Pratiche considerazioni intorno all'abuso del corpo femminile nella pubblicità italiana.
Con ininterrotta frequenza escono campagne pubblicitarie talmente offensive per la dignità della donna da suscitare scalpore sulla stampa e sui social network. La novità non sta nelle réclame incriminate, ma nello scalpore. Credo sia un buon segno.
Alle appassionate discussioni di carattere etico vorrei aggiungere qualche considerazione pratica, sperando possa risultare utile ai pubblicitari misogini e alla committenza irresponsabile. Disegnare per un manifesto una silhouette anatomica femminile con una coppa di vino bianco tra le cosce, e scrivere a caratteri cubitali «Degustala! Passera delle Vigne Lepore», non è solo incivile ma anche indizio sicuro di dilettantismo professionale. Altrettanto dicasi per l’adescatrice discinta e lascivissima, in posizione supina con gambe sollevate e mani sui seni, che supplica «Prendimi per le prestazioni»; prestazioni che sarebbero quelle di una marca di benne impiegate nella demolizione di edifici e altri manufatti ingombranti. Similmente, i pensatori di «Fidati... Te la do gratis» (la montatura degli occhiali, n.d.r.) non potranno mai aspirare ai piani alti del professionismo; non tanto per questioni di censura (si deve sempre sperare nel pentimento e nel ravvedimento del prossimo, anche il più cialtrone), quanto per aver dimostrato in modo inequivocabile la propria estraneità culturale al mondo del lavoro qualificato.
Naturalmente, se io fossi – per assurdo – l’autore di «Noi ve la diamo anche a noleggio» (coppia di babbonatalesse in bikini per l’autonoleggio di autoveicoli), o di «Abbiamo le poppe più famose d’Italia» (compagnia di navigazione), e leggessi le critiche rivolte ai miei capolavori, reagirei in due modi: 1. Scoppierei di felicità per aver raggiunto l’obiettivo di far parlare di me; 2. Accuserei i critici di essere bacchettoni.
Il primo obiettivo è un coltello a due lame: se ho fatto qualcosa di buono, la cassa di risonanza giocherà a mio favore; se ho fatto una cazzata, la cassa di risonanza mi piomberà sul cranio e me lo sfonderà. Magari quelli della Passera venderanno qualche bottiglia in più (se ci sono cervelli da latrina che producono manifesti di quel tipo, non si può escludere che ci siano cervelli da latrina anche tra i consumatori); ma sicuramente saranno puniti dal loro stesso mercato, perché non ce la vedo una Saatchi & Saatchi o una Young & Rubicam pronta ad assumere i detriti del fai-da-te pubblicitario.
Invece di inquinare il mio blog con pubblicità scollacciate, preferisco dare spazio a un ritratto di Alice Munro, Nobel per la Letteratura 2013. (La foto di apertura è stata scelta dalla redazione di Vorrei, Ndr)
Accusare i critici di bacchettonismo fa parte del repertorio della perversione: l’analfabetismo etico è una forma di ignoranza – e di schiavitù – come un’altra. L’autore di «Festa della patata» special prices, con tanto di testimonial VIP (Rocco Siffredi), non è né un poète maudit né un emulo di Duchamp; è solo un poveraccio con la patata in testa, o con la testa di patata, e la sua presunta “creatività” non è un gesto di trasgressione culturale ma di totale subalternità alla letteratura delle antiche barzellette da caserma.
Il bacchettonismo censura ad occhi chiusi qualsiasi sconfinamento, vero o presunto, dal perbenismo parrocchiale; l’avvedutezza etica è altra cosa, perché sa discernere la provocazione intelligente dalle battute alla Christian De Sica. La provocazione intelligente è quella che, rompendo talune regole, stimola e favorisce qualche forma di evoluzione. La battuta da bordello è invece sempre e soltanto conservatrice: appartiene al passato e, del passato, apprezza soprattutto le forme più rozze, sorpassate, perdenti.
Può darsi, in rari e coltissimi casi, che persino la pubblicità possa concedersi il lusso di farsi provocatoria e sregolata in modo stimolante e progressista; ma è più facile che tale miracolo si compia in letteratura o nell’esercizio delle arti. Oscar Wilde e Baudelaire, per citare due nomi a caso, hanno subìto censure (di tipo evidentemente ipocrita e bigotto, nella fattispecie) ma, così facendo, hanno promosso l’evoluzione del pensiero e della letteratura a un rango superiore. Non credo che i poppisti, i patatisti e i passeristi possano mai elevarsi al livello di un Wilde o di un Baudelaire; essi cospirano anzi contro il sentimento civile, l’aggiornamento sociale e il progresso tout court. Oltre a manifestare una concreta quanto sospetta esuberanza misogina, equivalente a latenti ma devastanti psicopatologie, colpiscono al cuore l’essenza stessa della formazione e della competenza richieste dal mestiere che, incautamente e abusivamente, si permettono di svolgere. Barzellettai da strapazzo, essi possono contare sul solo consenso dei propri simili, condividendo con loro il culto di un’estetica miserabile svariante dal peto alla boutade trogloditica.
