I testi e il video dei due spettacoli teatrali di Mario Perrotta e Nicola Bonazzi sugli emigranti italiani degli anni Sessanta.
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Italiani cìncali!
Parte prima: minatori in Belgio
di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Lo spettacolo diretto e interpretato da Mario Perrotta ha debuttato in prima nazionale il 23 settembre 2003 al Teatro dell’Orologio di Roma
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Il filmato dello spettacolo presentato da Arcoiris
(MARIO e PINUCCIO non sono personaggi distinti, ma le due facce dello spettacolo. Mentre con MARIO indichiamo i momenti autobiografici e di cronaca, con PINUCCIO lo stesso interprete dà voce al “testimone oculare” di quelle vicende)
MARIO: 1980. Ho dieci anni. Mio padre lavora a Bergamo non per necessità ma per scelta. Una volta al mese ci vado anch’io per controllare l’apparecchio ai denti, messo a Milano in uno studio specializzato. E’ un buon motivo per vedere più spesso mio padre. Mia madre lavora e deve badare a mia sorella per cui, sull’espresso Lecce – Milano vengo puntualmente affidato alla prima famiglia di emigranti che ispiri fiducia all’occhio ormai esperto di mia madre. Si parte. Mi osservano. Mi chiedono il nome. Il treno in corsa è terra di nessuno, dodici ore di anarchia assoluta che mi fanno dimenticare la paura di quel viaggio. Allora? Come ti chiami? Rispondo alla domanda, con sincerità, per la prima e ultima volta. “Mario. Mario Perrotta”. Il resto del viaggio sfogo tutta la mia immaginazione inventando storie fantastiche su mio padre e mia madre che di volta in volta diventano, ingegnere, cuoca, muratore, professoressa, attore, dentista ovviamente, emigrante: sì, anche emigrante pensavo che fosse una professione… “Sì ma, emigrante in che senso? Lavora in fabbrica, contadino, fabbrecaturu” (cioè muratore), “cammeriere, minatore?”
“Minatore!” Minatore mi piace.
“Ah, in Belgio?”
“No, a Bergamo”
“A Bergamo?”
“A Bergamo!”
“Ah!”
Squinzano, Brindisi, Ostuni, Monopoli, Bari, Bisceglie, Trani, Barletta…
Osservo le loro facce, ascolto i discorsi sui parenti che hanno appena salutato, mangio la parmigiana che puntualmente mi offrono e mi chiedo dove sarà mai questa Schaffausen. No, io scendo a Stoccarda dice un altro. Parlano del lavoro. Dicono che non è più duro come una volta. Basterebbe, in fondo, che la fabbrica fosse a Lecce e non a Bruxelles per essere felici.
“A Bruxelles ho fatto le scuole elementari”
“Ah si?”
“Sì, mio padre faceva il calciatore lì”
“E adesso?”
“Gioca col Bergamo”
“Col Bergamo?”
“Col Bergamo!”
“Ah!”
Cerignola, Foggia, Vasto, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Ancona, Fano…
Dormono da un po’ di ore. Io no. Ripercorro con lo sguardo il paesaggio notturno che cambia, costruendo viaggio dopo viaggio, una personalissima idea geografica dell’Italia fatta di profili di luci in lontananza e immensi bui, rotti all’improvviso dai neon delle stazioni di transito. Passeggio nel corridoio e spio negli altri scomparti. Dormono stesi ad incrocio, i piedi di uno sulla faccia dell’altro. Puoi capitare come niente sotto l’ascella o il ginocchio di un altro se non fai attenzione. Il colore dei calzini di quel ragazzo non promette nulla di buono. Le facce però, restano la cosa più affascinante. Sospese in un’espressione da viaggio perenne, come chi non sa più da dove viene e dove è diretto, straniero due volte dice qualcuno di loro.
“Ehi, qua stai? Mi è preso colpo. Dove vuoi andare?”
“Dal macchinista”
“A che fare?”
“E’ mio zio”
“Tuo zio?”
“Mio zio!”
“Ah!”
Rimini, Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza…
L’alba ti coglie sempre tra Faenza e Bologna, questo me lo ricordo. A Bologna c’è sempre qualcuno che scende. Chi, alla stazione di Lecce, non era arrivato abbastanza in anticipo per buttare le valigie nel treno per prendere posto o addirittura per entrare dal finestrino, sa che a Bologna un posto lo trova da sedersi, almeno metà viaggio…
Cominciano a risorgere dietro i vetri degli scomparti, ma le facce non sono più le stesse, adesso tra le nebbie della bassa lo sanno chi sono e dove stanno andando e glielo leggi in faccia. Non è più tempo di racconti e fantasie.
Piacenza, Lodi, Milano Garibaldi…
“Grazie di tutto, signora…”
“Di niente. Saluta a tuo padre… e digli che si ricordi di noi ora che lo fanno ministro…”
“Va bene…”
Milano Centrale. 1983. non li ho più visti per quasi vent’anni.
2002. Un bar qualsiasi di un paese qualsiasi del Salento:
“Qui? Qui siamo tutti emigrati. Chiedi a lui, lui sa tutte le nostra storia…”
Mi dicono di parlare con il postino. Il postino conosce le storie di tutti gli emigranti del paese. Il postino ha memoria! E la memoria è importante, perché -…ne abbiamo sempre meno… -
perché -…qualcuno l’avrà pure permesso quel boom economico… -
perché -…l’Italia girava in Cinquecento e noi dormivano in otto in una stanza… -
perché -…siamo stati venduti dallo Stato per un sacco di carbone… -
perché -…mi vergogno di raccontare a mio figlio quello che siamo stati e come ci hanno trattati… -
la memoria è importante....
PINUCCIO: Io? Io la conosco bene la storia delle nostre terre, fino dalla preistoria e oltre ovvero da quando sono venuti i Longhibardi e si era se non sbaglio attorno all'anno Ottocento che è un gran bel pezzo indietro perché se non sbaglio, Signuria mi corregga, oggi siamo nel Duemila ovvero milleduecento anni dopo, siccome che io so leggere e scrivere e anche far di conto e per questo m'hanno scelto di fare il postino, ché qua nessuno era capace e così ci voleva uno che leggesse al posto loro e io modestamente era il mio lavoro, recapitare e leggere, recapitare e leggere, dove lo trovi un altro postino che si mette a leggere per la povera gente? Di solito quelli recapitano e basta, li conosco io i postini del Nord, in mezz'ora si sono sbrigati e chi s'è visto s'è visto. Signuria mi potrà confermare siccome che se non sbaglio mi sembra che venga dal Nord. E così se viene dal Nord sono fortunato perché conoscerà sicuramente la storia dei Longhibardi che come dice il nome venivano da Milano. E giunti qui nelle Puglie si sono presi la parte di Benevento e piano piano tutto il resto tranne qualche zona che è rimasta come dire sfusa ed erano le parti più povere, Salento Otranto Gallipoli, anche perchè qui c’erano i bisantini, che erano sfaticati, ma quella volta si messero a combattere e li fermarono appunto alle porte di Brindisi e poco sopra Reggio Calabria. Insomma salvarono la punta e il tacco dello stivale, più la Sicilia, motivo per il quale noi e i messinesi parliamo lo stesso dialetto, e con un barese invece, non mi capisco neanche se scinde subbra la terra lu Patreternu. Dunque. I Longhibardi scesi al sud, come dicevo, tutto si sono bevuti tranne queste zone che era un po' come il fondo della bottiglia, magari ci provi a berlo ma quando senti il sapore lo sputazzi fuori in fretta e furia e si vede che il Salento l'han scaracchiato fuori ch'era proprio indigesto. Ma dopo, qualcuno che il Salento se l'è preso l'abbiamo trovato e questi erano i Saracini che come sa bene, quelli, sono più poveri di noi e non rifiutano niente ed erano i progenitori di quelli che adesso arrivano con le barche stipate per trovare fortuna, si vede proprio che sono rimasti poveracci se la fortuna vengono a cercarsela qua nella nostra terra. Ma quelli, i progenitori, erano più attrezzati e più in carne così hanno cominciato la guerra con i Longhibardi per prendere la terra e questa guerra è durata immensamente, millanta e millanta, fino a quando non sono venuti i normanni che, com'è come non è, li hanno spazzati via tutti e dopo altri millanta sono venuti gli svevi che, com'è come non è, hanno spazzato via i normanni e per non farla troppo lunga dopo millanta son venuti gli angiolini e dopo millanta son venuti i regonesi, e mentre c'erano i regonesi son venuti pure i turchi con le navi corsare a prendersi le nostre donne ovvero il fiore delle donne, e tutta la nostra roba, ovvero niente, ché di qua eran già passati i bizantini i Longhibardi i saracini i normanni gli svevi gli angiolini i regonesi e oramai non trovarono più niente neanche gli occhi per piangere. E per ultimi sono venuti i Barboni da Napoli che come dice il nome erano forse i più poveri di tutti ma sono restati più di tutti gli altri perché come Signuria sa bene la miseria fa l'uomo tignoso, cioè quello che c'ha se lo tiene ben stretto anche se non ha niente, per non rischiare di avere ancora di meno cioè meno di niente che è proprio nientissimo, il nulla fatto e sputato senza prospettive di miglioramento. E tutte queste cose le conosco perchè me le ha raccontate mio padre, persona molto colta che faceva il