Un approccio rivoluzionario alla settima arte. “Lo schermo empatico” di Vittorio Gallese e Michele Guerra
A tutti noi è capitato di provare una forte emozione guardando un film.
A molti è poi capitato di ripensare a quella vivida impressione e di chiedersi come sia stato possibile che un film, cioè una finzione per assistere alla quale avevamo perfino pagato un biglietto, sia stato in grado di produrre in noi effetti così realistici.
A questo interrogativo tendiamo a rispondere tirando di solito in ballo “la sospensione dell’incredulità” che scatterebbe nel momento in cui ci sediamo in poltrona, “la magia del cinema”, oppure lo “specifico filmico”, qualunque cosa si intenda con tale espressione. Ci rendiamo però tutti facilmente conto che queste sono spiegazioni che non spiegano in realtà nulla.
A chiarire come stanno in realtà le cose viene oggi in nostro soccorso un interessante – anche se, ve lo dico subito, non semplicissimo – saggio che è stato pubblicato dalla Raffaello Cortina Editore, nella collana Scienza e Idee (probabilmente la più interessante collana di testi di filosofia della scienza oggi presente sul mercato editoriale italiano), e che si intitola Lo schermo empatico: cinema e neuroscienze. Gli autori sono Vittorio Gallese, scienziato che faceva parte del team che nel 1992 individuò i neuroni a specchio, e Michele Guerra, professore di Teoria del Cinema all’Università degli Studi di Parma.
Vi segnalo subito dove stanno le difficoltà. La prima difficoltà è che gli autori hanno scelto di illustrare le loro tesi utilizzando esempi cinematografici che sono poco conosciuti dal lettore medio, me compreso ovviamente. Passi per Notorius di Alfred Hitchcock, ma una particolare sequenza di un film di Buster Keaton del 1924 in tutta onestà può essere ricordate solo da uno specialista.
Più avanti nel corso del libro, per fortuna, qualche volta si citano anche film che un lettore medio dovrebbe aver visto, come Shining e Il silenzio degli innocenti, ma è solo un attimo: poi si riprende subito con una serie di film d’essai che solo uno sventurato che sia stato obbligato a frequentare i cineforum negli anni Settanta può aver visto. Tutti gli altri devono ricorrere a YouTube, rallentando in questo modo la lettura. Beh, guardiamo il lato positivo: almeno ci si fa una cultura cinematografica.
Un altro aspetto che rende la lettura non sempre agevole è che gli autori si crogiolano in un prosa verbosa ed estremamente tecnica. È un difetto che viene spesso riscontrato nella critica cinematografica italiana (per non parlare della critica d’arte figurativa!), ma è un difetto che credevo stesse scomparendo. Purtroppo mi rendo conto che non è così, e che certi vizi sono duri a morire.
Un ultimo punto che mi permetto di segnalare come ostico per un lettore medio è che gli autori si soffermano francamente troppo sul dibattito teorico ed estetico sul cinema. La mia opinione è che molto di ciò che è stato riportato in questo ambito c’entri poco in realtà con le tesi del libro e che anzi ciò frammenti ancora una volta il discorso.
Intendiamoci: quelle che ho enunciato sono – per carità – tutte scelte legittime degli autori, ma che hanno come inevitabile conseguenza quella di respingere una parte di lettori che potevano essere interessati a un libro come questo se fosse stato scritto in un altro modo, e cioè con una fluidità linguistica e argomentativa maggiore e con esempi di più immediata comprensione. È un peccato, perché le tesi espresse nel saggio sono di indubbio interesse, ma espresse in questo modo non hanno possibilità di incontrare un pubblico molto vasto.
Ritorniamo a noi. Lo scopo degli autori è quello di provare a comprendere i meccanismi di risonanza tra le immagini di un film e il nostro cervello. La loro ricerca si avvale dei risultati delle ultime conquiste delle neuroscienze, e le teorie espresse sono state tutte messe alla prova sperimentalmente, così come è giusto fare in ambito scientifico. Neuroscienze? Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
Verso la fine del ventesimo secolo lo studio del cervello è confluito in un nuovo quadro teorico che comprende sia la biologia cellulare sia la psicologia, e che viene appunto chiamato “neuroscienze”.
Il campo di indagine delle neuroscienze spazia quindi dai geni ai processi cognitivi, stabilendo inoltre un nuovo rapporto tra psicologia e biologia, in cui il patrimonio delle conoscenze psicologiche deve essere convalidato a livello biologico, e cioè a livello neuronale.
