Giovanna Forlanelli e la Johan & Levi, giovane casa editrice internazionale.
A Monza per caso.
L
a Johan & Levi è una piccola casa editrice. Pubblica libri d'arte, molto curati. La sua sede è negli uffici della Rottapharm, la grande multinazionale farmaceutica a cui fa riferimento; a San Fruttuoso, a Monza. Ma il suo mercato è internazionale come quello della casa madre. L'ha creata e la dirige Giovanna Forlanelli, dottoressa, manager e collezionista che qualche anno fa ha pensato di «colmare una lacuna nell'editoria italiana». La saggistica di qualità nell'arte.
Come nasce la sua passione?
Ho sempre frequentato il mondo artistico e gli artisti. Lavorando per una multinazionale ho sempre viaggiato molto e questo mi ha permesso di visitare tanti musei. Nel 2005 ho poi deciso di avviare una casa editrice il cui lavoro fosse focalizzato sulla saggistica e la critica, non sugli eventi, non sui cataloghi.
E il nome Johan & Levi?
È un vecchio marchio irlandese, l'abbiamo ripreso perchè ci sembra metta bene insieme il vecchio e il nuovo.
Cosa le piace dell'arte e cosa no?
La ricerca, l'innovazione e il continuo guardare avanti. Non mi piace invece il sistema che gli gira intorno. Perlomeno la parte più visibile, perchè fortunatamente ci sono sempre, poi, i giovani artisti che lavorano seriamente e le gallerie che fanno scouting.
Lei è anche collezionista. Da cosa sono dettate le sue scelte?
Purtroppo il più delle volte sono scelte “di pancia”, il che non è esattamente il criterio più giusto per un collezionista. Prendo le opere di cui mi innamoro e di solito non le espongo. Negli ultimi tempi privilegio le opere di autrici donne perchè trovo che l'arte femminile, attualmente, sia più in sintonia con l'attualità.
Interessante, ci spieghi meglio.
Le artiste stanno facendo un lavoro molto più intimo, di introspezione. Manuale anche. Rispetto agli uomini, più tecnologici, le donne sono più artigiane. Un esempio è Chiara Camoni, una giovanissima che usa molti supporti, dalla pietra alla porcellana alla carta, vicina a Sabrina Mezzacqui e Marzia Migliora.
Come l'ha conosciuta?
Sono stata folgorata 4 anni fa da alcuni suoi lavori in una fiera, Artissima o MiArt non ricordo. Era una serie di radici disegnate a china e con cornici antiche. Erano già vendute, ho dovuto attendere tre anni per avere dei lavori simili che ha poi realizzato.
Quali sono gli artisti che le piacciono di più?
Ce ne sono mille, dico solo Kiefer.
Le piacciono le fiere?
Per chi come me è molto presa dal lavoro sono fondamentali. Non riuscendo a frequentare i vernissage, lì posso avere una sintesi molto utile. La mia preferita è sicuramente Artissima a Torino. Col tempo ho imparato ad essere molto selettiva, ad evitare le inaugurazioni dove non si riesce a guardare nulla. Da quello che vedo penso che questo sia il momento di puntare sulla scultura. Per qualità su 100 scultori ci sono 40 artisti di eccellenza; su 100 pittori, ce ne saranno si è no 5.
Cos'è un investimento in arte? Lei vende anche i suoi lavori?
Non li vendo. È un investimento per il cuore e per il futuro. Prendi dei lavori perchè ti piacciono e li vuoi possedere, ma è anche un investimento vero e proprio: in passato ho comprato lavori di autori poco conosciuti o con valutazioni non altissime che con il tempo sono diventati inavvicinabili.
Ci parla del rapporto fra impresa ed arte?
Dipende dall'impresa. Sicuramente di recente l'arte contemporanea è stata utilizzata soprattutto per il marketing. Quello che invece noi alla Rottapharm cerchiamo di fare è di legare l'anima dell'azienda all'arte: noi che operiamo nella farmaceutica facciamo molta ricerca, per questo ci sentiamo così vicini al lavoro degli artisti. Altra cosa è pensare all'arte solo come immagine, ma a quel punto è più giusto sponsorizzare, l'arte come qualsiasi altra cosa.
Che rapporto ha la Johan & Levi con il territorio?
Non ne abbiamo nessuno, non facendo cataloghi non abbiamo o cerchiamo visibilità territoriale. La nostra è una casa editrice internazionale - distribuiamo in Europa e negli Stati Uniti - che solo per caso ha sede a Monza.
Quali sono i criteri che seguite per i libri da pubblicare?
Pubblichiamo volumi divulgativi che fanno conoscere l'arte contestualizzandola storicamente, senza fare storia dell'arte ma attraverso le biografie degli artisti, come quelle di De Kooning e Rauschenberg, o quella imminente di Duchamp e un'altra ancora su Hopper in uscita ad ottobre. C'è tanta America nei nostri libri perchè lì all'inizio del secolo scorso si sono affermati molti artisti, anche europei scappati dalla guerra, che hanno trovato una nazione per cui l'arte era una tabula rasa, la cui unica tradizione era quella dei paesaggi. Le guerre sono un momento di grande riflessione che stimola molto la ricerca. Infatti oggi alcuni degli artisti più interessanti vengono dal medio oriente.
Oltre le biografie pubblichiamo saggi curati da giovani critici e di recente abbiamo inaugurato una collana che affronta da vicino gli aspetti che mettono in relazione l'arte e l'economia.
Marzia Migliora
Cosa pensa del ruolo dei critici, oggi che i loro nomi spesso sono più grandi di quelli degli artisti stessi sui manifesti?
Il ruolo che storicamente hanno avuto critici come Bonito Oliva e Celant, di ricerca, teorizzazione e classificazione degli autori e dei movimenti, oggi non è più possibile. Gli artisti stessi non si riconoscono mai in movimenti. La tendenza è all'individualismo. La questione dei nomi sui manifesti è conseguenza del fatto che in Italia di curatori noti ce ne sono 10 al massimo e mostrarli diventa marketing. Ma per chi lavora nel settore questo non conta, quello che conta resta l'artista.
Resta il fatto che è scomparso il lavoro di critica vero e proprio. Le mostre di Bonito Oliva o di Celant una propria linea riconoscibile l'hanno sempre avuta; adesso abbiamo a che fare più con deejay che con studiosi, più con dei selezionatori che con dei teorizzatori.
Perchè è proprio impossibile individuare delle strade. È l'arte che è schizzata. Per esempio: i nostri libri di Laboratorio Italia sono un tentativo di guida per i collezionisti, quello sulla scultura è risultato più semplice da realizzare, ma per la pittura ci siamo trovati di fronte al marasma.
E non è proprio in questi casi che il lavoro di un critico è ancora più prezioso?
Il problema è proprio il criterio di scelta. Davanti ad un individualismo esasperato, saltano i riferimenti. Gli artisti stessi usano le performance, le fotografie, le sculture... Il lavoro dei critici oggi è molto più difficile. Ai tempi, Bonito Oliva e Celant avevano a che fare con artisti che operavano in un'area ristretta, magari a stretto contatto fra di loro. Oggi è tutto veloce, distante. Tutto si intreccia, tutto è più complesso.
Questo va di pari passo con quanto succede nella società, nella sua polverizzazione. Così come poco o niente accomuna ormai noi, se non le paure quotidiane o gli obiettivi del momento, nulla accomuna gli artisti.
È l'apoteosi dell'individualismo. Nell'arte come nella vita. Trovo ridicolo che oggi l'amicizia passi per i social network, mia figlia ha più di 500 “amici” su Facebook e una sola amica vera.