bracciante. Ovvero lui ha fatto il bracciante lunghi anni sotto padrone, patrùno Vito si chiamava, persona molto ammodo e istruita che ci teneva che i lavoranti avessero pure loro un certo qual grado di istruzione in special modo mio padre al quale lui ci voleva molto bene perché era un bracciante serio onesto e gran lavoratore. Così alla fine della giornata nostro padre veniva e ci raccontava tutte queste storie ovvero sia la storia della nostra terra, che come si può vedere è una storia di miseria infinita da cima a fondo. E infatti, dopo quel lungo periodo dei Barboni di Napoli vennero le guerre, quelle mondiali, che portarono appunto la miseria più nera, soprattutto la seconda, che quella me la ricordo anch’io per il fatto che sono cresciuto in quegl’anni a pane e acqua e zanguni bolliti, detti in italiano tarassaco, zanguni che crescono spontanei nonostante la guerra. Dunque queste cose dove andranno a finire? Nel teatro? E quando va in onda questo teatro? Se si può sapere quando va in onda sarebbe per me un grande piacere e orgoglio d'aver contribuito a farlo in qualche modo siccome che noi povera gente si vive anche di queste soddisfazioni. La migrazione? Dunque Signuria è sceso fino a qui per sapere della migrazione? Signuria mi scusi se parlo aperto ma la migrazione è un fatto come dicevo di miseria nera e questo tutto il mondo lo sa e più ancora lo so io che conosco a nenadito tutte le storie di tutti i migranti di qui. Dov'è che ho migrato? Io non ho migrato per niente ma è come se avessi migrato più di tutti gli altri da un posto a un altro così che ora questi posti li conosco benissimo, Brussèl Nesciatèl Mattemarche Stuttegarte Zuricche e Lièsce. Dice: e allora? come fai a conoscerle se non ci sei mai andato? Signuria dimentica forse che faccio il postino? Eh noi postini questo c'abbiamo di buono, che viaggiamo più di tutti gli altri anche se stiamo fermi. E così ho potuto conoscere a nenadito tutte le città ovvero Brussèl Nesciatèl Mattemarche Stuttegarte Zuricche e Lièsce.
Giustamente. Dunque. La guerra aveva portata la miseria più nera, e la miseria più nera porta tristezza e la tristezza porta la disperazione la quale è una cosa brutta bruttissima quasi peggio dell'inferno, lo stomaco ti piglia e tutte le membra e la testa infine, che sragioni e non vuoi vedere nessuno e la terra maledici dove sei nato. Una malìa, se Signuria m'intende. Ed io lo so bene perché l'ho vista. E volete sapere come nasce la malia della disperazione? Dalla miseria, che gira gira come vede sempre lì stiamo. Ora. Giustamente il periodo della disperazione, coincise più o meno con la morte di patrùnu Vito, e si era nell’anno 1945, precisamente 25 aprile 1945: questa data non me la potrò mai scordare. Dicevo la disperazione venne per il fatto che la terra passò tutta al figlio di patrunu Vitu che di nome non voglio neanche ricordarlo, il quale in paese sarà venuto una volta o due e per il resto stava sempre a Roma, per studio si diceva, ma io sospetto a spassarsela, perchè studiare si può studiare ovunque, ma spassarsela ci vogliono le condizioni adatte, come per esempio macchine e locali e femmine compiacenti, cioè tutte cose che qui non si trovano per niente mentre a Roma sì. Comunque. Questo figlio di patrunu Vito - figlio d'un cane direi, senonche patrunu Vito era tutt'altro che un cane, anzi uno stallone lucente era, bello e buono come nessuno al mondo - questo figlio, dicevo, alla terra non ci portava amore, proprio non ne voleva sapere, se era per lui poteva pure sprofondare e venirci un buco in mezzo, buio e nero come l'inferno e così la terra se n'andò in rovina e insieme alla terra pure il paese e nessuno sapeva più come campare. Questa fu la malìa. Io a quel tempo già facevo il postino in quanto che il postino di prima aveva finito il servizio e m'aveva scelto a successore. Tutto grazie a patrunu Vito, il quale m'invitò in casa quando ci venne per la prima volta il maestro per il figlio, figlio d'un cane che non voglio nominare, e dopo quella prima volta, siccome dissi che m'era piaciuto, m'invitò pure le altre e alla fine ci passai più di un anno tutti i pomeriggi e m'imparai ogni lettera dell'alfabbeto e la grammatica e le frasi intere intere dal principio fino al punto. E tutto questo per un postino ha grande valore, soprattutto qui in paese, dove a leggere sono pochi e delle femmine nessuna, mentre che per un pezzo solo femmine sono restate e tra poco gliene dico la ragione. Insomma, quando Franco, il postino, lasciò il servizio, solo in due potevamo sostituirlo, cioè io e il figlio d'un cane, ma il figlio d'un cane era figlio del patrunu e se n'andò a Roma così che io, all'età di anni quattordici, mi misi la borsa a tracolla, la bicicletta tra le gambe e cominciai questa famosissima attività del postino. E passato un anno cominciò pure la rovina della terra e della gente tutta. Tanta rovina che non c'era più terra e dunque non c'era più lavoro e dunque non c'era più roba per nessuno. Una malìa. E questo sarà durato un anno. Ma una mattina avvenne il miracolo. Stavo sulla mia bicicletta con la mia borsa a tracolla, e gira che ti gira mi sembrava di essere finito dentro un sogno in quanto che le strade erano deserte, non ci vedevi anima viva ed era tutto un silenzio come all'inizio del mondo, ché così doveva essere l'inizio del mondo come studiai a casa di patrunu Vito. Insomma mi pareva che era peggiorata la malìa e già stavo bestemmiando tutti i santi che siedono in Paradiso, sia detto con rispetto dei santi che fanno bene a stare seduti in quanto che hanno lavorato tutta una vita a fare cose faticose come i miracoli. Ma non appena sbuco in piazza, tutti lì li trovo, fitti fitti, tutti che guardano dalla stessa parte. E che è? dico: io mi pensavo che il signor duce Benito Mussolini l'avevano messo a riposo, ché quella adunanza solo una volta s'era vista, cioè quand'era venuto il signor duce Benito Mussolini a magnificare la fertilità della terra. Se l'hanno messo a riposo una ragione doveva esserci. Dunque lascio la bicicletta e mi faccio avanti e infatti scopro che non è per niente il signor duce Benito Mussolini, ma Angelino Paternò che legge per tutti una reclame appiccicata alla porta del municipio. Oddio, legge...ci prova, in quanto che, come le dicevo, qua leggere è sempre stato un lusso e anche chi un poco se ne intendeva pativa delle grosse difficoltà dovute alla scarsa educazione. E infatti Angelino stava lì da mezz'ora ma solo due parole aveva letto cioè "grande" e "occasione", che tutto insieme fa "grande occasione". Perciò quando mi videro diedero in esultanza e mi spinsero davanti ala reclame perché la leggessi un poco più speditamente di Angelino, della qual cosa Angelino deve pure essersi risentito in quanto che da allora non m'ha più rivolto la parola. Cose che succedono. Comunque vado e leggo. E sopra c'era scritto un miracolo, come dicevo prima, ovvero più o meno così: “Annuncio annuncio! Grandi occasioni di impiego nelle miniere del Belgio. Lavoro poco faticoso e ottimamente retribuito. Vitto e alloggio convenientissimi. Possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia dopo qualche mese. Non sprecate questa opportunità presentatevi all’ufficio di collocamento del paese, accorrete accorrete”. Ora è chiaro che non appena ho letto ad alta voce questa reclame tutti si sono guardati negli occhi non sapendo bene cosa credere, ma i più si credevano che era uno scherzo anche perché questo ufficio di collocamento nessuno sapeva dove stava né se esisteva. Infatti a voler essere precisi l’ufficio di collocamento dovrebbe starci per trovare lavoro alle persone, ma qui da noi lavoro non c’era perciò questo benedetto ufficio risultava chiaramente inutile, non so se mi spiego. E dopo un lungo silenzio s’è levato un mormorio diffuso generale che voleva dire più o meno: bella roba prenderci per il cosiddetto culo, sia detto sempre con grande rispetto di Signuria che magari certe parole gli ribollono il sangue. Ma insomma tutti fanno per andarsene, quando un grido piove dal cielo: è qui è qui! E questo era Mariolino Spriano affacciato alla finestra dell’anagrafe che non si sa come aveva scoperto l’ufficio collocamento, in quanto che non essendo attrezzati, tale ufficio l’avevano affidato a Vitaliano Fondelli anagrafista, cioè colui che da sempre si occupava di nascite e morti e documenti vari lì al paese. E dopo un primo momento di smarrimento dovuto al cognome di questo Vitaliano Fondelli che come ben si capisce c’era sempre da aspettarsi qualcosa di poco chiaro, tutta la folla si dirige all’anagrafe che sembravano un branco di tori di buoi imbufaliti con grande pericolo per l’incolumità stessa della folla medesima. E questo fu l'inizio.
