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ualche settimana fa Mino Vicenti ricordava su queste pagine le parole di Eco: ogni società – spiegava - ha bisogno di costruire il proprio nemico, per riconoscere sé stessa ma anche per offrire un ostacolo al proprio sistema di valori. Su questa linea, aggiungo, verrebbe da ricordare anche il Bauman di Modernità e Olocausto, con la sua spiegazione sull'origine culturale dell'antigiudaismo europeo. L'ebreo – spiegava il sociologo nel 1989 – è stato nei secoli il luogo sociale dell'ambiguità. Irriducibile alla logica identitaria europea, questo luogo si definiva piuttosto intorno alle coordinate della religione e dell'internazionalità, laddove l'ecumene europeo costruiva identità urbane, nazionali, rigidamente ordinate secondo le unità amministrative degli Stati e della Chiesa.
L'irriducibilità dell'ebreo a quest'ordine – politico e simbolico - ne fece il bersaglio ricorrente dell'antagonismo collettivo, proprio di tutti i gruppi umani.
Ora, tutto questo funziona se assumiamo che esista qualcosa di simile a un'ecumene culturalmente organica, almeno nelle sue linee di fondo. Questa lettura, se mai è stata valida, non lo è certo oggi. Gli studi indicano piuttosto una moltitudine di culture che interagiscono nella società, ora integrandosi ora confliggendo a vicenda, secondo alleanze ed equilibri continuamente mutevoli.
Simone Camassa, nel suo articolo del 19 giugno sulle Nuove leve della Lega, scrive che «La realtà è che al loro stesso interno il movimento ospita pensieri di destra e pensieri di sinistra, al momento però ancora in grado di convogliarsi in obiettivi condivisi. Gli attacchi di Grillo alla politica a loro non fanno nè caldo nè freddo. Affermano di sapere già da tempo quello che il comico va dicendo. I giovani della Lega, insomma, restituiscono un quadro in fermento e capace di una partecipazione politica per molti aspetti nuova in Italia, per altri invece decisamente simili ad una sinistra che non c'è più.»
Molto si è già scritto e detto sullo spostamento a destra di un certo tipo di elettorato operaio, tradizionalmente legato a posizioni di matrice socialista. Ora, da un punto di vista culturale, ciò che conta sottolineare di fronte a questo fenomeno è che non esiste un nesso necessario tra le culture di classe (in questo caso quella operaia) e gli orientamenti che aspirano a rappresentarle. Il confine tra cultura popolare e cultura d'elite – penso a Stuart Hall – non segue una geografia politica fissata una volta per tutte. In ogni dato momento della storia sociale esistono cioé prassi, significati e identità intorno alle quali si coagula un fronte di resistenza, che volendo possiamo continuare a chiamare popolare, ma a patto che non cadiamo nel tranello ideologico di considerare questo termine come un a priori, il cui significato politico sia dato una volta per tutte. I vibranti tu quoque di oggi non sono che l'eco di questo errore.
Interpretare la frammentazione significa anche riuscire a connotare con efficacia i contenuti identitari del discorso culturale, là dove esso attraversa il conflitto. Rinunciare a questo, o peggio rinunciare all'idea stessa del conflitto, significa rinunciare a interpretare le istanze di quei gruppi sociali che nel gioco della cultura si collocano sul versante popolare. In quest'ottica la Lega ha dimostrato invece un'abilità notevole, intercettando fermenti eterogenei del disorientamento post-ideologico e aggregandoli intorno a un'accozzaglia di ciarpame iconografico da due soldi, condito da salsa celtica e qualche carnevalata goliardica.
Un discorso analogo – e anzi, amplificato nella portata – vale per quel riguarda Grillo e l'antipolitica. Ma non è questa la sede per affrontarlo. Resta lo spazio per una nota: dietro i proclami e le grida donchisciottesche di chi si scaglia contro Roma e contro la casta pare – a tratti – di cogliere l'eco della questione morale sollevata da Berlinguer più di venticinque anni fa. Tutto considerato, è l'eco di un'occasione perduta.