un muro di Foggia, davanti alla casa dei nonni. Quartiere popolare nel centro storico, a due passi dal mercato e dal bordello. Starring Rita Hayworth, Humphrey Bogart, James Stewart. Per me quel muro era più magnetico di un ottovolante.

E poi, a passeggio qua e là, pochi cartelloni e murales che erano il Louvre dei poveri. Brill e Marga, lucidi per le scarpe. Marche per eccellenza in un mondo quasi del tutto unbranded. La domenica, borghesi e proletari calzavano tutti scarpe lucidate a specchio. Ma c’era anche il cagnolino sulla spiaggia, che inseguiva la bambina e con un morso quasi le sfilava le mutandine da bagno: per mostrare la differenza tra la carne abbronzata e quella rimasta in bianco. C’era solo una scritta: Coppertone. La parola rimase per anni un mistero assoluto per me e molti altri. «Zia, che vuol dire Coppertone?» «Non lo saccio.»

 

Manifesto Marga

Il lucido per scarpe Marga, immesso sul mercato nel 1919 da un’azienda svizzera (Sutter) stabilitasi in Liguria nel 1910, fu largamente pubblicizzato fino agli anni cinquanta del secolo scorso, decade cui questo manifesto appartiene.

 

Sfogliare riviste era come lavarsi i denti dalla mattina alla sera. Binaca. Chlorodont. Gran scuola di igiene dentaria, le riviste. Giusto: in casa ti lucidavi i denti, e prima di uscire ti guardavi le scarpe per vedere se brillavano come il tuo sorriso Durban’s.

Questo era la pubblicità dopo la guerra e prima della grande ripresa. Dal bang al boom. Coppertone sulle macerie, università di igiene personale prima di fare il salto nel benessere. Se mi fosse capitato a Foggia di incontrare Vance Packard[3], lo avrei strozzato con le mie mani. Anche se nel 1957 non sapevo chi diavolo fosse, né cosa fosse l’advertising. Sapevo solo che la pubblicità era la cosa più bella che ci fosse da guardare lì, perché la città era stata quasi completamente rasa al suolo, come Dresda e Norimberga. Foggia era uno snodo ferroviario strategico, di quelli che attirano le bombe come la carta moschicida attira le mosche. A proposito: anche agli insetti molesti era stata dichiarata una guerra senza quartiere. C’era dappertutto la pubblicità del DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), flit per gli amici. Ancora una volta la scuola d’igiene: in Sardegna, col flit avevano debellato la malaria, nel 1939.

 

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Foto sopra: Spruzzatore-vaporizzatore a pompa per lo spargimento di flit (DDT), anni cinquanta. Il cilindro in latta litografata, contenitore ricaricabile dell’insetticida liquido, recava a un’estremità l’ugello d’uscita e all’altra uno stantuffo da azionare a mano per comprimere e spingere il prodotto. Il DDT è stato poi messo al bando per sospetta cancerosità. Sotto: Diciture murali che segnalavano lo spargimento di DDT, con relative date, risalenti agli anni ’50 del ventesimo secolo, visibili sulla parete esterna di un’abitazione nel centro storico di Bosa, in Sardegna.

 

Anche la pubblicità era una bomba: decorativa e, soprattutto, istruttiva. In città ce n’era di più che nei paesi di provincia, ed è forse anche – o soprattutto – per questo che i suburbani sentivano un gran desiderio di tuffarsi nella grande città, di tanto in tanto. La Fiera del Levante, a Bari, attirava moltitudini pazze di gioia. Come si fa a parlare genericamente di pubblicità (ma anche di economia e politica) senza aver vissuto – o almeno studiato – la differenza tra un prima e un dopo

In quegli anni non aveva alcun senso, almeno in Italia, discettare sulla qualità specifica di questo o quel messaggio. Tutta la pubblicità era buona, per il solo fatto di esserci. Ci raccontava, a modo suo, cosa bisogna fare per vivere un po’ meglio. Uscivano prodotti mai visti prima: utili, ed era utile sapere della loro esistenza e funzione. Venne la Triplex con le bombole di Liquigas, e smettemmo di affumicare le cucine. Importammo il Brylcreem per andare a ballare la domenica con i capelli ancora più lucenti delle scarpe. Si videro in giro la Lambretta, la Vespa, la Seicento. Gli abiti preconfezionati. In casa il frigo, la lavatrice. La televisione. Quanto eravamo preparati a tutto questo? La pubblicità faceva da intermediaria tra noi e il futuro: cominciò a intensificare la sua presenza, diventò il manuale d’istruzioni e il maquillage della nuova era. Era il volto allegro della povertà: il sogno della riscossa.

 

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La brillantina, una crema a base di cera vergine e oli minerali, serviva a fissare le acconciature e a creare riflessi nei capelli. Influì sul look maschile dagli anni venti ai cinquanta del Novecento, incollando pettinature come quelle di Rodolfo Valentino ed Elvis Presley. Ispirò anche Grease, musical di grande successo in teatro (1971) e sullo schermo (1978). 

 

Non che fosse una novità, si capisce. Tra la rivoluzione industriale e lo scoppio della seconda guerra mondiale c’era stata la fase artistica del cartellonismo, con il suo proficuo scambio di contributi fra avanguardie e réclame. Tutto ben documentato nei libri, in rete e nell’immaginario collettivo. Sebbene remoto, quel periodo – da Chéret a Cappiello, da Dudovich al primo Munari, passando per le vie e le follie del Futurismo – è più conosciuto di quello successivo, meno aristocratico, meno memorabile, alla buona ma più denso di novità, che corre dal 1945 al 1960.

 

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Sepo (Severo Pozzati), manifesto per il panettone Motta, 1934.

 

Nostalgia?

Balle. Che nostalgia si potrebbe mai provare per le toppe al culo, le case diroccate, l’endemica carenza di soldi, i giocattoli mai posseduti, i nuovi oggetti che in qualche caso si potevano comprare ma solo indebitandosi, le ragazze a cui non potevi offrire neanche un gelato?

Non parlo di me per parlare di me, ma di cosa ho visto. Ho visto un mondo che aveva bisogno di pubblicità perché non aveva altro. Ne aveva bisogno come di un arredo, di una fantasia e di una speranza. Se passate attraverso uno sperduto villaggio africano e vedete un elementare invito alla Coca-Cola, tracciato a mano sul muro di una catapecchia con il tetto in lamiera, sembra un segno di energia e di cambiamento anche se avete speso la vita a lamentarvi, giustamente, delle multinazionali e del loro cinismo.

Solo o soprattutto con Bernbach si comincia ad aver coscienza che la pubblicità è uscita dalla fase dell’indistinto e merita di essere classificata in correnti. L’advertising diventa una disciplina matura, soggetta a segmentazioni ideologiche che scavalcano il puro pragmatismo per misurarsi con questioni etiche ed estetiche su cui prima si poteva in parte sorvolare.

Non a caso la rivoluzione di Bernbach coincide cronologicamente con la proliferazione delle merci, degli investimenti pubblicitari e della disponibilità al consumo. Il panorama è visibilmente cambiato. E se è cambiato negli USA, figuriamoci in Europa: dove, tra un decennio (1950) e l’altro (1960), il cambio di scena è stato davvero teatrale. In Italia, via dai campi di grano per trasferirsi nelle fabbriche della metropoli. Sofferenze urbane e panettone Motta per tutti. E le quattro ruote seguono a ruota. I bambini, che prima occupavano in massa gli spazi esterni (anche per evadere da alloggi angusti in cui si stava in troppi), spariscono a poco a poco dalle strade perché il traffico degli automezzi è aumentato a dismisura. E poi arriva Carosello che li richiama all’ordine: stop all’anarchia tra cena e mezzanotte.

Fra l’era di Cappiello e quella di Vodafone c’è un secolo di differenza che vale per due. È come se il clown del Bitter Campari, evaso dalla sua gabbia di buccia d’arancia, si fosse gonfiato come la mostruosa creatura di Alien, per ingoiare tutta la città e possibilmente il pianeta. Il mondo divorato dalla pubblicità non lascia spazio a null’altro che non sia commerciabile. Di nuovo è la quantità a dominare: prima per difetto, ora per eccesso. In un ambiente in cui la pubblicità è solo parte dello scenario, l’immaginazione è libera di varcare qualsiasi soglia, persino quella della miseria, per crearsi comunque uno spazio. Laddove l’ambiente è la pubblicità, e s’identifica con essa in qualsiasi luogo e circostanza (ho appena mandato a quel paese un tizio che cercava di spacciarmi qualcosa al telefono), si ha l’impressione di una perdita di libertà, di una distrazione continua da una varietà di valori che esulano dalla pura sfera mercantile.

Questo discorso non ha nulla a che fare con la “persuasione occulta” di packardiana memoria. Non sarà né Vodafone né Esselunga a fare di me un apocalittico. Registro soltanto la coincidenza di certi fenomeni. Ad ogni incremento quantitativo della pubblicità sembra corrispondere, per esempio, un ulteriore svuotamento della politica e, conseguentemente, della fiducia in essa. Corruzione e sprechi, sempre di più all’ordine del giorno, fanno parte di una visione ultracommerciale dell’esistenza. Ma anche la critica alla corruzione e agli sprechi – che infervora l’italiano medio assai più di quanto non facciano i missili sulla striscia di Gaza – è figlia, seppure incolpevole, della stessa visione.

L’alien pubblicitario (ma anche propagandistico, da Berlusconi in poi) è diventato talmente ipertrofico, insistente e pervasivo da modificare, in noi, la concezione dell’orrore assoluto. Si dice che le ideologie d’una volta (capitalismo e socialismo) siano crollate con la fine della guerra fredda, ma è vero solo in parte: sono state vigorosamente rimosse da chi aveva interesse a rimuoverle, per lasciare col culo a terra chiunque serbasse ancora nel cervello qualche traccia di idealismo. L’orrore assoluto – che per la destra era il comunismo e per la sinistra il capitalismo più sfrenato – è diventato qualcosa di meno grandioso: per taluni il Fisco, per altri l’Immigrato, per Tizio lo Stipendio del Manager, per Caio l’Euro. Argomenti di indiscutibile serietà, ci mancherebbe: ma che fine hanno fatto tutti quegli altri topic, non necessariamente e direttamente economici, di cui tanto si discuteva ai tempi delle ideologie?

Non c’è niente da guadagnare soffrendo per Gaza o per l’Ucraina o per l’Afghanistan o per lo sfascio ambientale, o sbattendosi per inventare qualche nuova pezza diplomatica da applicare sulle ferite del mondo. Eppure è dai mali più gravi che bisognerebbe forse partire per individuare terapie utili alla soluzione dei problemi più familiari. A tirare in ballo le ideologie si passa ormai per apocalittici (quando non per affetti da alzheimer), mentre sono proprio le impostazioni propriamente ideologiche a darci la misura delle avversità e a stimolare qualche compromesso utile (ebbene sì, sono un inguaribile integrato, a volte mi piace anche il kitsch).

La pubblicità ha un ruolo sulle cose che non vanno? No, ma le cose che non vanno hanno un ruolo – deleterio – sulla pubblicità. Che si adegua, per pochezza e tono di voce, al bla bla subpolitico nel quale siamo immersi. E lo riflette alla perfezione, traducendolo in un oceano di stonature assordanti. Chi ha il potere di cambiare qualcosa sembra aver perso la benefica prospettiva dell’orrore assoluto. Per un certo periodo, l’orrore assoluto si identificò con la bomba H, che aveva di buono il potere di spaventare tutti: destri e sinistri. Io la considero tuttora un simbolo insuperabile: perché non c’è niente di peggio che la guerra, col suo carico di morti, violenze e devastazione; e prevenire qualsiasi deriva che conduca – direttamente o indirettamente, oggi o fra trent’anni – a un simile sfascio dovrebbe essere l’imperativo categorico di una autentica democrazia.

 

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Immagini dalla mostra Arts & Foods al palazzo della Triennale di Milano durante l’Expo 2015. Dall’alto: logo Martini (1928) di Nicolaj Diulgheroff, architetto e designer futurista bulgaro, e manifesti Campari di Leonetto Cappiello (1921) e Marcello Nizzoli (1926); un vecchio frigorifero della Kelvinator (1950 circa), industria pioniera della refrigerazione elettrodomestica; erogatori e altri materiali del merchandising Coca-Cola; una casa fatta di pane, opera dell’artista svizzero Urs Fischer (2004-2006).