DOCUMENTO SONORO CON LA VOCE DELL’ONOREVOLE BRUSASCA
MARIO: E’ il Sottosegretario agli Esteri onorevole Brusasca che parla, alla Settimana Incom. Il 23 giugno 1946, soltanto venti giorni dopo il referendum monarchia-repubblica, l’Italia aveva concluso l’accordo con il Belgio per l’invio di manovalanza italiana nelle miniere. I termini erano i seguenti:
Invio di 50.000 operai nazionali sotto i 35 anni e di ottima salute, in convogli settimanali da 2.000 unità.
Per ogni minatore italiano l’Italia avrebbe ricevuto 200 Kg di carbone al giorno.
In ogni angolo d’Italia nascono uffici Emigrazione, spuntano come funghi uffici di collocamento. La burocrazia italiana, per la prima e ultima volta, da prova di un’efficacia micidiale. In un anno si chiudono accordi con la Svizzera, la Francia, l’Austria, l’Inghilterra, la Svezia, l’Argentina e il Cile. Ma per il Belgio si fa qualcosa di più. Perché il carbone serve subito, serve per ricostruire. Milioni di manifesti rosa invadono l’Italia recando la “grande occasione” a “condizioni particolarmente vantaggiose per un lavoro sotterraneo nelle miniere belghe” indicando i salari giornalieri, i premi di produzione, il tasso di cambio, gli assegni familiari, il carbone gratuito, i biglietti ferroviari gratuiti, il premio di natalità, gli alloggi dignitosi e a prezzo moderato. E ancora: approfittate dei vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori; Il viaggio dall’Italia al Belgio in ferrovia dura solo 18 ore; compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio. L’America trasferita in Europa, praticamente.
La prima visita la facevi nel tuo paese, ma lì c’era il rischio di imbrogli, di raggiri, si sa come sono questi italiani.
La seconda nel capoluogo di provincia. Qui spesso erano presenti ispettori statali meno compiacenti. L’ispezione era più approfondita per accertare l’ottima salute e anche la condotta politica possibilmente di centro.
Dopo circa sette giorni i candidati minatori partivano in gruppo da ogni capoluogo d’Italia diretti a Milano, caserma S. Ambrogio. Qui la permanenza dura tre giorni e se, per caso, qualche svista c’era stata nelle visite precedenti qui dovevi affrontare l’infallibile commissione italo-belga. Medici, burocrati e ingegneri delle miniere, ti sottoponevano ad una serie severissima di esami: visita medica generale, radiografie, ispezione dentale, epidermica, genitale, ispezione anale, rilevamento delle impronte digitali di tutte e dieci le dita. A centinaia vengono rispediti a casa per i motivi più svariati. Gli altri attendevano nei sotterranei della stazione di Milano che si formasse il contingente di 2000 uomini per il treno settimanale che ti portava in Belgio. Una volta saliti, il treno veniva blindato e scortato dalla polizia sino alla stazione di arrivo. Per questioni di sicurezza. Tra gli emigranti si nascondevano in borghese gli informatori dello Sicurezza belga per individuare i possibili caporioni facinorosi. Il treno era con i sedili di legno e senza riscaldamento. Nonostante questo, il viaggio durava anche 52 ore… 18 avevano scritto sul manifesto…52 ore per motivi di sicurezza.
Arrivati a destinazione il treno fermava allo scarico merci dove alcuni addetti delle miniere smistavano a gran voce o col megafono i candidati in carovane distinte per ogni miniera. Un’altra visita accurata, che non fa mai male, poi degli autocarri addetti di solito al trasporto di carbone veniva riempiti col carico e si dirigevano verso gli alloggi. Ah, a proposito, gli alloggi dignitosi e a prezzo moderato erano le baracche dei campi di concentramento nazisti appena sgomberate dai prigionieri russi.
Sì, insomma, c’erano queste ed altre condizioni, ma non le avevano scritte sul manifesto, credo per questione di spazio.
Tipo: Se ti rifiuti di scendere in miniera vieni arrestato e accusato di rescissione del contratto.
Prima di poter cambiare lavoro restando in Belgio, sei costretto a cinque anni di miniera, altrimenti a casa.
Per avere diritto alla pensione devi avere minimo dieci anni di miniera sulle spalle e almeno il 66% di silicosi nei polmoni.
Non le avevano scritte… non gliele avevano neanche dette…no, dico… a stento parlavano la loro lingua, l’italiano… figuriamoci capire il francese… o il fiammingo…
PINUCCIO: Insomma non so se fu colpa del governo italiano o di quello belgo, ma fu una porcata. Comunque. Questo della miniera nella Belgìch è un lavoro anche strano. Infatti bisogna sapere che in mina mica c'è solo il minatore ovvero sia quello che scava il carbone, ma anche per esempio il manovale, il macchinista, il badilante… Ora,una volta che eri pronto, con tutti i tuoi attrezzi, la medaglietta che non sia ti perdevi, ti facevano scendere con l'ascensore e quando dico scendere intendo proprio nel fondo della terra un chilometro due chilometri chi può sapere? E io quando lessi queste cose non ci volevo credere, perché se uno ci pensa non gli sembra vero che si può scavare fino a là, ma invece è proprio così e questi belghi ne sono la prova, del fatto cioè che hanno i mezzi per fare queste diavolerie. Appunto: se Signuria pensa all'inferno pensa alla vita del minatore. E la ragioni sono queste: primo che è buio, ma tanto buio che non vedi manco i tuoi pensieri, secondo che fa un caldo da svenire, terzo i minatori finito il turno sono sporchi e neri come diavoli. E poi c'è un'altra faccenda che è quella del fuoco. Infatti là sotto sta inguattata una bestia orribile e tremenda che si chiama grisù, e questa bestia altro non è che un gas che si infila dappertutto come una biscia, striscia in silenzio e riempie tutti i buchi, sicché alla fine tu sei circondato da questo gas e non puoi ribellarti, e il meglio che ti può capitare è che ti addormenti per via del gas e ti svegli in Paradiso se devi andare in Paradiso, oppure all'Inferno se devi andare all'Inferno. Ma il peggio è invece che questo grisù esploda e con lui tutta la mina o quasi. E chi è lì in quel momento resta incenerito, carbone in mezzo agli altri carboni, buono per essere spalato da un minatore anni e anni dopo. Anche il nome ti fotte: grisù, come, che ne so, un cane o un gatto, che pensi che lo puoi accarezzare e invece è traditore. Ma nella mina c’erano pure animali buoni, per esempio i cavalli. Eh, eh! Fa strano no sapere che ci sono cavalli in mina? Quelli servivano al trasporto dei carrelli. Infatti essi vanno giù che sono piccoli, giusto le dimensioni per stare nell'ascensore, e poi non tornano più, cioè tornano quando sono morti o del tutto ciechi vale a dire dopo non molto tempo che sono scesi. Immagini infatti Signuria un cavallo che sta in mezzo al buio e alla polvere quanto può durare. Poi c’erano pure i topi in miniera, e tu ci lavoravi a contatto, tanto che il mangiare lo tenevano addosso e in scatole di ferro altrimenti i topi ti mangiavano la roba dalla tasche. E infine si portavano giù anche i canarini. Sapete perché? quando i canarini o anche i topi, scappavano via voleva dire che c’era pericolo e bisognava fuggire. E queste cose, dico del grisù, del buio, mica erano in tanti a scriverle a casa, per non fare impensierire a casa, è chiaro. Ma dopo, dico dopo qualche mese, o