BandAutori 14. Musica dalla Romagna: quella di Alice Pisano, che guarda al mondo anglosassone, e quella di Extraliscio, legata invece alla tradizione. Per "Libri che suonano" andiamo nella Milano punk degli albori.
Alice Pisano “Something Good” (Autoproduzione)
Un disco che circola già da mò. Poco importa, perché il calendario è meglio deciderlo in autonomia piuttosto che rincorrerlo e subirlo e perché la voglia di consumare musica in fretta e furia non fa bene né a chi la propone né a chi ne usufruisce. La ferrarese Alice Pisano, è una poco più che ventenne musicista (chitarra, pianoforte) dall’impronta spiccatamente british & irish folk e che non disdegna pennellate all’americana e pop. Già attiva con i Down The Rabbit Hole, premio “Note d’autore”, partecipazione al Pistoia Blues Festival, un crescente seguito di pubblico sia in Italia che all’estero (si è esibita più volte anche in titolati club britannici). Una singer-songwriter, dal tocco a tratti celestiale, riflessivo, intimista. Può ricordare sia la favolosa Sandy Denny che la più mainstream Tori Amos. Paragoni che possono non servire, però, visto che la sua scrittura, la sua percezione (anche extra-musicale) ne fanno un gioiellino. Non ci sono sontuosi arrangiamenti, anzi, sono ridotti all’osso. Qualcosa in più da sprigionare da intensificare c’è di sicuro, ma in ogni caso, da subito il suo messaggio arriva limpido e puro. Tra i brani, da segnalare: Waiting For The Winter”, bel soffio stagionale, “My Only Home (Jane’s Longing)”, in debito con la scrittrice Charlotte Bronte, “Behind The Corner”, il brano più immediato, supportato da basso e percussioni e dalla fine cesellatura. Il finale è brioso. Due rifacimenti: “I Wish Was In England”, dal repertorio del gigante Christy Moore e che diviene “un piano (è) forte”, mentre “Landslide” scritta da Stevie Nicks dei Fleetwood Mac ha il gusto un po’ malandrino (e giusto). Alice Pisano si è costruita il suo paese delle meraviglie: incanto, passione, sogno, carezza “in un pugno” (di canzoni, in quanto extended-play) e cosa importante, c’è un intreccio emozionale che non va a caso ed è ben lontano dalle ovvietà. Voto: 7 (Massimo Pirotta)
Extraliscio “Canzoni da ballo” (Garrincha/La Casadei Sonora)
Da qualche anno a questa parte la musica indipendente italiana ha cominciato a subire la fascinazione del liscio, anche grazie alla rivisitazione critica effettuata per esempio da Federico Savini sul numero 188 di Blow Up nel gennaio 2014 con un articolo che nel suo piccolo ha fatto storia. Mentre prima infatti la musica da ballo romagnola scorreva sottotraccia come ispirazione per gruppi più o meno underground come i Sacri Cuori o i JeanFabry, ora c’è chi ripesca in maniera filologica le atmosfere delle balere del secolo scorso, ad esempio Vinicio Capossela con La Banda Della Posta oppure L’Orchestrina di Molto Agevole, supergruppo creato da Enrico Gabrielli. Sulla stessa lunghezza d’onda vanno ora a posizionarsi gli Extraliscio, band formata da Mirco Mariani, attivo con i Saluti da Saturno e come collaboratore del già citato Capossela, coadiuvato da vari musicisti dell’area romagnola e da due cantanti storici per il genere in questione, cioè Mauro Ferrara (ex Orchestra Casadei, per capirci) e Moreno Il Biondo. La novità del progetto Extraliscio sta nel fatto che Mariani ha scritto per l’occasione dei brani originali, riuscendo perfettamente nell’impresa di ricalcare le atmosfere del passato aggiungendoci un tocco, ma non troppo, di modernità. Provate ad ascoltare “Mia cara Celestina”, “La bella straniera” o “Cha cha cha d’amor”: non sembrano uscite dalla penna di un Casadei o di un Castellina? C’è poi naturalmente spazio per quattro cover di classici, ad esempio “Riviera Romagnola” e “Il passatore”, suonate con il giusto equilibrio tra rigore filologico e attualità. Verrebbe poi da chiedersi se questa del liscio sarà solo una moda passeggera o se con gli anni diventerà qualcosa di più corposo, tirando fuori il genere dalla ghettizzazione dei canali regionali e trovandogli un nuovo pubblico più trasversale. Certo, il sogno romagnolo del dopoguerra non esiste più, però la bella musica meriterebbe di sopravvivere alle congiunzioni economiche e sociali. Intanto però ascoltiamoci e balliamoci questi valzer e queste polke e non pensiamoci più di tanto, che a questo serve il liscio. Voto: 7.5 (Fabio Pozzi)