Apro una parentesi: quando le scienze umanistiche vengono contaminate dalle scienze “dure”, quelle cioè logico-matematico-sperimentali, ne possono venire fuori delle belle. Pensate per esempio alla sociologia, ma anche a quando la critica letteraria venne contaminata dalla logica (in questo caso ne venne fuori il formalismo, e in questo senso avrete tutti certamente presente l’influsso sul dibattito letterario mondiale che ebbe un libro come La morfologia della fiaba di Propp).
Con le neuroscienze sta accadendo un po’ la stessa cosa. La psicologia, a seguito del suo incontro con le scienze biologiche, ha dovuto espellere dai propri territori certe incrostazioni mitologiche che non hanno trovato cittadinanza in ambito neuroscientifico. La vittima più illustre di questo connubio – vittima che per la verità non godeva già più da tempo di buona salute – è stata la psicoanalisi di Freud, mandata in soffitta poiché (sempre per adesso) è risultata essere priva di basi biologiche riscontrabili in laboratorio. Questo purtroppo è un punto sul quale in questa sede non posso soffermarmi più di tanto, ma ve lo segnalo poiché, tra i grandi cambiamenti a cui abbiamo potuto assistere nel corso della nostra vita, la decadenza della psicoanalisi è un evento di una portata veramente epocale che sta avendo profonde ripercussioni in ambito psicologico e filosofico, anche se il grande pubblico non se ne è ancora accorto.
Aggiungo però che gli amanti di Freud possono dormire sonni tranquilli perché essere espulsi dall’ambito scientifico non equivale a perire. Anche se le teorie del grande Aristotele sono state tutte confutate; ciò non di meno Aristotele per certi versi ci parla ancora.
Il saggio che vi consiglio di leggere coniuga quindi le nuove conquiste delle neuroscienze, cioè questo nuovo ambito disciplinare in cui è confluita la biologia del cervello e la psicologia, al classico dibattito sull’estetica cinematografica.
Il saggio indaga infatti quali siano le forme del nostro contatto con le immagini dei film, e indaga i motivi per cui la finzione narrativa del cinema ci colpisca ed emozioni come la vita reale.
Cosa dimostrano gli autori?
Detto in soldoni, gli autori dimostrano che l’approccio alla vita reale e l’approccio ai film si basa su meccanismi percettivi neurofisiologici in gran parte identici. Le emozioni che si provano davanti a un film sono dunque genuine perché sono provocate dagli stessi neuroni che si attivano nell’esperienza reale di tutti i giorni.
È fondamentale, per comprendere il discorso che viene fatto dagli autori, capire il concetto di “riuso” dei circuiti neurali, e il libro si gioca tutto o quasi su questo punto. Comprendiamo infatti il senso dei comportamenti e delle esperienze altrui grazie al riuso degli stessi circuiti neurali che utilizziamo in prima persona per le nostre esperienze emozionali e sensoriali.
Una conseguenza di quanto scoperto è che il mondo reale e quello immaginario sono quindi molto meno distanti di quanto non si sia pensato fino a oggi.
Seguendo questo filone di indagine, gli autori giustamente arrivano a chiedersi se esistano stili cinematografici che siano più efficaci nel far provare determinate sensazioni nell’uomo. La risposta è sì. Forse il regista li utilizza in modo istintivo e inconsapevole, ma esistono.
I movimenti della Steadicam per esempio sono risultati essere i più efficaci nella capacità di mettere in moto i neuroni a specchio, cioè quei neuroni che ci permettono di “capire” gli altri. Gli autori del saggio hanno dimostrato scientificamente tale ipotesi conducendo un apposito esperimento.
Su questo punto lascio volentieri a loro la parola:
“Il nostro studio fornisce solide basi neurofisiologiche alla straordinaria capacità della Steadicam di generare negli spettatori una sensazione di immersione nello spazio-tempo del film, favorendo la nostra immedesimazione con la prospettiva della macchina da presa in virtù dell’incorporazione dei movimenti, grazie alla loro simulazione incarnata, promossa dall’attivazione dei neuroni a specchio”.
Il saggio forse non è adatto al grande pubblico poiché purtroppo tende a divagare e a perdere spesso contatto con l’oggetto – in sé molto interessante – della ricerca che i due autori si prefiggevano di compiere.
Ma i risultati scientifici ottenuti sono di così grande valore che forse, in questo caso, vale la pena comunque di fare uno sforzo di lettura.
Vittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico: cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, 2015, 25,00 euro.