magari i più resistenti dopo un anno, cominciavano a scrivere com'era davvero questa vita d'inferno, perchè si vede che non ne potevano più e volevano sfogarsi. Però alla fine delle frasi più tremende, mettevano due paroline per me, tipo: questo non lo leggere a casa, oppure: questo caro Pinuccio, che sono io, lo dico solo a te ma tu non dirlo a mugghierima per non farla stare in pensiero. Insomma io sapevo davvero la verità mentre le donne niente sapevano e vivevano beate pensando al marito che stava bene benissimo lassù nella Belgìch. Così sudavano i compari nella mina, ma sudavo anch'io per inventarmi sempre qualcosa di nuovo da raccontare alle donne. E la fatica era soprattutto quando leggevo le lettere dei miei fratelli Oronzo e Giuseppe, i quali erano carne della mia carne e per questo soffrivo come un cane a sentire di mine e catapecchie e solitudini: che loro, i miei fratelli, in quanto fratelli tutto mi dicevano anche i dolori più piccoli, per esempio quando Oronzo a sentire un compare di qui che cantava “quannu te llai la facce la matina, tie beddhra mia si frisca…” si messe a piangere e non smetteva più e Giuseppe intanto pregava: vento vento porta via questa canzone che non ci veda il capomina ed il padrone, come un rosario perché si sa bene che se le preghiere sono dette a rosario hanno più effetto. Ed infatti il vento se la portò via quella canzone vigliacca e traditòra e Oronzo smesse di piangere e il lavoro riprese, ma con la morte nel cuore, la quale io la sentivo tutta addosso quella morte, perché questo di bello hanno le lettere, che tutto ti sembra vicino anche le cose più lontane e stai con tuo fratello nella mina per esempio, a piangere con lui se piange, a ridere se ride, a farti male se lui si fa male. Eccetera. Chi ha inventato le lettere è stato proprio un grand'uomo. Comunque. Il peggio era che poi queste cose mica potevo raccontarle a matrima, anzi dovevo inventare tutto e anche meglio che con le altre donne, perché quella era matrima, mica una qualunque si capisce. E siccome lei quando diceva del primo incontro con suo marito ovvero nostro padre, raccontava sempre che lui teneva due scarpe lucide lucenti che l’avevano un poco accecata e forse era per questo che s’era innamorata, così io m’inventai che Oronzo l’avevano preso in una fabbrica di scarpe sperando di farla contenta. Questo per Oronzo. Giuseppe invece m'inventai che era diventato dottore. Sissignore, dottore come quelli che girano per le case a visitare i malati e tutti li rispettano in quanto sono imparati più di tutti gli altri. Signuria dirà: come dottore se non aveva studiato? Ma nell'invenzione tutto può essere, anche diventare dottori senza studiare. Certo anche matrima ci restò un poco sorpresa, dicendo: questo Belgio deve essere proprio un posto straordinario eccezionale, se Giuseppe l'hanno fatto diventare dottore. Anche perché, ma questo detto tra di noi, Giuseppe, dei tre è sempre stato quello con meno predisposizione, il meno imparato ecco. E io rispondevo: madre che ne potete sapere? Quello, il Belgio, è meglio della Merica. La Merica era buona una volta, ai tempi vostri, ora è venuto su questo Belgio, che in fatto di lavoro non invidia nessuno, né la Merica, né Milano, né nient'altro. E' una gran cosa questo Belgio. Così dicevo, e lei zitta a stimarsi dei suoi figli, così che alla fine quello con più ritardo ero rimasto io, sempre qui a fare il postino in questo sputazzo di terra. Ma un'altra cosa molto difficile era quando dovevo leggere le lettere di compare Michele, in quanto che per me era quasi come un fratello, anzi un fratello proprio, ad essere sinceri. E questa di Michele ve la devo raccontare. Infatti da strei, da ragazzi, si andava tutti a fare i bagni in mare. E questo Michele era un poco il capo nostro, stimato e benvoluto per via della sua onestà e della sua forza. Tanto forte che se voleva ammazzava un bue con i pugni, e per questo era meglio non farlo arrabbiare. Dunque tutti facevano i tuffi, tranne io che nuotare non sapevo ancora, ma tutti dicevano: buttati Pinuccio è una scemenza, nuotare si impara nuotando. Così alla fine mi tuffai e feci male, perchè mi prese la paura e la paura in mare è la cosa peggiore. Infatti cerchi coi piedi la terra, ma sotto c'è solo acqua, e quanto più cerchi la terra tanto più vai a fondo, una rovina, se mi capite. Allora mi misi a urlare, e Michele si tuffò e venne a pigliarmi, con grande pericolo suo, perché l'uomo che sta per annegare è un peso morto, in quanto che magari è svenuto o cose simili. Perciò io ero un peso morto. Ma Michele venne lo stesso e di questo io lo ringrazio per tutta la vita e anche quando sarò morto. Ed è per questo motivo che mi legai molto a lui, e in certi momenti era quasi più dei miei fratelli, perché i fratelli erano fratelli per via del sangue, mentre lui era fratello per via dell'amore che ci portavo. Perciò quando tutti partirono, io piangevo per Oronzo e Giuseppe, ma anche per Michele. Ora il fatto è questo, che Michele teneva una moglie bellissima incredibile, la quale era donna Natalia, che voi non l'avete conosciuta ma se pensate alla donna più bella del mondo che vi piace più di tutte le altre, quella è l'immagine di donna Natalia, come un angelo con i capelli neri e gli occhi scuri e le carni sode da far ribollire il sangue. E forse è bene che non l'avete conosciuta, perché chi la conosceva, dopo, tutte le altre donne gli parevano niente in confronto. E Michele scriveva nelle lettere: caro Pinuccio, dicci tutto a mmugghierima, in quanto che è giusto che sappia come me la passo qui e tutti devono saperlo, la fregatura che c'hanno dato 'sti cani di belghi. Ma la prima volta che lessi quelle brutte cose sulle mine e le baracche dove si stava in quaranta, donna Natalia diede fuori le lacrime, che fu uno spettacolo da brividi, perché già una donna piangere è dura da vedere, ma donna Natalia ancora di più. E così anche con lei cominciai ad inventare tutto, mentre Michele scriveva ogni particolare anche i più insignificanti.
Si vede proprio che Michele ci soffriva a stare al servizio di quei belghi che gli avevano promesso chissà che cosa e invece lui doveva stare sotto terra a fare un lavoro da bestia. Ci soffriva perché era onesto, il più onesto che ho mai conosciuto, per questo era diventato frate mio. Ma anche nell'odio che provava e nello schifo, lavorava sodo perché diceva che tanto lì era e lì doveva stare, piuttosto che tornare al paese a fare la fame e a farsi dire che era un povero cristo che non aveva resistito al lavoro, e in più se non aveva resistito voleva dire che era un lavoro da pazzi e lui invece chissà che si pensava, cioè in fondo l'avevano fottuto. Questo era il pensiero che faceva andare avanti Michele frate mio e lo faceva lavorare con più rabbia, che io me lo vedo sotto al cunichilo a scavare il carbone, tutto curvo a fissare la roccia come se la volesse ammazzare, con quella schiena grande e forte e scura che ti pare la strada maestra battuta dal sole in estate. Una volta scrisse che dovette lavorare nella famosa vena 25 che nessuno può immaginare com’è…
MARIO: E’ un attimo. Chiudono il cancello dell’ascensore. Si parte.