Libri che “suonano” (un estratto)
Cimeli utili - punk a Milano ’77-’78. Ormai non ci speravamo proprio più: il cosiddetto movimento punk a Milano era visto guardingo un po’ da tutti, sfuggiva a ogni regola di classificazione e lasciava disorientati tutti quanti. C’erano ex autonomi reduci dalla stagione infuocata del ’77 e giovanissime teste calde ammaliate dai primi suoni grezzi, timide modelline in cerca di fortuna e acerrimi collezionisti di dischi. Tutto però era bene o male nato casualmente, cresciuto in modo disordinato e così inclassificabile da attirare le ire degli ultimi politicanti stalinisti (specie in avanzata estinzione) così come l’interesse dei giornali ad alta tiratura che appena riuscivano a “catturare” un punk in via Torino non lo lasciavano più stare a furia di domande e fotografie. Tra noi oltretutto l’atteggiamento di costoro creava non pochi pasticci perché per ogni punk che decideva la rottura coi canali dei media tramite atteggiamenti scostanti e violenti ce n’era un secondo pimpante e pittoresco pronto a darsi in pasto agli intervistatori ambigui proprio come animale da zoo. I politicanti (cui sfuggiva probabilmente l’impronta anarco-nichilista della specie) in vece non scherzavano affatto: bisognava girare al largo altrimenti le disquisizioni franavano in risse a base di spinte, pugni e riviste stracciate. Succedeva così che il primo concerto punk, quello dei primi Decibel alle prese con “God Save The Queen”, era interrotto prontamente da tristi squadroni di katanga, gli stessi magari che avevano applaudito il gruppo un mese prima quando il loro nome era Trifoglio e non erano ancora comparsi capelli tinti né timide lamette. La speranza comunque era l’ultima a morire e il concerto si fece nonostante tutto raggirando gli scontri con uno stratagemma pari al classico cavallo di Troia: prima del concerto punk, si apriva con dei film coi Rolling Stones e con un quintetto di be-bop cosa che metteva tutti d’accordo e che abbassava il livello di rischio praticamente a zero. Era l’autunno del ’77 e l’idea aveva funzionato. Il gruppo si chiamava Trancefusion ed era formato da due fratelli americani alla sezione ritmica e da Bruno, sedicenne milanese con un’improbabile conoscenza dell’idioma inglese (ricordo che la particolare versione di “Rock’n’Roll” di Lou Reed era praticamente limitata al solo titolo urlato per l’intera durata del brano) e da Klaus che nell’inconfondibile maglia a strisce rossobianche era un po’ il leader carismatico della band. Il suono era rozzo, “tosto” e spesso le canzoni avevano vita dura torturata da un soundcheck pressochè inesistente (l’impianto, se c’era era quello di Maurizio/Krisma in fregola punk dopo l’infausto periodo del sexyrock, altrimenti c’erano due amplificatori dai suoni curiosi) e ancor più spesso i brani franavano in risse (sul palco) e fischi dei larsen di chitarra. Poco male comunque, tratto il dado era giunto il momento di creare una solida rete di informazioni e notizie atte a consolidare la nascente ondata. Il boom delle radio aveva ormai lasciato il passo ad un discreto margine di professionismo e quindi la stazione FM che era diventata strumento d’informazione “doveva” occuparsi dello spinoso caso. Non che fossero tutte rose e fiori come si può certo immaginare ma le radio erano spazi immediati e troppo importanti per non approfittarsene. La prima riluttanza delle radio politiche spinge per curiosa ironia i primi punk dee-jay in pasto alle stazioni d’evasione e per un bel po’ le trasmissioni migliori vengono irradiate proprio da una di queste, Radio Porta Romana, nel cuore della vecchia Milano che annoverava tra i propri presentatori oltre al sottoscritto, Klaus dei succitati Trancefusion ed Enrico dei Decibel. Troppo poveri per poter stampare manifesti e restii alla nascente moda delle sponsorizzazioni, ecco trovato il modo ideale per promuovere i primi concerti punk al CTH, alla “Fabbrica di comunicazione” e all’ex centro di via Maroncelli che da Re Nudo era passato nelle mani del poliartista Ivan Cattaneo, riuscendo così ad approdare in una clamorosa diretta sugli schermi nazionali de “L’altra domenica” di Arbore. Le trasmissioni radio diventano ben presto veri e propri appuntamenti con un seguito decisamente troppo popolare per non destare interessi anche alle fazioni politiche che finora avevano minimizzato (o condannato) il susseguirsi degli eventi. La