 

 

Un Adorno sul comodino

Quando, nel 1964, Umberto Eco pubblicò Apocalittici e integrati, sembrò che la prima categoria evocata dal titolo del libro stesse per cedere definitivamente il posto alla seconda[4]. Al centro della ricerca di Eco c’era quel complesso sistema di fenomeni che definiamo “industria culturale” con il suo corredo di teorie e reazioni, svarianti dal rifiuto più sprezzante (Adorno docet) all’accondiscendenza acritica e passiva. Gli anni sessanta, quelli del libro, furono in parte segnati da una tale spinta all’apertura, alla scoperta, alla rimozione dei divieti e delle disuguaglianze di classe (il Sessantotto era alle porte, ma il meglio del Sessantotto era forse già successo tra il 1960 e il 1967), che fu naturale mettere in discussione le tradizionali barriere tra cultura “alta” e “bassa” ed elevare i Beatles e il fumetto, tanto per citare due esempi a caso, tra le espressioni culturali degne di attenzione e rispetto. La cultura, insomma, non più intesa come appannaggio esclusivo di un’élite intellettuale e borghese, con la puzza sotto il naso, determinata a mantenere intatta la sua egemonia; ma come risorsa trasversale e democratica, aperta all’integrazione di altre forme, anche popolari, di invenzione. La pop art, con il suo paradossale mix di ironie incrociate (la zuppa Campbell e l’Ultima cena di Leonardo allineate con la stessa evidenza nel supermarket interiore di ciascuno di noi), sancì nel modo più emblematico la svolta mentale, sociale ed estetica che andava prendendo corpo nel Nordamerica e in Europa. Fu ed è tuttora troppo facile stigmatizzare tutto questo, e altro ancora, come «funzionale al sistema»: tre parole che costituiscono – da Adorno a Casaleggio – lo slogan di protesta perfetto per tutte le stagioni, ma che diventa sterile quando chi lo pronuncia non ha, in definitiva, nessuna alternativa da opporre allo scenario vigente se non un arcadico ritorno alla natura. Non credo che si possa cambiare il mondo a colpi di musica dodecafonica (niente equivoci, per favore: adoro Schönberg, Berg e Webern); né che lo si possa migliorare con Beppe Grillo. Nessun “sistema” è abbattibile in quanto tale, a meno che qualcuno non stia idealizzando la possibilità di un genocidio di proporzioni planetarie. Le singole malefatte del sistema vanno identificate con precisione e colpite una per una con gli strumenti e gli antidoti che la stessa civiltà ha saputo escogitare: se non si fa così, si rischia di assortire bersagli talmente eterogenei da generare un caos senza ritorno.

Si può essere rivoluzionari e integrati allo stesso tempo? Parrebbe di no, almeno a prima vista. Ma non furono anche questo, almeno inizialmente, gli anni sessanta? La protesta contro la guerra nel Vietnam era, sì, contro il “sistema”; ma sarebbe arbitrario dedurne che quei milioni di manifestanti desiderassero, tutti o in larga maggioranza, rinunciare al frigorifero e accasarsi in una comune hippy. Eppure la critica sociale più severa sta tornando in auge a grandi passi e non risparmia nulla e nessuno: l’uomo è un pupazzo tra le mani di chi lo governa, il potere economico non è altro che una cospirazione ben riuscita contro l’umanità, tutto ciò che desideriamo o facciamo è funzionale a progetti di profitto orditi altrove. Ti piace un film? Non importa che sia di Vanzina o di Haneke: serve a tenerti buono, a distrarti, ad annientarti. Leggi i fumetti? Ti hanno rimbambito del tutto. L’industria culturale è l’arma – per l’appunto industriale – messa a punto per farti un costante lavaggio del cervello e alienarti.

Pure se talvolta inconfutabili, le analisi “apocalittiche” non servono a spostare di un solo millimetro la condizione umana. Il perché ce lo fanno intuire, tra le righe, esse stesse: non c’è cultura o controcultura che possa seriamente considerarsi non illusoria. La forza del sistema sta nella sua capacità di assorbire persino il dissenso, farne spettacolo, oggetto di consumo.

Gli apocalittici hanno ripreso in pieno il sopravvento sugli integrati. E questa volta sul piano globale. I fondamentalismi religiosi e politici, le intolleranze, i verdetti di condanna totale sono la cifra attuale della storia. Non che Adorno approverebbe tutto questo: anzi. Solo che, a livello puramente psicologico, il rifiuto assoluto della concessione, del compromesso, della negoziazione è il tratto distintivo dei “duri”. Il mondo in cui viviamo si è indurito come alla vigilia dei grandi conflitti mondiali. Spiace dirlo di un intellettuale del suo calibro: ma l’adornismo non è meno “funzionale al sistema” di qualsiasi film di Walt Disney. Un Adorno sul comodino, da leggere prima di prender sonno come si legge un brano del Vangelo o una favola dei fratelli Grimm, ci fa sentire intelligenti e radicali quanto basta, il che – tutto sommato – è alquanto confortevole. Buonanotte e sogni d’oro.