Il cuore salta fuori dalla bocca. 50 metri, 100 metri, 200, 300, 400, 500, lo stomaco è arrivato in gola, 700 metri, 900, 1000 metri, ehi aspetta, aspetta, aspetta… come 1000 metri, 1100, 1200 aspetta, aspetta, aspetta,aspetta, 1300, 1350 (fiato sospeso)…(affanno) Una galleria principale da percorrere per centinaia di metri. La temperatura della roccia è oltre i 45 gradi. Si respira a fatica. Le gallerie laterali portano alle vene di carbone, il resto è roccia. Va bene. Roccia, carbone e roccia. La vena di carbone è come un piano immenso, di altezza variabile e si estende per chilometri, in profondità e in larghezza. Ho capito. Un minatore ogni 10 metri e si comincia ad entrare nella pancia della terra. Fa caldo. Non vedi più nulla, per il buio e per la polvere. Sti martelli fanno un rumore da pazzi. Butti via la maschera antipolvere perché non riesci a respirare. Levi i calzoni e tutto il resto tranne l’elmetto, quello no, quello è obbligatorio. Ogni ottanta centimetri di scavo devi puntellare il vuoto che hai creato. Non posso neanche gridare aiuto che nessuno mi sente. Arrivato a due metri di scavo i puntelli di legno non reggono più e allora metti la barra di ferro da due metri e la ripuntelli. Tutto questo quando l’altezza della vena consente di lavorare in agilità, ma non nella vena 25. Eh?Cos’è sta vena 25? La lampada del caposquadra è alta 25 centimetri. Se nella vena passa la lampada, passa anche il corpo umano. Ma che stai dicendo? Quando attacca il turno devi decidere se entrare di pancia o di schiena perché non puoi né uscire né girarti per tutte le 7 ore di lavoro. Lì dentro devi strisciare per centinaia di metri e non puoi portare che lo stretto indispensabile, quindi niente barre di ferro. Ma che cazzo stai dicendo? Puntella con il legno per due metri e mezzo, poi torna indietro e leva il primo puntello. Broom! Ci sono, sono murato dentro. Respira, respira…Cos’è che m’ha detto? Una volta dentro non guardare mai la roccia. Tieni gli occhi sul carbone e lavora. Va bene, due metri e mezzo e leva puntello, due metri e mezzo e leva puntello. E invece no io guardo la roccia… Mi sfiora il naso…Quanti metri saranno? Un chilometro di roccia. Sono sotto un chilometro di roccia… non guardare la roccia, tieni gli occhi al carbone e lavora. Ricordati che lavoriamo a cottimo. Più scavi più guadagni…tieni gli occhi al carbone e lavora, tieni gli occhi al carbone e lavora, tieni gli occhi al carbone e lavora…
PINUCCIO: Stava là sotto Michele tutto raccolto striminzito come una lucertola o come i gatti quando si piattiscono per passare dalle fessure, ché Michele teneva di queste virtù fisiche atletiche. Donna Natalia ci stava insieme mica per niente, non so se mi spiego. E nella vena 25, Michele si sentiva come un dio, perché più era duro il lavoro più lui riusciva, come darci una dimostrazione a tutto il mondo di quello che era capace. Capace lui e capaci quelli della sua terra, la qual cosa non la dico io ma la diceva lui in persona, Michele frate mio. E per questo gli tenevo un bene matto e disperato, così che pensavo: dai, Miche', scava, fagli vedere a'sti belgichi patrùni di cosa sei capace, che anche là sotto resti Michele frate mio ovvero l'uomo onesto nella sua interezza, scava Miche', non ci pensare,che se scavi passa tutto: passa l'odio e la miseria, passa la nostalgia che tieni, passa pure donna Natalia, che farla passare è una parola, Miche' scava, scava Miche', sempre più a fondo, dentro la terra, la quale essa ti ha generato ed ora ti ripiglia, ti guarda e dice: forza, Miche', scava, fammi un buco dentro, lo so che sei venuto per vedere di cosa sono fatta, e sono così dura e rinsecchita al tuo paese che non do manco i ceci per la pasta, e allora scava, scavami Miche', che tanto sempre intera resto, sempre uguale e per quanto tenti di scavare non c'è fine alla miseria, chi mangia mangia e chi non mangia crepa, e questa è la faccenda nuda e cruda. Come una guerra era, tra Michele e 'sta terrazza vile e maledetta che lo voleva perso là sotto al buio, talmente in fondo che non so manco quanti chilometri fosse sceso, ma immagino tanti e tanti, più di tutte le altre volte. Ma la battaglia con la terra io credo che la vinse Michele frate mio, perché quanto più scavava tanto più la terra gettava carbone, tanto che alla fine Michele era tutto coperto, sepolto quasi, nessuno ne aveva mai visto tanto di carbone e a ogni gettata Michele pensava: questa è per mia madre, oppure questa è per mio padre, questa è per la mia terra che viva una vita migliore, questa è per la mia donna, donna Natalia, che il Signore la conservi bella e onesta, questa è per Pinuccio, sissignore anche a me pensava, che legga tutto e tutto giusto perché si sappia la vita che facciamo qui, ma come ho detto io leggevo diverso per via di donna Natalia, insomma faceva le dediche, perché era proprio una gran cosa questo carbone che scendeva, uno dei momenti più belli della sua vita.
Comunque... andiamo avanti. Quando manca l'uomo, è chiaro, alla femmina succede come al maschio, cioè come il maschio sente il richiamo della femmina, così la femmina sente il richiamo del maschio, perché in fondo bestie siamo, anzi le femmine più degli uomini da che mondo è mondo. E se proprio lo volete sapere, ma dovete giurare che questo per davvero non lo mettete nel vostro benedetto teatro, qui le femmine questo richiamo del maschio lo sentivano eccome, in quanto che, come sapete, tutti i compari se n'erano partiti, tranne i vecchi e il sottoscritto, Pinuccio Intaglia di professione postino: ma i vecchi son vecchi e dunque non vanno considerati. E la cosa cominciò con donna Agata Cuccùmi di Peppe Rauso, una mattina di maggio che ancora la ricordo precisa precisa come ieri. Ma mi raccomando, niente teatro su 'sti cose. Dunque vado per consegnare una lettera di Peppe e si dicono le solite cose: come va come non va, le solite cose. Poi leggo la lettera di Peppe, la quale diceva della lontananza e della mina e della pioggia che pioveva sempre. E diceva pure dell'amore per donna Agata, mentre io sapevo che a Lièsc, dove stava Peppe, Peppe ci teneva una belgica per quando si voleva divertire. Ma naturalmente non lo dicevo perché me l'aveva confidato Oronzo frate mio in una lettera prima. Andiamo avanti. E donna Agata, alle paroline dolci di Peppe, si fa tutta rigida, che si vedeva che pativa per non piangere. E stando tutta rigida e dritta dritta coi muscoli tirati, anche il petto se ne stava alto e dritto e guardando quel petto pensavo: Signore, Signore fammi guardare da un'altra parte per l'onore mio, di donna Agata e del compare Peppe. Ma proprio non c'era verso. E anche alla fine, quando una lacrima è scesa sulla faccia bellissima e bianca di donna Agata, il petto continuava a stare alto e dritto, sicché si può dire che era il petto che guardava il sottoscritto e non il sottoscritto il petto. E scesa la lacrima dice donna Agata: voi non tenete una donna vero Pinuccio? Purtroppo, il Signore non m'ha fatto la grazia. E non sapete che significa per una donna stare tanto tempo lontani dall'uomo suo? Nossignora, ma me lo posso immaginare. E che immaginate, Pinuccio, che immaginate? Che è un grande dolore e un grande strazio, come quando muore qualcuno, salvo che in questo caso l'uomo prima o poi torna a casa. E se non torna? Allora è come quando muore qualcuno, che l'anima del defunto se ne vola via e l'anima di chi resta se ne va un poco insieme a lui. L'anima, dite bene, l'anima, ma al corpo, Pinuccio, non ci pensate? Il corpo? e che devo pensare, donna Agata? Dovete pensare che pure il corpo soffre. E così dicendo mi prende la mano e me la mette su quel petto infinito, quanto è vero Iddio potessi crepare ora. E stando così la mia mano sul suo petto, sentivo il suo cuore battere a più non posso e pure il mio sentivo, che batteva tanto forte che pareva volesse uscire fuori a guardare da vicino che stava succedendo. Venite, Pinuccio, venite a sentire quanto soffro, dice donna Agata, e così dicendo mi mette la testa su quel ben d'Iddio di seno tutto tondo e immenso. Sentite? Sento. Consolatemi, Pinuccio, voi che sapete leggere e scrivere. E quella volta seppi leggere, scrivere e far di conto, perché montai a cavallo cinque volte di fila, non so se mi spiego. E quando me n’andai era sera e avevo ancora tutto il resto della posta da sbrigare. E sulla porta dice donna Agata: avete capito, ora Pinuccio, cos’è che prova davvero una femmina quando l’uomo suo la tiene qui abbandonata e sola? Sissignora, credo d’aver capito. E allora, se siete buono, quando tenete voglia venite a consolarmi, ché certe volte il dolore è troppo grande. Sissignora, vedo quello che posso fare. E me n‘andai con la mia bicicletta mentre il sole cadeva dentro al mare e tutt’intorno, cielo e terra, era rosso fuoco, un poco come l’inferno, se mi volete capire. E così cominciò il grande periodo della consolazione alle femmine del paese.