prima trasmissione emanata da una radio “politica” è “Degustalo è punk” da Radio Radicale, seguita a ruota da Radio Milano 4, legata all’MLS (Movimento Lavoratori per il Socialismo, ex Movimento Studentesco della Statale). A fianco delle radio, comunque preziose ed insostituibili, un punto di riferimento altrettanto importante era costituito dalle prime acerbe fanzine, sorta di giornali ciclostilati o in offset dalla grafica ed impaginazione dirompente al pari del contenuto spesso improntato su interviste ad anti-artisti e retaggi situazionisti. Se il movimento punk-chic di Milano si riconosceva nel “Punk Artist” di Graziano Origa (altrosì definito “l’Andy Warhol dei non abbienti) i punk “di base” producevano fogli come il “DUDU” dalla cui scissione infuocata spiccarono il volo il “Sigaro d’Italia” e il “Pogo”. Più aperto il primo e più disponibile a trattare materiale di rock progressivo o jazz e ben chiuso nel recinto punk il secondo, i due giornali si contesero le anime tormentate dei punk milanesi tra colpi bassi, coperture di manifesti e raid notturni tra memorie goliardiche all’american graffiti. L’impronta, ahinoi, generale era ancora purtroppo legata ad un supremo senso di esterofilia che relegava le produzioni nostrane sempre e comunque in secondo piano (erano ad esempio ben visti ai primi sparuti festival gli imitatori “degli inglesi”, esattamente quello che accadde quindici anni prima nella beat era del Piper e del Carducci Show) e di conseguenza quell’italian style (make up & music) che sarebbe esploso da lì a poco era ben lungi dall’essere considerato seriamente. Le acque cominciarono a muoversi in maniera più organica con l’andare del tempo. C’era, ricordo, il buon Francesco D’Abramo della Shock Produzioni che si faceva in otto per organizzare alla Palazzina Liberty il primo Punk-festival appoggiandosi a Radio Popolare proprio il giorno stesso in cui la Cramps di Sassi (o “Sassiduri” come veniva chiamato) metteva in circolazione il primo album in vinile giallo degli Skiantos. Tutto quello che succedeva altrove era molto seguito. Prima dell’ellepi sempre gli Skiantos avevano portato a Milano la cassetta autogestita, che era piaciuta non poco, c’erano i 198X col Paolo Mazzanti alla batteria che furono forse i primi a prodursi un singolo mentre da Pordenone arrivavano gli echi di uno pseudo-movimento anche perché Klaus che nel frattempo era là di naja (cosa che costò la vita al “Sigaro d’Italia”) bazzicava i Tampax e fomentava la specie. Scocciava un po’ che i bolognesi, amati/odiati, si accreditassero con orgoglio tutta la faccenda proclamandosi gli eroi del momento, dal vinile dell’Harpo’s Bazar di Oderso, ma in fondo ci stava anche bene perché all’approccio col disco la beneamata Milano perdeva colpi. Il Maurizio Arcieri, ad esempio, si tagliava le dita in pubblico ma con i Krisma suonava nelle peggiori balere-di-lusso e non si capiva dove andasse a parare, i Decibel di Enrico Ruggeri avevano firmato con la “Spaghetti” di Colombini e strizzavano già l’occhio al jukebox e, dulcis in fundo, anche il Detto Mariano, non dimenticato luogotenente del Celentano-beat, adocchiando il giro aveva ben pensato di produrre i terribili Incesti con la loro “Sabato Midnight” che rimane al primo posto tra le ondate del kitsch-punk di maniera. Poco male comunque perché la stagione d’oro , era già alla fine. La bolgia infernale di “Rock e Metropoli” al Palalido, l’avvento dell’orrido punk-politicizzato (ancor più manierato, in ultima analisi, dei prodotti di consumo) ma soprattutto l’avvento della new-wave con gli Underground Life, i Fontana, i Randa e tutti gli altri segnarono il definitivo trapasso e l’avvento di una nuova, piccola era. Qualcuno obietterà che il punk non è morto e certo i superstiti del Virus di via Correggio avvallano con la loro presenza questa tesi ma si tratta in fondo degli acerrimi nostalgici che in ogni generazione, dai beatnik ai bluesmen, lascia qui a Milano dietro le proprie spalle e dietro la storia. Comunque sia qui c’è stato. Con le notti brade ai microfoni radiofonici, o passate sui tavoli ad impaginare strane cose la piccola Swinging Milan ha lasciato dei cimeli utili per i kids a venire molto più di quanto non si creda in giro. (intervento di Al Aprile, contenuto in “Compra o muori” a cura di Fricchetti, Sconcerto, 1983)
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