Ma persino il pensiero di Adorno è stato superato e si è estremizzato nel suo stesso ambito teoretico. Si prenda un pensatore di oggi come John Zerzan, per esempio. In comune con Adorno, Zerzan ha il principio di base: il conflitto tra natura e cultura e la presunta superiorità della prima sulla seconda. Zerzan non concede nulla alla civilizzazione: la considera la madre di tutte le sciagure ed auspica un futuro primitivo, mondato da ogni tentazione di scambio commerciale, di organizzazione del lavoro, di alfabetizzazione, di tecnologia: tutto ciò produce alienazione, reificazione, violenza. La cultura ha corrotto l’umanità sostituendo alla realtà naturale una finta realtà fondata sui simboli. La profondità di tale corruzione ha fatto sì che l’uomo delle caverne si indebolisse anche fisicamente fino a perdere quasi del tutto le capacità sensoriali e il legame originale con l’ambiente. La tesi non farebbe una grinza se l’idealizzazione della natura, la cui superiorità è data per assiomatica, non fosse di per sé stessa un portato culturale (un’eco dell’Arcadia e di Rousseau, di Thoreau e dello stesso Adorno). Che l’enfant sauvage vivesse più a suo agio di Harry Potter è un teorema tutto da dimostrare. Non credo che il capriolo sia poi così tanto felice di farsi inseguire e azzannare dal leone. Così come non credo che la facoltà umana (o addirittura zoologica e fors’anche vegetale) di modificare l’ambiente per risolvere un problema a proprio favore – e quindi produrre cultura – sia una scandalosa deviazione dal corso naturale delle cose: se un antenato preistorico pensò di aguzzare una pietra per procurarsi un utensile più adatto ai suoi bisogni vuol dire che la natura lo aveva dotato di un talento inestimabile, quello di creare effetti speciali anziché continuare a subirli passivamente dal cielo, dalle stagioni e dal caso.

Le idee di John Zerzan sono estreme al massimo grado (egli considera «reazionario» Noam Chomsky perché «la sua critica è rivolta alle politiche di governo, non al governo in sé»)[5] ma, per quanto possano suonare stupefacenti alle orecchie di una generazione cresciuta in anni di precipitosa accelerazione tecnologica (quella che il maître-à-penser statunitense vede come forma di depravazione assoluta), non passano affatto inascoltate. Da una costola di Zerzan nascono movimenti e fenomeni di protesta rivoluzionaria e terminale, tra cui le scorribande dei black bloc. Il filosofo non nasconde le sue simpatie per Theodore Kaczynski, il matematico terrorista di Chicago noto come Unabomber (nessuna relazione con l’altro Unabomber, criminale italiano mai identificato): inviava pacchi postali esplosivi in segno di protesta contro il progresso tecnologico. Che quelle azioni avessero procurato la morte di tre persone e il ferimento di altre ventitré è un danno collaterale inaccettabile, sostiene prudentemente Zerzan; ma le motivazioni di Unabomber erano più che condivisibili, anzi peccavano per difetto, perché «l’eliminazione dell’industrialismo, da sola, non sarebbe sufficiente per ritornare a un modo di vivere autonomo e privo di condizionamenti. [...] È la civiltà stessa che deve scomparire per arrivare dove vuole Unabomber. In altre parole, fu con la Rivoluzione Agricola, più che con la Rivoluzione Industriale, che l’umanità sbagliò strada.»[6]

Che la civilizzazione abbia condotto la specie umana a forme parossistiche di sopraffazione e autodistruzione è vero, ahinoi; ma che abitare sugli alberi e vivere in simbiosi con l’innocenza delle felci sarebbe stato assai preferibile, è un concetto di matrice puramente culturale.