Mo’ Signuria sicuramente pensa: vedi un poco sto postino di Pinuccio che vita che ha fatto mentre che i compari stavano alla miniera a sudare. Oppure anche: vedi un poco ste femmine che bestie, il marito in mina e loro a il prendersi il piacere loro. Non è così Signuria, che tutti soli stavamo. I compari alla mina, le femmine al paese, e Pinuccio a faticare per tenere tutto a posto, che quando i compari tornavano potevano dire che niente era cambiato, manco l'amore delle femmine. Che se non fosse stato per Pinuccio, pure le femmine se n'andavano. Per la disperazione, è chiaro. E comunque Pinuccio l'ha pagata, sissignore, pagata forte. Che il peggio deve ancora venire, ovvero quando quella mattina andai a consegnare la posta a donna Natalia moglie di Michele Striano. Come va, come non va, le solite cose. Ma a un certo punto donna Natalia mi guarda fisso fisso negli occhi che già mi sentivo svenire a guardare quegli occhi neri e dice: ho sentito che andate in giro a consolare le femmine del paese, Pinuccio. Vedi ‘sti femmine come sono bestie! Tutto tra loro si dicono! Ma io dovevo fare la faccia di bronzo. Chi ve l’ha detto è troppo buona, faccio, io niente più che qualche parola di coraggio dico. Venite, Pinuccio, entrate un momento, fa. E io entro con le gambe che mi tremano. Sedete, Pinuccio, mettetevi comodo.
E io sempre più a sudare, in quanto che mi dicevo: ma che vuole donna Natalia, mi vuole fare la predica oppure ce lo vuole andare a dire a Michele oppure vuole farmi qualche ricatto? perché le donne sono capaci di tutto, una maledizione sono. Volete qualcosa da bere, Pinuccio? Dico: no grazie non importa devo andare a portare la posta. Tengo acqua vino e limoncello, dice, perché non vi bevete un bicchiere di limoncello? E allora facciamo il limoncello. Così va a prendere il limoncello, e io lì seduto come un cretino, con rispetto parlando per tutti i cretini che al mondo sono assai assaissimi. E mi versa 'sto limoncello e io bevo. E io bevo e lei si siede. V'è piaciuto il limoncello? Eh, m'è piaciuto il limoncello. E consolare le femmine vi piace? Signora mia no, perché significa che la femmina è triste e la tristezza è una brutta cosa. E la Concetta di Pietro Costante, pure quella avete consolato? Sarà capitato, una parola buona io non la nego a nessuno. Donna Concetta tutta sdentata con quegli occhi storti e il fiato che fete? Ecco non so non mi ricordo, può essere che l'ho consolata come che no. Ma allora voi consolate proprio tutte, dice donna Natalia. E io ci dissi: solo quelle che hanno bisogno. Allora tutte, fa lei, che tanto sono tutte sole e tristi qui al paese. Allora tutte, ci dico io. Tutte tranne una, dice lei. E qua le gambe avevano smesso di tremare perché se n'erano quasi morte stecchite. Che volete dire donna Natalia? Che anch'io tengo voglia d'essere consolata. E a questo punto, dovete sapere che io stavo seduto e lei in piedi di fronte a me, si toglie i passanti del vestito il quale scivola giù fino a terra e lei, donna Natalia, moglie di Michele Striano che ci volevo bene come a un fratello, la donna più bella della terra, se ne resta nuda, sissignore, nuda da cima a fondo davanti al sottoscritto. Solo i capelli teneva che la coprivano un poco. Pareva proprio una visione, un angelo mandato dal cielo dritto dritto al paese. Un angelo? Ma che dico angelo? Un diavolo dell'inferno venuto a tentare il povero Pinuccio. E ci dissi: no, donna Natalia, consolatevi da sola, io tutte consolo, ma voi no, voi non vi posso consolare, che siete la donna di Michele Striano frate mio. E faccio per andare alla porta, ma mentre che metto la mano alla maniglia, donna Natalia mi si fa sotto come una furia e dice: che è Pinuccio? tenete paura? paura di Michele? e di tutti gli altri no? che fine ha fatto ‘sto gran consolatore di femmine? fatemi vedere, Pinuccio, fatemi vedere. E altro ancora tipo: prendetemi Pinuccio, sono vostra, tutta mi vi dono, toccatemi Pinuccio, toccatemi tutta, insomma ‘sti cose che dicono le femmine quando ci prende l’invasamento dell’amore. E io volevo solo andarmene, ma non potevo, ché donna Natalia m’aveva preso e buttato per terra e mi stava tutta sopra e si rotolava manco fosse una bambina, tanto che pure male mi feci e dovetti lottare parecchio per liberarmi. E lottavo contro di lei e contro la mia carne stessa, che reclamava quel corpo così bello e perfetto. Ma alla fine ce la feci e mi buttai fuori, di corsa alla bicicletta per fuggirmene il più presto possibile. E dopo di quella volta donna Natalia non ci pensò più a prendermi, anzi era diventata dura e cattiva tutte le volte che andavo, ma io ci pensavo eccome, ché quello che avevo provato non si può dire né raccontare, per cui so che Signuria non ci crede ma fa lo stesso, ora basta, parliamo d’altro. Ma guarda e vedi Iddio, che io vi parlo di me e non vi parlo dei compari che stavano su nella Belgich.
E allora riprendiamo, anche se cose diverse da quelle che già vi ho detto non ne succedevano molte.
Tranne che ogni tanto qualcuno si stancava della miniera e andava via, come il compare Franco Ninni del fu Giacomo. Il quale se andò in Isvizzera e, che io sappia, è uno dei primi che ci andò, prima di tutti quegli altri che vennero dopo che furono tantissimi, tanto che pare che la Svizzera a un certo punto fosse pure meglio del Belgio in quanto a lavoro. Così Franco lo presero in un'industria di cioccolato, sissignore, roba da leccarsi i baffi, e lui se li leccava, che non ci pareva vero d'essere passato dalla mina alla cioccolata. E scriveva lettere piene di ammirazione per 'sti svizzeri che a sentir lui erano gentili gentilissimi, la faccia stessa della cortesia fatta persona. E la riprova ne era che tutti quando lo vedevano gli dicevano, ma sottovoce, quasi vergognandosi, Cincali, oppure anche Italiani Cincali, e lui si pensava che era un complimento. E nelle lettere sempre mi scriveva le sue teorie, tipo: secondo me vuol dire bravi, oppure: secondo me vuol dire bravi lavoratori, oppure anche: bravi lavoratori quanto bene che vi vogliamo, e così via. E la cosa che lo faceva impazzire era che non dicevano: Franco Cincalo, ma proprio Italiani Cincali, come a magnificare tutta la stirpe, che a lui ci pareva un complimento grandissimo e disinteressato. Poi un giorno scrive una lettera parlando dei fatti suoi, e già a me pareva strano che ancora non avesse tirato fuori la storia dei Cincali cioè una nuova teoria su questa parola svizzera, ma alla fine, prima dei saluti, come una cosa da dire e da non dire, scrive che un amico suo di Brescia gli ha spiegato finalmente che significa 'sto cincali. Zingari. Sissignore, zingari significa. Era questo il bel complimento. Che non è manco una parola svizzera, ma come gli svizzeri provano a dire "zingari" nella loro lingua. Dicono cincali. E qui si capisce che sono pure duri di comprendonio, con rispetto parlando. Qualcun’altro poi scrisse che veniva dal fatto che gli emigranti del Veneto giocavano sempre a morra e quando tiravano il cinque dicevano cinq! cinq! e gli Svizzeri per pigliarli a giro li chiamavano appunto cincali. Insomma o cinque o zingari sempre offesa voleva essere, che loro ce l’avevano a morte con gli italiani perché dicevano che rubavamo il lavoro, Ma se tu quel lavoro non lo vuoi fare, perché lo schifi, che protesti a fare? Si vede che altri cazzi non tenevano da pensare comprendendo in questo le scuse per la malaparola e per gli Svizzeri. Comunque. Della Svizzera voglio parlare un'altra volta, che ora 'sta faccenda mi ha messo di cattivo umore. Allora, per tornare ai compari su nella Belgìch, niente di nuovo c'era. Cioè le loro giornate erano scendere in miniera a fare i turni, poi risalire nelle baracche, mangiare, dormire, tornare in miniera e così via all'infinito tranne le domeniche quando c'era riposo e loro se andavano a passeggio, o quando uno si sentiva male e lo portavano nello spedale dove si riposava. Poi ogni tanto qualcuno si faceva male sul serio o qualcuno se ne andava al creatore. Sì, più o meno 1 ogni 5 giorni. E parlo solo degli italiani. Ma per i patruni della miniera niente era, che se non ne morivano almeno tre nello stesso giorno nella stessa miniera, il lavoro non si poteva fermare. Questa era la legge. Ma dato che una legge quando è sbagliata è come una maledizione, ci volette quel disastro del ’56 perché i capurioni della Belgich e dell’Italia muovessero il culo per cambiare quelle condizioni di lavoro bestiali, con rispetto parlando per le bestie che sono più umane di certi bestie di uomini.
