Paola Pioppi, la letteratura al femminile, il noir e non solo: pari opportunità e condizione della donna
Chi è Paola Pioppi?
Una persona che legge molto, metterei al primo posto, e che da sempre si appassiona per i libri e per la cultura in genere. A parte questo sono cronista di nera e giudiziaria per un quotidiano, organizzo un festival di narrativa poliziesca e ho un blog dove spendo gli argomenti e i temi che più mi interessano.
Vuole parlarci della rassegna letteraria "La passione per il delitto", appuntamento tra i più importanti per gli scrittori del nord Italia e non solo, di cui è organizzatrice?
Quest'anno ci sarà l'ottava edizione, dal 27 settembre all'11 ottobre sempre a Villa Greppi di Monticello Brianza. Sono due settimane di incontri tra autori di genere e pubblico, in un programma contaminato anche da altre iniziative sul tema: mostre d'arte e bibliografiche, laboratori per bambini, corsi di scrittura e, alternate negli anni, serate musicali e di spettacolo, percorsi turistici ed enogastronomici. Gli autori arrivano da tutta Italia e dall'estero, con l'intenzione di affiancare i libri in classifica a opere di qualità meno conosciute. Negli anni abbiamo avuto ospiti di grande richiamo, ma anche scrittori che in Brianza si sono creati un loro pubblico che non avevano.
Come è nata la sua passione per il Noir?
Direi in tempi non sospetti, vale a dire quando ho deciso di invitare i primi autori in Brianza, nel 2002. In quel periodo non c'era ancora la ricchezza editoriale che si è creata successivamente, quando in molti hanno deciso di scrivere gialli o noir e le stesse case editrici hanno fortemente investito su un genere che vendeva. C'erano alcuni autori che mi piacevano, come Piero Colaprico o Valerio Varesi, capaci di rappresentare realtà diverse da loro, ma comunque realtà, nel vero senso della parola. Ho avuto la percezione che il noir o il giallo in Italia, come già era avvenuto in altri paesi, potevano essere lo strumento per andare al di là delle cronache, per raccontare di più e meglio, anche se con lo stratagemma della finzione narrativa. In quegli anni erano i libri che si differenziavano per contenuti e per stile, quelli che mi facevano divertire. Perché dopo un discreto numero di anni passati a leggere, inizi ad aver voglia di qualcosa che sia davvero diverso. In questa voglia di divertimento rientra anche l'idea del festival, in un posto dove non era mai stato fatto niente del genere, la Brianza.
In base alla sua esperienza, qual è lo spazio per le autrici nel Noir e in generale nella letteratura contemporanea?
Secondo me di spazio ce n'è molto, perché nessuno lo sta occupando. Almeno in Italia. Gli altri paesi europei hanno prodotto scrittrici come Alicia Gimenez-Bartlett e Matilde Asensi, Fred Vargas e Dominique Manotti, Ruth Rendell, Anne Perry o Stella Duffy, Liza Marklund, solo per citarne alcune. In Italia questo non è ancora avvenuto, perché a mio parere non c'è lo stesso retroterra. In particolare manca un senso dell'indipendenza radicato come negli altri paesi europei. Non c'è la capacità di sganciarsi profondamente da temi ricorrenti e schemi di approccio alla scrittura che si sentono al sicuro solo se in buona compagnia, senza preoccuparsi della ripetitività. Non c'è un ambiente sufficientemente stimolante in questo senso, o almeno io non l'ho ancora visto. Ci sono alcune scrittrici che stanno lavorando bene e con consapevolezza, ma anche con grande fatica, perché farsi ascoltare e trovare interlocutori è più difficile.
Come vede la situazione in Brianza, in termini effettivi di pari opportunità, nella famiglia, nel lavoro, nell'istruzione?
