La ricerca “Italia creativa” conferma l'importanza economica delle industrie creative. Ma il senso della cultura è economico? E cosa significa valorizzare il patrimonio culturale?
Ve la ricordate la frase di Tremonti “Con la cultura non si mangia”? Era il 2010, appena sei anni fa, ma sembra essere passata un’eternità. Già perché con la pubblicazione di “Italia creativa” siamo ormai a tre ricerche annuali sull’importante impatto economico delle industrie culturali e creative nel Paese, dopo il “Rapporto” di Federculture e “Io sono cultura” di Symbola, la fondazione per le qualità italiane nota come creatura di Ermete Realacci.
La sostanza delle tre pubblicazioni non si differenzia moltissimo: si fotografa lo stato dell’arte, sottolineando il grande rilievo che il settore ha per il Pil e l’occupazione.
Sono materiali molto utili, per capire innanzitutto di cosa parliamo quando parliamo di industrie creative (11 settori: Videogiochi, Architettura, Arti performative, Arti visive, Cinema, Libri, Musica, Pubblicità, Quotidiani e periodici, Radio, Televisione e Home entertainment) ovvero qualcosa di molto più ampio del comparto prettamente artistico a cui forse si associa comunemente il termine “cultura”. In quest’ultima ricerca — curata da Ernst &Young e prodotta da una lunga lista di enti (Siae, Agis, Fieg e molti altri) emergono cifre più o meno già note: 2,9% del Pil come valore economico complessivo nel 2014 (40 miliardi di euro, l’industria automobilistica — per capirci — ne fa 49); 850.000 occupati (più dell’alimentare ma meno dell’alberghiera e ristorazione, rispettivamente 458.000 e 1.245.000).
Insomma, se ancora non fosse chiaro, Tremonti si sbagliava di grosso, molto grosso. Ma perché si moltiplicano le pubblicazioni e gli appuntamenti in cui queste cifre vengono sventolate? Non perché il settore stia vivendo un momento particolarmente florido (un complessivo -3,6% nel biennio 2012-2013, -0,4% nel 2014). E nemmeno perché l’Italia sia una terra particolarmente innovativa. Notoriamente il nostro è un Paese con un grande futuro alle spalle e anche in questo settore non mostra di essere all’avanguardia per capacità di rinnovamento. Però, contrariamente a quanto accade in termini generali, c’è da dire che almeno sul fronte dell’occupazione, con un 3,8% sul totale, la media del settore è superiore a quella europea del 3,3%.
Dati riferiti al 2014 (Da “Italia creativa”)
Una nostra opinione l’abbiamo, confermata sempre più dall’altro versante propagandistico in voga in questi ultimi anni, quello più precisamente riferito ai beni culturali, il patrimonio culturale italiano e in particolar modo alla sua cosiddetta “valorizzazione”.
Come sui due canali di un segnale stereo, su una cassa va la canzoncina “Con la cultura si mangia” e sull’altra va “Valorizziamo il più grande patrimonio culturale del mondo”.
Ad un ascolto ingenuo, non possono che risultare motivetti orecchiabili: facili da mandare a memoria, mettono tutti di buon umore e d’accordo. Ma è davvero tutta rose e fiori questa prospettiva? Proviamo un attimo a mettere qualche puntino sulle i.
Valorizzazione è la parola magica di questi anni. Basato abitualmente su due presupposti, il primo più leggendario che reale (l’Italia che possiede il 40-50-60% dei beni culturali del mondo!) e l’altro spesso tristemente inconfutabile (la burocrazia che soffoca qualsiasi iniziativa), il pensiero valorizzatore promette un futuro in cui l’Italia — grazie ai privati che sono bravi, ovviamente — può guadagnare cifre pazzesche sfruttando questi giacimenti (ricordate l’altra disgraziata frase «la cultura petrolio dell’Italia»). Ma cos’è esattamente questa valorizzazione? Chiediamolo a chi dovrebbe saperne. Leggiamo sul sito del Segretariato regionale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per il Veneto: «La valorizzazione è ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e di conservazione del patrimonio culturale e ad incrementarne la fruizione pubblica, così da trasmettere i valori di cui tale patrimonio è portatore.» Una definizione meravigliosa che trova conferma nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42):
Articolo 1. Principi
[…]
2. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura.
3. Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione.
4. Gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, assicurano la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale.
5. I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione.
6. Le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale indicate ai commi 3, 4 e 5 sono svolte in conformità alla normativa di tutela.
Insomma, sulla carta, la valorizzazione è bellissima: concorre «a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura». Ma allora com’è che di solito, quando si parla di valorizzare ci si riferisce soprattutto a far rendere, a guadagnare economicamente invece che culturalmente?
Guadagnare dalla cultura non è sbagliato, affatto. Sovvertire il senso delle cose lo è. Il senso della valorizzazione dovrebbe essere elevare il bagaglio culturale dei cittadini, non aumentare la redditività. Se si invertono le priorità (che è quello che interessa principalmente al cosiddetto privato, perché esso vuole prima di tutto — esclusivamente? — guadagnare) veniamo meno al nostro ruolo di persone, cittadini, esseri umani per divenire subalterni alle ragioni esclusivamente economiche. Come spiega molto chiaramente anche Mauro Felicori (nuovo direttore della Reggia di Caserta, non certo un rompicoglioni alla Montanari) il guadagno, in cultura, non è quello in danaro:
Mauro Felicori, direttore della Reggia di Caserta
(Video tratto da un servizio di Donato Riello su interno18.it)
Se invertiamo le priorità, ponendo quindi come primo obiettivo quello di far rendere quanto più possibile musei e siti culturali, cambiamo anche i parametri: non sarà più la crescita culturale dei cittadini il fine ma lo sbigliettamento. E poi che importa se il visitatore avrà capito o meno, l’importante sarà accalappiarlo (con le medesime strategie di marketing usate per una mortadella), fargli pagare il biglietto, spacciargli qualche “emozione” e farlo tornare a casa “contento”. Speculazione e intrattenimento, insomma. È davvero questa la valorizzazione che vogliamo?
Magari non la vuole nessuno, neppure i più sfrenati sostenitori della privatizzazione della gestione dei beni culturali, ma se svuotiamo di senso la “cultura” il rischio è concreto; se ci limitiamo a parlare solo dell’incapacità dei musei italiani di aprirsi, innovarsi, essere attrattivi, se guardiamo solo ai custodi che dormono sul lavoro, alla mancanza di strumenti interattivi, se — ancora — pensiamo solo alle soprintendenze come a dei feudi di poteri piccoli e grandi guardiamo solo metà del problema. Che c’è ed evidente, ma che non risolveremo mai se ignoriamo l’altra metà o se ci illudiamo che il privato sia la medicina per tutto. Un’altra metà composta da fattori comuni a tanti ambiti italiani, non solo quello culturale: nessuno è mai responsabile di nulla, non ci sono le risorse adeguate, l’assenza di ricambio (generazionale ma soprattutto intellettuale), limiti oggettivi e strutturali.
Senza dimenticare poi le peculiarità del nostro sistema dei beni culturali, disseminato in tutto il territorio, profondamente legato ad esso e non concentrato nelle grandi città come in altri paesi. Un tessuto in cui trama e ordito (territorio e beni culturali) non sono concentrici. Non tutte le strade della cultura, in Italia, portano a Roma. Il che significa che la miriade di luoghi, musei, singoli manufatti non potranno mai — tutti — ambire a fare i grandi numeri, ovvero quelli che interessano al “privato”. Allora sarebbe più sano rimettere le cose nella giusta prospettiva: a che serve la cultura? Prima di tutto a renderci cittadini più consapevoli. Se poi questa crescita ne porta una anche economica, se riesce a creare posti di lavoro tanto meglio. Invertendo le priorità si va verso lo sfruttamento parassitario, così come è accaduto e accade con il territorio: il nostro è (era) un paese naturalmente bellissimo e ricchissimo che in un fazzoletto di terra riesce a offrire montagne meravigliose, colline dolcissime e mare stupendo, e noi come lo abbiamo trattato? Lo abbiamo deturpato, stravolto, violentato. Abbiamo riempito le coste di orrendi mostri di cemento, abbiamo scombinato l’equilibrio naturale raggiunto in millenni, perché così l’economia gira. E chi l’ha realizzato questo scempio se non in larga parte quel “privato” che adesso dovrebbe magnificare, valorizzare il patrimonio culturale? Vogliamo far fare la stessa fine anche ai monumenti, ai parchi archeologici, ai musei?
I bronzi di Riance in tanga (Foto tratta da restoalsud.it)
Valorizzazione sì, allora, ma intendiamoci prima su quali valori condividere. Considerare musei e gallerie come parchi divertimento significa calpestare il senso stesso della cultura, ridurre tutto a intrattenimento. Che non è satana, ma neppure dio. L’intrattenimento non può essere il fine ma il mezzo, esattamente come l’economia. Rendere l’esperienza-visita piacevole, coinvolgente, stimolante, emozionante va bene, benissimo. Ma poi bisogna portare a casa conoscenza e consapevolezza. Adottare tecniche di comunicazione proiettate all’audience development va benissimo, è necessario, ma questo non può significare mettere in secondo piano la tutela, la conservazione e la trasmissione del sapere. Il privato è capace di mettere il bene comune davanti a quello proprio?