 

Il paradosso finale

Ho girato intorno al tema che sta a cuore ai lettori di questa rivista – «un’idea di pubblicità» – e me ne sono discostato alquanto, applicandomi a qualche riflessione su alcuni degli argomenti usati dai critici più severi, illustri e non, di ieri e di oggi. Ne ho ricavato, a beneficio di chi opera nel marketing e nell’advertising, una constatazione paradossale: sputare in blocco sulla pubblicità, senza fare distinzioni di contenuto o anche semplicemente estetiche, aiuta a peggiorarla nel suo insieme. Anche tollerarla con snobismo come si tollera un male necessario, considerarla una risorsa utile ma secondaria e capricciosa, comunque indegna di approfondimenti e di studio, aiuta a peggiorarla nel suo insieme.

Sono appena tornato da un viaggio a Londra, dopo anni di assenza. Anche se non ho visto, sui muri, i memorabili exploit d’una volta – ricordo i manifesti straordinari di Benson & Hedges, di Heineken, dell’Economist – riconfermo la mia impressione di sempre: le affissioni fanno di quella città, soprattutto nelle stazioni della metropolitana, una specie di elegante pinacoteca. Non tutto ciò che si vede è degno di nota, naturalmente; ma l’effetto d’insieme è così civile da costituire un arredo urbano più che decoroso, mentre altrove – Italia e Grecia, tanto per non sbagliare – la pubblicità esterna (comprese le insegne di bar, pizzerie e negozi) tende a sfregiare e sfigurare l’ambiente anziché a farselo alleato. Succede che a Londra i migliori esempi di comunicazione gettano una luce rispettabile su tutta la pubblicità, anche la più banale; mentre da noi avviene il contrario: la maggior parte dei manifesti è così raffazzonata da sputtanare anche l’opera d’arte che sfortunatamente finisse incollata tra una promozione 3x2 e quella di un salone da fitness.

Nel Regno Unito le istituzioni tengono in alta considerazione l’opportunità di dialogare col cittadino attraverso gli spazi disponibili e gli strumenti tipici dell’advertising. L’underground trabocca di riproduzioni di opere d’arte per promuovere la visita – gratuita per tutti, tranne che per le esposizioni temporanee – della National Gallery, della Tate Britain, della Tate Modern, del Victoria and Albert e altri musei. Il passeggero è continuamente sollecitato, anche a bordo dei treni, da messaggi informativi ed educativi del sistema Transport for London, spesso firmati dal Mayor, il sindaco. Tutti i messaggi – spesso anche di scuse in caso di lavori in corso o altri disagi – cercano l’effetto interattivo, esortando il passeggero a dire la sua attraverso i siti web istituzionali. Ci sono inviti ed istruzioni precise su come soccorrere altri viaggiatori in caso di malore. Per visualizzare una di queste campagne educational è stato reclutato uno street artist molto amato dai teenager. E a proposito di artisti di strada, specialmente musicisti: il Mayor of London non solo non li considera mendicanti o importuni, ma invita i cittadini a prestargli attenzione e ascolto, come si deduce da appositi avvisi neltube.

La comunicazione, insomma, come strumento pregiato di mediazione tra l’utopia della città ideale («The Mayor wants London to be the “best big city in the world”», si legge in uno dei siti ufficiali della municipalità) e la collaborazione collettiva. Il versante “sociale” della pubblicità è così onnipresente e curato da influire positivamente anche sull’advertising commerciale. Si possono criticare ad libitum la storia e le colpe della civilizzazione, ma una pubblicità concepita come dialogo, servizio, valore, ricchezza di idee e contenuti può contribuire a rendere un po’ più vivibile un mondo già gravato da troppi altri problemi.

 

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[1] In Printer’s Ink, 1962; in it. vedi “Bernbach vs Toynbee” in Bernbach pubblicitario umanista, a cura di Giuseppe Mazza, Milano: Franco Angeli, 2014.

[2] Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialektik der Aufklärung. 1947; ed. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino: Einaudi, 1966.

[3] Il citatissimo autore de I persuasori occulti, pamphlet contro l’advertising del 1957 (ed. it: Torino: Einaudi, 1958).

[4] Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, 1964.

[5] J. Zerzan, da un articolo del 1997 ripreso nella raccolta Running on Emptiness. The Failure of Symbolic Thought, ed. it. Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo, Roma: Arcana/Vivalibri, 2007.

[6] Da un articolo del 1995 ripreso nella stessa raccolta della nota precedente.

 

(Questo articolo è uscito sul n. 12 della rivista Bill – Un’idea di pubblicità, nel dicembre 2014).

 

Tratto da

Dixit Café

 

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Pasquale Barbella
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