La Brianza negli ultimi cinquant'anni ha certamente raccolto i vantaggi di un'economia capace di allargare gli orizzonti, creare bisogni molteplici e soddisfarli, offrire opportunità in ogni campo e favorire il coinvolgimento di categorie meno tutelate. Tuttavia ritengo che non ci sia stato quell'ulteriore passo in avanti che permette di guardare ai valori aggiunti come vere conquiste. Questo significa ricevere e utilizzare ciò che arriva dall'esterno, ma non essere capaci di comprenderne il valore di fondo e trasmetterlo. Questo, per esempio, può valere per il concetto molto giovane di "pari opportunità", ma anche per la cultura e l'istruzione. Il ceto medio, quello che si è costruito la casa di proprietà, è orgoglioso di un figlio giovane che estingue il mutuo presto perché ha iniziato presto a portare a casa stipendi, che non ha debiti, o di una figlia che costruisce un buon nucleo familiare. Lo standard è ancora questo, non c'è stata la capacità di investire sui valori intellettuali o culturali come elevazione dell'individuo, nemmeno da parte della generazione che non ha avuto il problema di tirare la fine del mese o di pagarsi gli studi. Chi non lo ha fatto è solo perché non ne ha compresa l'utilità, e questo è un grosso deficit. Il bisogno di "pari opportunità" nasce da un'esigenza di evoluzione culturale non economica: è innegabile che anche in Brianza la donna continua ad essere quella che percepisce stipendi mediamente inferiori del dieci per cento rispetto agli uomini pur a parità di ruoli, che sceglie il part time al posto del marito per seguire la famiglia, che fatica ad essere assunta se giovane e in procinto di matrimonio, perché l'imprenditore non investe su una dipendente a rischio di maternità. Sono dati oggettivi e purtroppo non nuovi. Anni fa un'amica mi fece una domanda che mi lasciò senza parole davanti all'enormità del baratro che apriva: "Uno che studia medicina poi fa il medico e cura la gente - mi disse - ma uno che studia letteratura non porta benefici, e allora a cosa serve?". Credo che ancora oggi sia così: non solo manca la cultura, mancano il senso e la misura del bisogno intellettuale. Prima di arrivare a tradurlo in utilità, occorre percorrere una strada tutt'altro che breve.
«Nelle immagini che scorrono in televisione, la donna è quasi sempre soubrette o protagonista della cronaca nera, quindi velina o cadavere». Sono le parole usate da Loredana Lipperini in una tavola rotonda sul Noir al femminile, che lei cita nel suo blog. È davvero questa la condizione delle donne, anche nell'Italia membro del G8, anche nella Brianza produttiva e industrializzata?
La Lipperini parafrasava Simone De Beauvoir, una scrittrice di cui secondo me si torna ad avere molto bisogno. L'immagine è volutamente estremizzata per essere forte e diretta, ma trovo che abbia un grande senso di verità e di attualità. La televisione è stato uno dei più potenti mezzi di comunicazione di questi ultimi anni, determinante nella formazione dei gusti e dei costumi, dei bisogni, dei modelli sia di immagine che comportamentali. Se le conseguenze più evidenti sono quelle prodotte dai reality o dai programmi di svago che sempre più allontanano dall'esigenza di contenuti e di risposte, c'è un altro aspetto che passa più inosservato ma che è dilaniante: l'educazione ai non-bisogni. L'imposizione e la capacità di far recepire modelli privi di emotività, di individualità, di senso dell'indipendenza, di intimità. Tutto ciò raggiunge e depriva ogni categoria e ogni fascia di età, anche nella Brianza industrializzata e produttiva che vive la capacità di uniformarsi come un traguardo positivo. Se da un lato quindi c'è l'adesione a questi modelli sintetizzabili nell'immagine della velina, per ogni gusto e per ogni età, dall'altro c'è l'esplosione di chi questi schemi non riesce a farli propri, e vive il disagio fino alle conseguenze estreme: la violenza su di sé o sugli altri, l'annientamento, i disturbi comportamentali, l'isolamento sociale. Casi per la maggior parte silenziosi, che affollano i Tribunali. Stare tra questi due estremi è decisamente difficile, ma non impossibile.
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