A Bellaria uno dei più vecchi festival cinematografici in Italia, dedicato al documentario: volti e suggestioni di una rassegna «esclusivamente» locale.

Secondo il Ministero si tratta di una manifestazione di interesse «esclusivamente locale», e perciò – da due anni – è esclusa dai finanziamenti pubblici. Ma la ventisettesima edizione del Bellaria Film Festival non deve aver tenuto troppo conto della definizione: conclusasi lo scorso 6 giugno, la rassegna bellarese ha ospitato opere e discorsi difficilmente riducibili al localismo da riviera.

Intendiamoci: il clima resta raccolto, il pubblico è composto prevalentemente da addetti ai lavori e non si vedono in giro né passerelle né telecamere. Ma ventisette anni sono tanti (in Italia, pochi festival possono vantarli) e l'esperienza aiuta a trovare l'equilibrio esatto. Per una rivista che si riconosce nella filosofia glocal come Vorrei, l'esempio del BFF non può non destare interesse.

Sotto la direzione artistica di Fabrizio Grosoli, la manifestazione – nata sotto le stelle del cinema indipendente – si è convertita da qualche anno al cinema documentario. La conversione non ha tradito la matrice sperimentale del festival: del resto, è proprio nel documentario che da anni si concentrano le attenzioni di quanti cercano di saggiare le innovazioni e le contaminazioni del linguaggio. La stessa proliferazione di forme ibride tra la finzione e il cinema documentario classico testimonia della centralità culturale che ricopre oggi questo settore della cinematografia.

Tanto più importante il ruolo svolto dal BFF in uno scenario nazionale come sempre retrogrado, con attori televisivi largamente disinteressati a finanziare il “genere” documentario e i cineasti costretti a espatriare. Questo è quando emerge – ad esempio – dai Dialoghi sul documentario organizzati nel corso della manifestazione dalla DER, l'associazione dei documentaristi emiliano-romagnoli.

All'Unione dei circoli cinematografici Arci si deve invece l'arrivo di una ventina di titoli provenienti dalle ultimissime leve del cinema cubano. Autori e autrici non ancora usciti dalle scuole di cinema dell'isola, impegnati a testimoniare il trapasso storico del loro Paese, così come la rinnovata apertura linguistica di una cultura cinematografica da sempre ricchissima.

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Altra sezione di spiccato interesse è quella dedicata a Julien Temple: cresciuto negli ambienti della musica antagonista, questo cineasta britannico sfoggia da sempre una brillante capacità di orchestrare materiali eterogenei, dall'animazione al filmato d'archivio. Celebre per i suoi film concerto dedicati ai Sex Pistols, Temple ha recentemente firmato un delicato biopic corale sulla vita di Joe Strummer, frontman dei Clash, e sulla storia del punk, dalle radici alle propaggini odierne.

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Ha destato un certo scalpore sui quotidiani locali la retrospettiva dedicata al documentario erotico: scalpore genuinamente promozionale, dato che Doc Erotika ha mostrato per lo più un rigore stilistico notevole, riuscendo a indagare il morboso con piglio lucido e intelligente. Si veda ad esempio Erotika italiana di Alfredo d'Onofrio, documentario a episodi su diverse “perversioni” della sessualità, in grado di misurarsi con acume con argomenti scabrosi quali la sessualità dei diversamente abili o il masochismo adolescenziale.

Nutrito anche il calendario degli eventi, con l'arrivo dello stesso Temple, la presenza istrionica di Antonio Rezza e Flavia Mastrella – artisti, cineasti e teatranti con una poetica tra il surreale e il corrosivo - a fare il paio con una serata dai toni (fin troppo) celebrativi dedicata al rapporto tra il cinema e Carmelo Bene.

Il carnet – come si vede – è perfino troppo nutrito perché lo si possa riassumere in breve. Conviene allora rimandare al sito ufficiale della manifestazione, e approfittare di queste ultime righe per tornare ai Dialoghi sul documentario. In uno di quegli incontri, infatti, Felice d'Agostino e Arturo Lavorato – due giovani registi calabresi premiati nel 2005 a Torino per I canti dei nuovi emigrantihanno riflettuto con grande lucidità sulla condizione di chi si trova a cercare un'identità culturale in zone periferiche, se di periferia si può ancora parlare. Con una sottigliezza d'analisi che lascia ben sperare, i due cineasti hanno raccontato come la cultura frequentata negli anni della formazione fosse inevitabilmente rivolta oltre il confine, in una sorta di pulsione migrante irresistibile. Ma, una volta valicato quel medesimo confine, è la scoperta di una cultura propriascoperta casuale e inaspettata, nei versi del poeta Franco Costabile – ad assumere i tratti di uno spiazzamento. La retorica del viaggio (e quella – potremmo aggiungere – della globalizzazione) non deve privare del diritto di essere padroni e custodi del proprio territorio, per piccolo e periferico che sia.

Ma – e qui sta la chiave – il legame non deve servire a erigere barriere, a difenderlo la propria terra e la propria storia dall'altro: al contrario, è proprio la dimensione dello scambio a sostenere il senso di ogni discorso culturale e identitario. Così – in definitiva – occorre poter offrire il proprio territorio: lasciarsi viaggiare, per poter viaggiare.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti