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200807-longoni.jpgNato a Monza nel 1951, Giuseppe Maria Longoni è laureato in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano. Insegna Storia contemporanea. Studia i fenomeni economici e culturali legati ai processi di modernizzazione, soprattutto nell'area lombarda e nel territorio di Monza. Fra i volumi pubblicati “Una città del lavoro” (1987), “La Fiera nella storia di Milano” (1988), “L'arte dei cappellai” (2001) e "La voce del lavoro : vita di Ettore Reina" (2006) oltre a numerosi saggi su riviste specializzate, tra cui “Nuova rivista storica” e ”Archivio storico lombardo”. La foto è di Fabrizio Redaelli ed è tratta dal libro "Monzesi" edito da Vittone editore (2003).

Cosa faceva lei nel 1968?
Facevo il liceo classico Zucchi e suonavo in un complessino di amici.

Ci descrive la Monza di allora?
Una mezza città, come è tuttora, che però aveva ancora un assetto industriale solido, un carattere abbastanza definito. Dal dopoguerra in avanti le novità erano venute da Milano, compresa la crescita edilizia senza freni né decenza. Certo le istituzioni civili e politiche erano improntate da un conservatorismo bigotto, che l’avvento del centrosinistra non scalfì che in piccola parte.

Chi erano, cosa facevano i giovani monzesi?
Molti lavoravano già dai quattordici anni e socializzavano con lo sport, la musica ecc., già attirati nel consumismo di massa. Tra gli studenti c’erano fermenti diversi, tipici dell’epoca e le contraddizioni crescevano. Naturalmente i giovani non sono tutti uguali. Il consumismo, fenomeno epocale, era, ai vari livelli, e come sempre, il sostrato culturale di fondo della destra.

Quali furono i primi segnali in città del "Sessantotto" per come lo conosciamo?
Uno dei principali problemi delle democrazie è la mancanza di coerenza. Si affermano valori che poi si negano in pratica e i giovani se ne accorgono subito.
Da metà anni Sessanta erano sorti alcuni piccoli gruppi vagamente contestatari, dove si leggeva e si sentiva musica beat un po’ sul modello del movimento studentesco americano. Appassionato di musica li frequentai un po’, anche perché, si diceva, c’erano molte ragazze con mentalità “non liceale”. Poi c’era, qualche volta sovrapposto al primo, il fermento del mondo cattolico postconciliare, allora orientato verso il solidarismo, il terzomondismo.
I primi discorsi contestatori li sentii, da adolescente, tra oratori e collegi estivi religiosi, perché non conoscevo nessuno che fosse di sinistra. I gruppi della sinistra radicale ideologica fino alla fine del decennio erano molto minoritari, inclini al dottrinarismo e alle liturgie come i “maoisti” molti dei quali divennero poi, non a caso, ciellini.

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si capì subito che, senza un progetto di società e di civiltà, l’antiautoritarismo porta all’adorazione dei feticci di consumo

Lei militò in una delle formazioni politiche di allora?
In più di una per la verità, anche se l’esperienza più significativa è stata quella del gruppo del Manifesto. Purtroppo si diffuse presto un certo settarismo di gruppo; ciascuno voleva il suo partitino.

Ci furono dei luoghi simbolo in città, di ritrovo o di scontro?
Io mi ricordo in particolare la sede di via Anita Garibaldi: due stanzoni a pianterreno in un cortile a ringhiera, una casa popolare sul Lambro, accanto ad un’osteria dove avevano sede il Moto club e una società di pescatori; qui stava il vecchio PsIup, molti dei cui membri passarono al gruppo del Manifesto, conservando la sede. Riunioni interminabili e fiumi di parole, ma anche riflessioni e studio; un gruppo si lesse il rapporto del Club di Roma, primo manifesto ambientalista italiano.
Il luogo di scontro era il vicino centro della città, l’area dell’Arengario, da sempre luogo di ritrovo dei muscardines locali, sotto la sede del Movimento sociale italiano. Furono numerosi gli scontri fisici coi fascisti, che erano pochi, ma si ergevano a bastione anticomunista. Uno scontro tutto ideologico che in realtà aveva poco a che fare con quello che succedeva nella realtà.