MARIO: 1946. 17 morti italiani in incidenti diversi;
1947: 32 morti italiani;
1948: 37 italiani;
1949: 41 italiani;
1950: 40 italiani;
1 marzo 1950. In seguito alle lamentele pubbliche di alcuni minatori italiani, il quotidiano La Nation Belge sbeffeggia quelle denuncie definendole “portatrici di voci straordinariamente immaginative”.
11.maggio.1950 miniera di Trazegnies: 40 morti, 3 italiani. Altri 37 italiani nello stesso anno in incidenti diversi.
1951: 51 morti italiani.
Nello stesso anno nasce la CECA Comunità europea del carbone e dell’acciaio. L’accordo firmato da Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo dovrebbe occuparsi anche di migliorare le condizioni di lavoro dei minatori. Ma già il nome Ceca non fa presagire nulla di buono.
21.settembre.1951 Quaregnon: 7 morti, 1 italiano.
marzo ‘52 scendono in sciopero i minatori dei bacini del Borinage e di Charleroi.
giugno.’52 Due sciagure a Charleroi: 10 morti, 6 italiani. Altri 46 italiani muoiono nello stesso anno.
1953: 101 italiani; uno ogni tre giorni;
Scendono in sciopero i minatori della Kessales.
1954: 56 italiani;
1955: 38 italiani;
Luglio ‘56 L’Unità pubblica un articolo di denuncia molto circostanziata sulle condizioni di lavoro dei minatori in Belgio. Solo pochi giorni dopo:
08.agosto.1956 Marcinelle: 262 morti, 136 italiani.
ore 8 del mattino. Bacino di Charleroi. Miniera Cuore amaro. Nella corsa di risalita alla superficie, un carrello pieno di materiale di scavo, sbattendo contro le pareti del pozzo prive di protezione sradica una putrella, trancia i fili della corrente elettrica, la condotta dell'olio e il tubo dell’aria compressa. È l'inizio dell'inferno. Il corto circuito provocato dalla rottura dei cavo infiamma l'olio gassificato dall'aria compressa e le fiamme si propagano velocemente dal luogo dell'incidente alle impalcature di legno delle gallerie, involontariamente alimentate dai ventilatori che immettono aria nel pozzo e ne aspirano il gas. I minatori di turno quella mattina sono bloccati nelle gallerie senza possibilità di scampo.
Sperando di trovare dei sopravvissuti al fuoco e salvarli dall'asfissia, i soccorritori tentano di raggiungere la galleria più bassa al livello 1035 perforando un passaggio trasversale dal livello 907.Il caldo terribile, la caduta di pietre e il cavo del pozzo d'uscita dell'aria che si sta fondendo impediscono l'inizio dei lavori. La comunicazione tra superficie e fondo è completamente interrotta. L’Italia è col fiato sospeso. Siamo di fronte al primo tragico scoop della televisione. Nei bar si resta incollati tutto il giorno ad attendere nuove notizie. Soltanto il 12 agosto sarà possibile raggiungere il livello 907.
Nelle gallerie non ci sono che cadaveri (quando è possibile riconoscerli come tali): corpi folgorati dal fuoco ancora nella posizione di lavoro, altri asfissiati dal grisou e dal fumo. Molti cadaveri vengono trovati sotto novanta centimetri d’acqua usata per spegnere le fiamme. Le ultime salme vengono recuperate il 22 agosto a quota 1 035 metri.
Tre anni dopo la catastrofe il Tribunale di Charleroi chiuderà il processo con un sentenza di generale assoluzione. Pochi giorni prima della tragedia di Marcinelle la stampa belga parlava in questi termini dei minatori italiani: " ... non abbiamo più bisogno degli italiani..." e ancor peggio il ministro Van den Daele ..."gli Italiani sono solo buoni per venire a crepare da noi..."
1957: 47morti;
1958: 32 morti;
1959: 25 morti;
1960: 34;
1961: 25;
1962: 29;
1963: 23. Eccetera, eccetera…..
PINUCCIO: E quando lu Signòre nostro Iddio mi chiamerà, non dirà: Pinuccio ti mando all’inferno, ma: Pinuccio ti mando a Marsinèl, perché da quel giorno lu Signòre nostro Iddio ha preso Marsinèl e l’ha piantato nella pancia della terra al posto dell’inferno, come la cosa più brutta che esiste, maledetto Marsinèl, maledetta mina, maledetta Belgìch che soltanto un anno dopo Marsinél mi portò via anche Michele, sissignore, Michele Striano, l’uomo più forte della terra, Michele che m’aveva salvata la vita, Michele che odiava i torti e le ingiustizie, Michele il silenzioso, Michele un signore, Michele frate mio se n’era andato, andato per sempre. Maledetta Belgìch possa sparire in un momento come è sparito Michele.
Ma ora c'era un problema e il problema era che donna Natalia non doveva saperlo, così a lei di Michele non ci dissi niente, potete protestare che sono una bestia, che 'sti cose non si fanno, ma io le feci per rispetto di donna Natalia, che doveva continuare a credere che l'uomo suo se la passava come un papa su nella Belgìch. E ogni domenica, sissignore, ogni domenica che Iddio mandava in terra, mi mettevo a tavola a scrivere le lettere di Michele per la settimana dopo, ogni settimana, perché volevo che Michele ci scrivesse più spesso che prima alla donna sua, perché donna Natalia sapesse che Michele la pensava sempre e appena poteva ci scriveva. Insomma Michele per me non era morto mai, e neanche per donna Natalia. E già che stiamo in argomento di morti, capitò che scrissi la prima e ultima lettera firmata da me medesimo e spedita nella Belgìch e fu quando se ne andò al creatore matrima, perché pure lei alla fine se ne partì. E questo fu una notte di gennaio che fuori cadeva la neve, dunque era un giorno speciale perché qua la neve non l'abbiamo vista mai tranne quella volta. E matrima disse: salutami tanto a Oronzo e Giuseppe, che sono contenta che si sono fatti strada e anche tu Pinuccio potevi, in quanto che eri il più intelligente, ma non importa, ti voglio bene lo stesso. E io pensai che se n'andava ingannata, ma non ci dissi niente perché volevo che fosse felice. E a questo punto la neve cominciò a cadere e io dissi: madre, guardate, la neve, e tirai le tende della finestra. E che è 'sta neve? E' come la pioggia, ma più dura, ci dissi. Allora ho visto tutto e me ne posso andare. E se ne andò al creatore. Io piansi due giorni e due notti e poi non piansi più, perché già se n'era andato Michele il quale poi l'avevo resuscitato tramite le lettere, e così pensai che la morte è solo un fatto d'immaginazione, proprio come la vita. E ce lo scrissi a Oronzo e Giuseppe i miei fratelli su nella Belgich. Giustamente. I quali poi se ne tornarono al paese. Questo molti anni dopo. E tutti tornarono al paese poco per volta. Tutti tranne Peppe Rauso, il quale si trovò una donna lassù e cominciò a vendere frutta e verdura a Lièsc, e io pensai che se sapevo così non mi facevo tanto pregare quella prima volta che donna Agata sua moglie si volle fare consolare. Ma si sa com'è Peppe Rauso, non c'è da fidarsi. Io però spero che se la passi bene nella Belgìch a vendere frutta e verdura e che alla nuova mughiere la tratti meglio di donna Agata. La quale per dispetto, saputo che Peppe teneva un'altra, se n'andò a Brindisi a farsi consolare da tutti i marinai in partenza, e questo per parecchi anni tanto che era diventata l'Assunta del porto. Poi non ne ho saputo più niente, ma c'è chi dice che pure lei ha trovato il suo marinaio e se n'è andata con lui nella Merica. E nella Merica avrà fatto strada sicuro. E intanto tutti tornavano e dicevano: guarda com'è bello il paese, non me lo ricordavo così. E Il paese tornò a essere piena di gente, come nei giorni belli di patrunu Vito, quando c'era lavoro per tutti. E dicevano: guarda, pure qua tenete la televisione! oppure: guarda, pure qua tenete le motorette. Ed era così, perché nel frattempo erano arrivate 'sti cose che qualcuno le chiamava benessere, ma per me sempre uguale era, perché tanto io sudavo sulla bicicletta e 'sta minchia di moto, con rispetto parlando, non ce la volevo proprio. Anche Oronzo e Giuseppe, i miei fratelli, tornarono. Oronzo si pigliò moglie e messe su l'edicola, quella che trova al lato della piazza, mentre Giuseppe continuò a vagare e se n'andò ad Arese, dove c'era una fabbrica di macchine della Fiat, e ci stette molti anni fino alla pensione. La pensione d'invalidità, è chiaro. Perché ci venne la silicosi, la quale è una malattia brutta bruttissima, che prendono quelli che sono stati a lavorare in miniera. Infatti per via del carbone tengono tutti i polmoni pieni di polvere, e piano piano 'sto carbone si fa duro come un sasso e c'impedisce al polmone di respirare, così m'ha detto Giuseppe frate mio. Che infatti oggi se ne sta in casa con la bombola d'ossigeno aspettando che la morte se ne venga a prenderlo prima possibile. E tanti altri c'hanno 'sta silicosi, qui al paese, saranno dieci, dodici. E sono solo dieci dodici perché nel frattempo molti se ne sono andati al creatore, per via di 'sta silicosi maledetta, e io spero che pure Giuseppe se ne vada presto, perché l'ho visto e vedere 'sti cose ti spezza il cuore. Così, quando vivere non è vivere ma è stare al mondo pieni di dolore e sofferenze infinite, è meglio morire, e questo ci auguro a Giuseppe, che muoia presto.
