Ballard e Artaud


(in Archeologie del virtuale, ombre corte, Verona 2001, pp. 81-86)

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’è qualcosa di inquietante, anzi di francamente incomprensibile, alla prima lettura di Crash, che va oltre alla prevedibile repulsione per la crudezza delle scene di sesso e alla apparentemente bizzarra associazione con lo strazio dei corpi operato dall’incidente automobilistico. Moltiplicata per decine e centinaia di volte (data la natura iconica di un’opera cinematografica), una sensazione analoga è probabilmente responsabile delle reazioni scomposte che hanno accolto il film di Cronenberg tratto da questo romanzo e uscito nelle sale nel 1996 – reazioni che sono andate al di là della scontata ostilità di gruppi religiosi o tradizionalisti, e anche dei settori più retrivi del movimento femminista.

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Che cosa disturba, più di ogni altra cosa in Crash, anche chi non è pregiudizialmente ostile a Ballard o a una descrizione del sesso ai limiti della pornografia? Credo che sia la difficoltà di leggere il libro nei termini di una metafora. L’introduzione aggiunta da Ballard all’edizione francese di Crash nel 1974 (l’anno successivo all’edizione inglese) paradossalmente non aiuta la lettura in questo senso, ma la complica. In essa infatti l’autore afferma di avere usato l’automobile “come metafora totale della vita dell’uomo nella società odierna.” Rivendica quindi al romanzo “un ruolo politico nettamente distinto dal suo contenuto sessuale,” e la qualità di “primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia.” “Il fine ultimo di Crash, inutile dirlo,” prosegue Ballard, “è quello di monito, di messa in guardia dal mondo brutale, erotico e sovrailluminato, che sempre più suasivamente c’invia il suo richiamo dai margini del paesaggio tecnologico.” Senza togliere nulla del suo valore a questa introduzione, che rappresenta uno dei più chiari e incisivi documenti della poetica ballardiana, bisogna osservare però che essa non spiega sino in fondo il carattere del libro. Il “monito” di Ballard avrebbe sul lettore infinitamente meno appeal se, nel corso del romanzo, trasparisse un atteggiamento di esplicita condanna nei confronti dell’ossessione sessuale di Vaughan, della compulsiva lettura della tecnologia dell’automobile in termini di sesso, della glorificazione dello scontro automobilistico come accompagnamento, anzi come elemento centrale dell’orgasmo. Se quella dell’automobile è una metafora, essa è una metafora resa pervicacemente letterale, sino a occupare tutto l’orizzonte del romanzo. Se Ballard intendeva denunciare gli “inimmaginabili mezzi di sfruttamento delle nostre psicopatologie” messi a disposizione dalla tecnologia moderna, questa denuncia non è svolta da un punto di vista “esterno” al mondo che egli descrive: tutto, in Crash, è interno a questa continua, insistente corrispondenza, a questa inquietante ma anche esaltante imbricazione dell’uomo con la tecnologia.

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La scelta stilistica di Crash rafforza questa sensazione di universo concentrazionario. Abbandonati gli sperimentalismi e la scrittura criptica e spezzata di La mostra delle atrocità, di cui Crash rappresenta una gemmazione, Ballard ci dà qui uno dei migliori esempi della sua prosa clinica, apparentemente fredda e distaccata, in cui la distanza dell’eccesso analitico, paradossalmente, si rovescia in una adesione fortissima al suo mondo narrativo. Non ci sono punti di vista specifici dei singoli personaggi, in Crash, ma una visione unica iterativamente modulata, un occhio comune, oggettivo, avvolgente tanto quanto segmentante, che lascia ai personaggi ogni responsabilità della passione raggelata e frenetica che li anima. Vediamo un esempio di questo sguardo “totalizzante ma non universale” (per dirla con Pierre Lévy), apparentemente così vicino e invece così lontano dal romanzo classico:

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Io abbassai lo sguardo sui suoi calzoni macchiati di seme, eccitato da quell’automobile macchiata del muco di ogni orifizio del corpo umano. Pensando alle foto dei questionari, mi resi conto che esse definivano la logica dell’atto sessuale tra Vaughan e me. Le sue lunghe cosce, la durezza di anche e natiche, gli sfregiati muscoli di stomaco e torace, i suoi pesanti capezzoli, invitavano, tutti insieme, le innumerevoli ferite che stavano in attesa fra bottoni e pomelli sporgenti dell’interno della macchina. Ciascuna di codeste ferite immaginarie era il modello dell’unione sessuale tra la pelle di Vaughan e la mia. La tecnologia deviante dello scontro automobilistico sanzionava di per sé ogni atto perverso. Per la prima volta, una psicopatologia benevola ci chiamava ammiccando: una psicopatologia che aveva il suo tempio nelle decine di migliaia di veicoli in movimento sulle autostrade, nei giganteschi reattori di linea in volo sopra le nostre teste, nelle più umili strutture stampate e nei più umili laminati commerciali.

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La “psicologia” del romanzo classico, l’indagine delle motivazioni, dello spessore storico dei personaggi, qui è scomparso del tutto. Non c’è più storia, solo geografia. La geografia di quelli che Marc Augé, quindici anni dopo, definirà “non luoghi”: aeroporti, stazioni di servizio, parcheggi. La geografia dei corpi dei personaggi e dell’interno delle automobili, che collidono sino a formare un’unica superficie continua su cui si distribuiscono le relazioni e i flussi di desiderio che attraversano tanto gli esseri umani quanto le macchine. Le descrizioni dei corpi come territori tornano più e più volte nel corso del romanzo: “Nell’abbagliato reame di violenza e tecnologia ch’era il suo cervello”; “L’evanescente cicatrice del suo viso demarcava questi motivi nascosti come la frontiera segreta di un territorio annesso”; “Mi sentii muovere in un terreno i cui contorni conducevano, entro il mio cranio, a un ambiguo dominio”; “Osservando il cielo serale, mi parve che il seme di Vaughan irrorasse l’intero paesaggio, potenziando le migliaia di motori, circuiti elettrici e destini privati, e irrigando anche i più piccoli gesti delle nostre esistenze.”

Ecco allora che cosa troviamo difficile capire, in Crash. Non siamo abituati a una simile autonomia del corpo. In Crash i corpi hanno perso ogni riferimento a una funzionalità tradizionale, la loro articolazione non è più in funzione di una storia biologica ordinata, né di una psiche in formazione: la cultura che essi esprimono è veramente una cultura aliena, eppure proprio per questo riesce a illuminare il nostro rapporto col mondo di un senso improvviso, come una luce cruda, radente e livida. C’è un passo, a poco meno di metà del libro, in cui tutto ciò viene espresso nel modo più incisivo. Ballard (il personaggio Ballard, che è anche narratore) sta sfogliando l’album fotografico raccolto da Vaughan sull’incidente che apre le vicende del romanzo, quello in cui Ballard ha provocato la morte del marito di Helen:

L’interesse di Vaughan per me era chiaramente minimo: ciò che a lui interessava non era il comportamento di un produttore quarantenne di film pubblicitari televisivi, bensì l’interazione fra un individuo anonimo e la sua macchina, i transiti del corpo di questo attraverso il lucido dei pannelli di cellulosa e dei sedili vinilici, il volto del medesimo profilato contro le scale di strumentazione.

Nel termine “transiti” (transits) emerge chiaramente la funzione del corpo in Crash: non più sede di una identità stabile e duratura, centro organizzatore di una soggettività funzionalizzata a un’organizzazione sociale coesa e significativa, ma sede di un attraversamento, luogo di una fusione panica con l’esterno – con il mondo – mediata dalla tecnologia, superficie su cui scorre un flusso di energia e di desiderio. E tutto Crash pare ammonirci che non c’è modo di sfuggire a questo mondo “brutale, erotico e sovrailluminato” se non vivendo sino in fondo, anche sino alla morte (come capita a Vaughan) questa esperienza. La salvezza si può trovare solo nella direzione del pericolo. Il corpo sovraesposto, inciso, tecnologizzato di Crash è insieme l’inferno e la possibile fuga dall’inferno. Perché, come scrive sempre Ballard nell’introduzione, “il ‘fatto’ principale del XX secolo è il concetto di possibilità illimitata,” e questo ha portato il futuro a cessare di esistere, “divorato dall’onnivoro presente.” Ora, dove abbiamo trovato altrove, nel Novecento, una simile concezione del corpo come sede di processi sociali innervati nell’interno dell’individuo, come strumento di un’ontologia radicale del dolore, come dannazione ineludibile e insieme come possibile via di fuga?

C’è un solo paragone possibile, per quanto distante questo ci porti, per quanto grande sia la differenza di storia, di ispirazione, di stile fra i due personaggi. Non riesco a pensare ad alcun precedente del corpo in Crash che non sia il corpo senza organi urlato da Artaud pochi mesi prima di morire, tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948, nella trasmissione radiofonica Pour en finir avec le jugement de dieu (Per farla finita col giudizio di dio), trasmissione registrata ma mai andata in onda prima del 1999. Il corpo senza organi è il concetto misterioso, denso, affascinante, radicale, che Artaud ha lasciato in eredità al Novecento – e credo anche al secolo successivo – come contributo per la comprensione della condizione umana all’epoca del declino della modernità.

In un suo studio recente, ben documentato e molto acuto (Antonin Artaud. Verso un corpo senza organi), Lorenzo Chiesa ha mostrato come la nozione di “corpo senza organi” sia legata in Artaud a una ontologia, anzi a una vera e propria cosmologia, fondata sul fenomeno del dolore. Chiesa argomenta come secondo Artaud il dolore possa essere imposto dall’esterno, dal meccanismo di colpevolizzazione sociale che Artaud identifica con Dio, o invece scelto e in qualche misura padroneggiato dall’individuo. “A questo punto,” conclude Chiesa, “non ci dovrebbe stupire il fatto che un corpo senza organi, corpo che elimini Dio, la sudditanza organica da lui imposta e con essa ogni trascendenza, vada inteso come la ricerca di un corpo dal dolore proprio. Il corpo organico, corpo dell’uomo trascendente, coinciderà al contrario con il corpo del dolore improprio, espropriato da Dio e dall’altro. (…) Un corpo senza organi sarà di conseguenza anche il solo corpo ad essere veramente; un corpo senza organi sarà il solo corpo, uso necessario del tempo futuro rispetto a un’attualità necessariamente trascendente.” Non diversamente, in Crash, il corpo erotizzato dall’incidente automobilistico nega il proprio presente di corpo organico e funzionalizzato per alludere a una fusione panica con la tecnologia situata fuori del tempo.

Coerentemente con la sua impostazione, Chiesa trascura quasi del tutto la rilettura del corpo senza organi fatta da Deleuze e Guattari, già nell’Anti-Edipo e poi, più distesamente, in Millepiani. Tuttavia il corpo senza organi di Deleuze e Guattari si rivela uno strumento eccezionalmente pertinente per leggere Crash. Per Deleuze e Guattari il Corpo senza organi (Cso) rappresenta la superficie, il “piano di consistenza o il campo d’immanenza del desiderio,” e in Millepiani viene da essi presentato come un uovo, “l’uovo pieno prima dell’estensione dell’organismo e dell’organizzazione degli organi, prima della formazione degli strati.” E dato che il desiderio non è una nozione univoca, ma comporta processi ambigui e contradditori, anch’essi distinguono tra un Cso propriamente detto e dei Cso cancerosi, generati dalla stratificazione, “totalitari e fascisti, terrificanti caricature del piano di consistenza.” Nell’Anti-Edipo il Cso è “l’improduttivo, l’inconsumabile, [che] serve da superficie per la registrazione di tutto il processo di produzione del desiderio,” sicché le macchine desideranti “si attaccano su di esso.” In Millepiani, invece, Deleuze e Guattari lo descrivono così:

 

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Un Cso è fatto in maniera tale che è occupato, popolato solo da intensità. Solo le intensità passano e circolano. Inoltre il Cso non è una scena, un luogo e neppure un supporto dove accadrebbe qualcosa. Niente a che vedere con un fantasma, niente da interpretare. Il Cso fa passare delle intensità, le produce e le distribuisce in uno spatium anch’esso intensivo, inesteso. Non è spazio e non è nello spazio, è materia che occuperà lo spazio a questo o quel grado – al grado che corrisponde alle intensità prodotte. È la materia intensa e non formata, non stratificata, la matrice intensiva, l’intensità = 0, ma non c’è nulla di negativo in questo zero, non ci sono intensità negative né contrarie. (…) [Il Cso è] l’uovo intenso che si definisce per assi e vettori, gradienti e soglie, tendenze dinamiche con mutazioni d’energia, movimenti cinematici con spostamento di gruppi, migrazioni, tutto questo indipendentemente dalle forme accessorie, poiché gli organi appaiono e funzionano qui come intensità pure.

I testi a cui fanno riferimento Deleuze e Guattari sono testi clinici sul masochismo, Il pasto nudo di Burroughs e altri. Ma la descrizione del loro Cso si adatta altrettanto bene ai processi presenti in Crash. Anche in Crash gli organi “appaiono come intensità pure”, e ci sono movimenti cinematici, spostamenti, migrazioni. Vaughan e Ballard, Helen, Catherine, Gabrielle e Seagrave utilizzano la sessualità distruttiva dell’automobile per ripercorrere a ritroso il cammino che li ha portati alla differenziazione, alla soggettivazione, alla significazione. Nel loro universo circola un equivalente generale del desiderio che è il moto e la collisione.

Catherine si stese a gambe aperte, la bocca sollevata verso Vaughan, che la sfiorò con le sue labbra, facendole provare una volta per tutte le sue cicatrici. Questo atto, sentii, era un rituale privo di sessualità ordinaria, un incontro stilizzato fra due corpi ricapitolanti il proprio senso di moto e collisione (their sense of motion and collision).

Assi e vettori, gradienti e soglie. Non c’è negatività in Crash, non c’è consumo orgiastico della sessualità, gli stessi orgasmi configurano degli “incontri stilizzati” piuttosto che la soddisfazione di una pulsione. Il corpo di Crash è esattamente un piano di immanenza, la superficie sulla quale i suoi personaggi distribuiscono e fanno circolare i flussi del desiderio, le derive deterritorializzanti a cui consegnano l’unica creazione di senso possibile in un mondo di assi e vettori. Il corpo di Crash è uno dei possibili corpi senza organi nell’era della tarda modernità.

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Gli autori di Vorrei
Pino Timpani

"Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare contrade a venire." (Gilles Deleuze & Felix Guattari: Rizoma, Mille piani - 1980)
Pur essendo nato in Calabria, fui trapiantato a Monza nel 1968 e qui brianzolato nel corso di molti anni. Sono impegnato in politica e nell'associazionismo ambientalista brianzolo, presidente dell'Associazione per i Parchi del Vimercatese e dell' Associazione Culturale Vorrei. Ho lavorato dal 1979 fino al 2014 alla Delchi di Villasanta, industria manifatturiera fondata nel 1908 e acquistata dalla multinazionale Carrier nel 1984 (Orwell qui non c'entra nulla). Nell'adolescenza, in gioventù e poi nell'età adulta, sono stato appassionato cultore della letteratura di Italo Calvino e di James Ballard.

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