Ci parla dell'antiautoritarismo e del suo rapporto personale con la famiglia, lo Stato, la religione?
L’antiautoritarismo, in termini generali, è il clichè di una generazione già figlia della televisione e del consumismo, in contrasto con una vecchia, legata alla guerra e più sobria; nei più riflessivi tra i giovani si capì subito che, senza un progetto di società e di civiltà, l’antiautoritarismo porta all’adorazione dei feticci di consumo, che dominano incontrastati ai giorni nostri. Ero uno studente un po’ ribelle e insofferente anche prima del ‘68. Naturalmente il primo bersaglio fu la famiglia: nella mia vigevano valori di laboriosità ed onestà ma anche tradizionalismo e autoritarismo, come in molte altre; subito dopo venne la religione, vista come un prolungamento dell’autoritarismo familiare.
Lo Stato era una cosa lontana, che si incontrava col servizio militare; semmai più vicina era la scuola, il primo ambito collettivo da investire con la critica.

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Fu un fenomeno prettamente giovanile anche a Monza?
Nessun fenomeno è solo giovanile; i giovani cercano disperatamente dei maestri e ci sono sempre degli adulti delusi che si aggregano ai giovani per nutrire delle speranze. Cosa daremmo tutti, oggi, per avere qualche buon maestro e una gioventù consapevole e in fermento! Del resto i giovani fanno più o meno quello che noi gli suggeriamo di fare. Comunque anche in Brianza il motore furono i giovani dato che le generazioni precedenti non avevano strumenti di comprensione, essendo preconsumiste e pretelevisive. Nacquero ovunque gruppi di impegno sociale e culturale, spesso come prolungamento di quello religioso. Mi ricordo i seminaristi che andavano alla Cisl a fare volantini di contestazione.

il culto della violenza era presente nelle componenti ideologiche del movimento, la deriva terrorista degli anni post 1974 fu propria di una frazione ultraminoritaria

Che rapporti ci furono con la Sinistra parlamentare locale?
Inizialmente pochi. La sinistra non era fatta in modo da capire quel che succedeva; non era moderna. Per contro fu subito chiaro che gli unici interlocutori possibili erano a sinistra perché altri settori politici erano proprio nemici di tutto quel che il movimento suscitava, a partire dal caso Zanzara del Parini. La sinistra capì molto lentamente (la sinistra italiana è lentissima) ma alla fine capì.

Spesso il Sessantotto italiano ed europeo viene distinto da quello americano per la componente violenta che ne nacque. È reale questa distinzione?
Contrariamente a quello che si pensa spesso, il movimento americano non fu affatto privo di componenti violente; ci fu un’ala terrorista che fece molte vittime. Anche tra gli studenti wasp, non solo nella rivolta negra.
In Italia a tal proposito bisogna dire che il culto della violenza era presente nelle componenti ideologiche del movimento, anche se la deriva terrorista degli anni post 1974, per quel che ebbe di autonomo, fu propria di una frazione ultraminoritaria e ampiamente indotta, dopo Piazza Fontana, dalla feroce violenza reazionaria che il movimento aveva suscitato.
Qui il fatto più drammatico fu l’assassinio del dirigente dell’ICMESA, mi pare si chiamasse Paolucci, attuato da gente che non aveva radici nel territorio e che voleva metterle nel movimento ecologista post Seveso.

Perchè avevano così tanta importanza i temi internazionali allora rispetto ad oggi?
Perché si aveva la sensazione che in tutto il mondo, occidentale e comunista, si fosse levato un vento nuovo che portava ovunque più libertà e più giustizia. Il Sessantotto è uno dei primi fenomeni sociali globali. In Italia, particolarmente, il movimento dura circa un decennio e vi convivono due spinte: smuovere la resistenza della società italiana alla modernizzazione e nello stesso tempo mettere in discussione i caratteri di quest’ultima.

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Quali differenze segnerebbe lei fra chi fu giovane allora e chi lo è oggi?
Allora solo i “reazionari” ostentavano l’assenza di un progetto di vita futura che non fosse individualistico; i giovani del movimento esprimevano una tensione che riguardava tutti e dava un senso all’impegno e alla stessa vita. Dal punto di vista umano e a differenza di oggi, ci furono molti esempi di coraggio e rinuncia ai privilegi.

Chi combatteva il sistema allora l'ha cambiato o ne è stato risucchiato?
Come tutte le generazioni precedenti abbiamo capito che il cambiamento non è mai totale né definitivo. Via via che si realizzavano parzialmente certi obbiettivi, come la fine dell’ autoritarismo, la crescita delle aspirazioni alla giustizia, alla dignità e alla libertà nel mondo, la sconfitta del razzismo, della discriminazione sessuale, nascevano nuovi problemi: ad esempio le società occidentali, inclusa la classe operaia, i giovani e le donne, abbracciavano gioiosamente il consumismo teledipendente e si arroccavano a difesa dei privilegi personali, più o meno grossi; mentre si rifiutano i lavori pesanti o “ignobili”, li si affida al nuovo proletariato globale, cercando tramite l’ideologia razzista di massa di mantenerlo in condizioni irregolari per tenere basso il costo del lavoro e confermare la precarietà. Il tutto accompagnato dallo strumento principe di propaganda ideologica, cioè le televisioni commerciali, nate in un primo momento, come tv libere. Esempio tipico l’irreggimentazione ideologica del populismo dell’infotainment come Striscia la notizia.
Alcuni risultati, comunque, sono irreversibili; ad esempio resta una propensione da parte di gruppi spontanei della popolazione a farsi sentire senza delegare. Una forte difesa della libertà individuale contro le ingerenze delle istituzioni, la coscienza che il lavoro va tutelato e che occorre resistere ai fenomeni regressivi come il razzismo diffuso a livello popolare.
Meno vivo, purtroppo, il senso della legalità e del rispetto delle regole condivise.

Il tradizionalismo bigotto non ha più osato esprimersi con i vecchi linguaggi; oggi si manifesta soprattutto attraverso il razzismo condito di ateismo devoto

Quanto durò? Quando fu chiaro che era tutto finito?
Fino alla fine degli anni Settanta la spinta politica riformatrice, chiaramente influenzata dal movimento post Sessantotto ebbe un ruolo predominate. Poi, piano piano, tutto rifluì anche perché il mondo entrava nel trentennio neoliberista che ora sta finendo. Ma la fine era già avvertibile col cosiddetto Movimento del Settantasette, che non conservava più nulla delle ambizioni del Sessantotto. Si trattava di un estremismo giovanile isterico, prepotente, ultraconsumista, che faceva gli “espropri proletari” ai negozi della Canon o a quelli di musica, sognando comparsate sui media.

Pensa che in città e nella società italiana il Sessantotto abbia lasciato un'eredità?
Una grossa eredità, del tutto negata e mistificata soprattutto dai media diretti da ex sessantottini approdati al potere. Naturalmente bisogna distinguere i piani; Monza e la Brianza dal Sessantotto hanno tratto conseguenze soprattutto sul piano culturale e politico-amministrativo. Il tradizionalismo bigotto non ha più osato esprimersi con i vecchi linguaggi; oggi si manifesta soprattutto attraverso il razzismo condito di ateismo devoto. Dalla metà degli anni Settanta, spesso grazie alla partecipazione alla vita sindacale e anche all’esperienza di Democrazia proletaria, la spinta sessantottina si istituzionalizza, sfociando da un lato nell’ ambientalismo, dall’altro alimentando le forze della sinistra, compresa quella democristiana; la sinistra, così rinnovata, ha dato vita sul piano locale, ad alcune esperienze amministrative interessanti. Certo dopo quell’epoca la nozione di Brianza bianca è quanto meno riduttiva. Pensate a quello che esprime oggi, politicamente e culturalmente, l’area milanese!

Qual è il suo bilancio personale di quel periodo?
Anche se ormai non mi sfuggono limiti, difetti, errori di quegli anni, io sono quel che sono perché ci sono stati. Ho ricevuto stimoli non solo a capire ed interpretare la realtà, ma anche ad agire in essa. È un’esperienza pregnante, che si è sedimentata nella coscienza e accompagna tutta la vita

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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