Essi invocano talvolta la libertà di espressione come un diritto inalienabile, interclassista e interculturale, senza rendersi conto di parodiare, con le loro cafonesche incursioni mediatiche, proprio i valori ai quali, in modo impudente, osano appellarsi. «Montami a costo zero», con la modella seminuda nella postura di pecora in calore sopra un pannello fotovoltaico, appartiene a una categoria di espressione la cui libertà non mi commuove affatto. Ben vengano, dunque, l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e i codici deontologici delle associazioni a stigmatizzare e colpire queste deviazioni della comunicazione di massa. Non lo dico da censore, ma da ex pubblicitario disturbato dall’insolenza e dall’autolesionismo morale di colleghi improvvisati: ladri di lavoro, pronti a vendere la mamma al diavolo per una battuta idiota e i trenta denari estorti a ditte compiacenti, con ciò sputtanando la serietà e la fatica di molti. Succede che tanti giornalisti, personaggi pubblici, mobilitatori di opinione confondano i pubblicitari della passera con i pubblicitari in generale: come l’oscuro tumore di una cellula, slogan come «L’unica pelliccia che non mi vergogno di indossare», applicati al pelo pubico femminile, scatenano metastasi in tutto il corpus della comunicazione commerciale, senza distinzioni, perché l’opinione pubblica non sta tanto a sottilizzare e tende a fare di tutt’erba un fascio.
E dal fascio al fascismo il passo è veramente un passetto. La recrudescenza del passerismo promosso a filosofia commerciale è sintomo di distorsione ideologica, prima ancora che pubblicitaria. Il celodurismo di Bossi, l’ostentazione insistita del dito medio, la poetica del bunga-bunga, il marketing delle veline approdate alle istituzioni sono tutti fenomeni che sembrano concause della deriva patatistica e siffredistica di certe réclame. Niente di nuovo, dicevo, ma ciò che era già inaccettabile mezzo secolo fa oggi è semplicemente criminoso, perché un’evoluzione nel frattempo c’è stata – nonostante tutto – e abbarbicarsi alle oscenità più remote è tragico quanto ingiustificabile.
So che non è chic autocitarsi, e chiedo scusa se lo faccio addirittura due volte. Ripubblico un mio commento del 1977 da La donna-oggetto in pubblicità,[1] già riesumato per un articolo su La Rivista che Vorrei[2] il 2 marzo 2011. Questo doppio salto all’indietro può servire a capire se negli ultimi trentasei anni è cambiato qualcosa nella pubblicità e nel pensiero di chi se ne occupa. Personalmente credo che qualcosa sia cambiato, ma non troppo. La pubblicità è un oceano troppo grande perché l’onda possa essere uguale sempre e dappertutto. E a far l’onda non è solo “il bravo pubblicitario” o l’esperto di marketing illuminato. Nel mare dei mass media ci sguazzano tutti: basta pagare lo spazio. Così, come nella nostra società, a solcare le acque ci sono lucidi idrovolanti e vecchi rimorchiatori arrugginiti, marinai del presente e corsari della filibusta. Ci sono onesti pescatori e spudorati bracconieri. Nell’animo di miliardi di esemplari della nostra specie permangono residui di primitivismo e cavernismo ad onta di qualsiasi progresso e di qualsiasi emancipazione. Non vorrei esagerare col pessimismo, ma temo che tra altri trentasei anni l’homo bungabunga e l’homo sapiens si ritroveranno ancora sulle opposte sponde dell’eterno canale: i primi a berlusconeggiare nella vita e nella comunicazione, i secondi a dolersene e a protestare (peccato che io non ci sarò).
La donna-oggetto in pubblicità, 1977.
Dal capitolo «Solitudine dell’uomo tra gli oggetti»:
Esiste una marcata tendenza a identificare prodotti di varia natura con il corpo femminile. Il sillogismo che sta alla base di simili scelte non fa una piega: “Tutti guardano una bella donna. Il mio prodotto è come una bella donna. Così tutti guarderanno il mio prodotto.”
Questo trucco rudimentale, rifiutato dai pubblicitari più sensibili, nasconde di solito un assoluto vuoto di idee. È la negazione della pubblicità come informazione, il trionfo del déjà-vu e l’apoteosi della battuta da avanspettacolo (esemplare, in proposito, il titolo di un annuncio per cucine: «Sapevo che era focosa, ma non avrei mai pensato di poterla accendere con un dito»).
Le variazioni sul tema non sono infinite. Sono riconducibili a tre schemi principali:
a) la donna presenta il prodotto;
b) la donna è il prodotto;
c) la donna si compra col prodotto.
Ciascuno dei tre schemi può vivere di vita autonoma, o coesistere con gli altri.
Il metodo “a” (la donna presenta il prodotto) è forse il più comune. Naturalmente non rientra in questa categoria la donna che si limita a spiegare, con cognizione di causa, le caratteristiche dell’oggetto in vendita: in tal caso l’operazione sarebbe del tutto legittima, e del resto ci sono un sacco di uomini, nelle inserzioni e negli spot, che presentano prodotti.
No: qui stiamo parlando esclusivamente della donna pin-up, che senza una ragione apparente fa la civetta sul comò, sulla poltrona, oppure (travestita da babbo natale) tra le cassette natalizie della Stock. È messa lì, la svanita, per pura simpatia: per guadagnarsi uno sguardo di benevolenza, per far convergere sul prodotto i favori maschili, per fare una raccomandazione.
Il passo successivo, “b”, è più allarmante: la donna diventa il prodotto. «Chiamami Peroni e sarò la tua birra» è un esempio esplicito di questa sovrapposizione. Il caso è interessante per la polivalenza delle intenzioni in gioco. In «Chiamami Peroni» c’è un magma di equivoci, voluti e non voluti, che attinge ampiamente alla scuola di Ernest Dichter (fondatore, nel 1946, dell’Institute for Motivational Research e autore di The Strategy of Desire: il libro più letto dai pubblicitari) e ai simbolismi motivazionali. C’è innanzitutto l’ambiguità ermafrodita del prodotto che, pur identificandosi nella donna, è simbolo fallico. L’identificazione della birra con la ragazza parte dal colore: sono bionde tutte e due (con un meccanismo simile, la grappa Fior di Vite viene reclamizzata come «La bionda nel sacco»). L’identificazione col fallo parte invece dalla forma della bottiglia e scivola in un’associazione d’idee tra la spumosità lasciva della birra (immaginatevela quando viene versata nel bicchiere da una mano incauta, e trasborda impetuosa oltre l’orlo) e l’eiaculazione. Dulcis in fundo, detto da quella bocca, «Chiamami» diventa la buccia di banana per un irrefrenabile lapsus linguae: vi lascio immaginare quale.
Queste tecniche di comunicazione sono una trascrizione letterale, e spesso arbitraria, di una serie di indagini di tipo freudiano sui significati occulti dei prodotti e della loro forma: l’automobile come estensione della virilità, specialmente quando ha il muso allungato (fallo! fallo!) ed è iperpotente; la saponetta come strumento di autoerotismo; lo stappamento di una bottiglia di spumante come simbolo di orgasmo, e così via. Padre spirituale di questi studi e della loro applicazione fu il già citato professor Dichter, di cui tutti i pubblicitari italiani ricordano una splendida gaffe. Invitato in Italia dalla Democrazia Cristiana per studiare un manifesto che svecchiasse l’immagine del partito e ne celebrasse il ventennale, identificò la DC con una fanciulla in fiore, dolce e primaverile, vagamente botticelliana; e lanciò questa immagine con lo slogan «La Democrazia Cristiana ha vent’anni.» Era un piacevole cocktail di ingredienti “emozionali”: donna, fiori, gioventù. Su questi manifesti si levò la mano sarcastica e beffarda dei soliti ignoti, i quali completarono il messaggio con la frase: «È ora di farle la festa.»
Come si vede, l’anima popolare sa reagire con spontanea efficacia alle piccole manipolazioni dei pubblicitari: grazie al cielo. Vance Packard, nel famoso saggio sui Persuasori occulti, aveva preso smisuratamente sul serio il pericolo dei condizionamenti imposti dalla réclame. In realtà, i singoli episodi pubblicitari non hanno la forza di penetrare in profondità; tutt’al più ricordano una marca invece di un’altra, creano flussi di fiducia o di rifiuto nei confronti di questo o quel prodotto, ma non incidono granché in un sistema ideologico determinato da fenomeni più generali e complessi. La pubblicità si adatta docilmente a modelli di riferimento preesistenti, segue a ruota i movimenti di opinione e le mode, è il capitolo meno attuale nel caotico e immenso viavai di informazioni messo in moto dai mass media.
Ma torniamo, dopo questa digressione, al nostro argomento. Siamo arrivati allo schema “c”: la donna che si compra col prodotto, come un’appendice, come un’offerta speciale. Siamo al massimo dell’overclaim e dell’ingiustizia. Un fabbricante di arredi da salotto mostra, in un annuncio, una malinconica vamp sdraiata in poltrona. La ragazza ricorda un po’ la donna del bandito dei thriller hollywoodiani: e il testo dice: «Bambole che passano su bambole che restano.» Le bambole che passano, se ho capito bene, sarebbero le donne che, una dopo l’altra, se la fanno col boss proprietario della poltrona; e la bambola che resta è, appunto, la poltrona. Senza poltrona, il governo non passa bambole: o poltrona o niente. Il mobile galeotto diventa uno strumento diabolico a disposizione di scapoli impenitenti e intraprendenti; le donne, giocattoli: oggetti, tra i quali il maschio si muove solitario, per comunicare solo con altri maschi e inseguire, all’infinito, i sogni erotici dell’adolescenza.
(Testo scritto nel 2013)
[1] Saggio di Elena Pellegrini con dieci interventi di Pasquale Barbella, Venezia: Marsilio/Blow-Up, 1977.
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