Come dite? Donna Natalia? Niente. Io continuavo a inventare le lettere e lei continuava a pensare che Michele stava lassù nella Belgìch come un papa. Solo qualche volta diceva: ma com’è che tornano tutti e Michele non torna? E io ci dicevo: vedrete che torna, è perché vuole diventare ricco che più ricco non si può e farvi vivere felice per il resto dei vostri giorni. Ma Michele per l’appunto non tornava. E gli anni passavano e io continuavo a scrivere. Finché donna Natalia si ammalò e questo accadde pochi anni fa. Così che quando vi parlo delle persone che ci ho voluto bene vi parlo di persone che non ci sono più. Infatti anche donna Natalia se n’è andata. Ma questa è la vita, che un giorno ci sei e il giorno dopo non ci sei più. E donna Natalia, la femmina più bella del mondo, dell’universo tutto, un angelo, una madonna addirittura, non c’è più. La quale quando se n’è partita mi ha voluto di fianco al letto e io sono andato ed era una sera caldissima di agosto.
E donna Natalia era bella come sempre, con i capelli bianchi candidi e la pelle liscia liscia non ostante che non fosse più una ragazzina. Allora mi ha detto di avvicinarmi e io mi sono avvicinato. E quando sono stato vicino alla sua faccia, donna Natalia mi ha sorriso e mi ha detto: grazie Pinuccio. E di che? ci faccio. Della compagnia. Dovere, ci faccio, e a Michele che ci devo dire? Che sto per andare da lui. Così ha detto: che sto per andare da lui. Insomma aveva capito tutto e chi sa da quando, magari dall’inizio, ma non diceva niente forse per farmi contento o per non soffrire troppo. E io mi sentivo quasi svenire. Poi mi guarda, sorride un’altra volta e mi dice: ciao Pinuccio. E io, che non sapevo cosa risponderci in quanto che sudavo e tremavo tutto, ci dissi solo: salutatemi a Michele; ma così, con un filo di voce, che pure quella se voleva scappare per la vergogna. Poi donna Natalia chiuse gli occhi come per riposare e io me ne andai fuori, dove era tutto uno sfolgorare di luci e di colori che sembrava l'ascensione della Madonna, la Madonna del paese per l'appunto, ovvero donna Natalia di Michele Striano. E arrivato a casa piansi tre giorni e tre notti perché capivo che io a donna Natalia ci avevo sempre voluto bene, anche se era la moglie di Michele frate mio, al quale pure a lui ci volevo bene, insomma era tutto un misto di bene e di male, bene per tutto il bene che volevo, e male perché lo volevo a una femmina che non era la mia, ma di Michele. E alla fine del terzo giorno ho pensato che a volere bene a qualcuno non si fa male a nessuno, e mi è sembrato un pensiero così bello che smessi di piangere e lo andai a scrivere su un pezzo di carta come un proverbio, e lo intitolai: il proverbio di Pinuccio. Il quale vedrete se non diventerà un proverbio famoso. E poi presi la bicicletta e me ne andai in un campo fuori il paese, detto campo di Nello Favàle, perché era quello dove Nello portava a pascolare le pecore. Mi distesi sull'erba e mi messi a guardare il cielo per vedere se sorrideva. E sorrideva per l'appunto, con tutte le nuvole bianche come i denti bianchi delle bocche che sorridono, che voleva dire che Michele e Natalia se ne stavano beati lassù a guardare a noi poveri cristi rimasti a sudare su questo sputazzo di terra secca. Ma guardando il cielo pensai che non c'è cielo come il nostro, sempre splendente di sole, così che rimasi a guardarlo fino a notte, e a notte, guardando le stelle, pensai che non ci sono stelle come le nostre, così tante e luminose che ti pare la festa di San Nicola, e stetti lì fino al giorno dopo ancora, e nel cielo splendeva di nuovo il sole, e pensai che tutto il nero di tutto il carbone del mondo, a questo sole non ci può tingere manco un raggio. Poi andai a casa, mi misi a letto, rividi le facce dei compari prima della partenza, ancora giovani e fresche, ancora giovani e fresche... Mariolino, Giovanni, Giuseppe, Nello, Oronzo, Pasquale, Michele...
BUIO
Mario Perrotta in scena in una foto di Chicco Saponara
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La turnàta
Italiani cìncali parte seconda
di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
Lo spettacolo ha debuttato il 16 settembre 2005 al festival Bella Ciao – il Balsamo della Memoria diretto da Ascanio Celestini
Anche in questo secondo capitolo del progetto Italiani cìncali, MARIO e NINO non sono personaggi distinti, ma le due facce dello spettacolo. Esse fluiscono l’una nell’altra legando la storia personale di NINO (il protagonista del racconto, all’epoca dei fatti bambino) e i dati di cronaca, la legislazione svizzera in materia di emigrazione e le condizioni di partenza degli emigranti, tutti i fattori, insomma, che hanno determinato uno scenario assurdo e inumano, nel quale NINO si trova suo malgrado coinvolto. “MARIO” indica appunto queste parti documentarie del testo e anche l’esposizione in prima persona di chi ha ideato il progetto e ha raccolto le testimonianze degli emigranti su cui, insieme all’altro autore, si è proceduto alla stesura di questo racconto.
MARIO
Nel mio dialetto, che è il dialetto leccese, esistono due parole per indicare la stessa cosa: la enùta e la turnàta. Significano entrambe il ritorno. Ma la differenza c’è ed è fondamentale. Me l’hanno spiegata i miei emigranti, con parole semplici ma inequivocabili: la enùta è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare.
La turnàta, invece, è altra cosa... la turnàta è per sempre… Voleva dire che ti eri sistemato… In realtà non sempre le turnàte avvenivano per questo motivo, comunque…
La turnàta - Italiani cìncali parte seconda. A proposito, per chi non ha visto la prima non è un problema; sono entrambi spettacoli dedicati alla nostra emigrazione: il primo ai minatori in Belgio, questo invece a chi ha lavorato o ancora lavora in Svizzera, ma sono comunque distinti e indipendenti l’uno dall’altro. Bene, detto questo, direi che possiamo cominciare… tra dodici secondi…
(Parte il sonoro del count down del lancio sulla luna, mentre io, sul palco, misuro uno spazio di quattro metri per cinque…)
NINO
(in piedi) A casa mia nceranu due stanze: la cucina e tutto il resto. La cucina ci cucinavi e basta ca nun c’era spaziu cu faci autru. Tutto il resto ovverosia ingresso, sala te pranzu, cammera te liettu mia, cammera te liettu ti mio nonno, cammera te liettu di mio patre e di mia matre, matrimoniale, ripostiglio, terrazzu e balcone erano tutto il resto, ovverosia l’altra stanza. Quattro metri per cinque. A casa mia c’era pure il salotto ovverosia l’angolo culla televisione. Che in quattro metri per cinque, se proprio non ti fai mancare niente, ci sta pure la televisione. Un tavolo, quattro, sedie, tre letti, un frigorifero, un armadio con vestiti, un tappeto verde di lana, quattro paia di scarpe buttate nell’angolo opposto alla televisione, alle pareti un quadro con uno ‘mbriacu all’osteria, una foto di nonno e nonna abbracciati davanti a una distesa di ulivi e una finestra che dava sulla luna, che dove abitavo io il buio veniva presto e nient’altro restava da guardare a parte la luna. Insomma eravamo poveri, non so se si è capito. Poveri di tutto. Poeri ‘n tasca, poeri ‘n canna, poeri cristi, poeri tiauli, poeri d’aria, poeri fessa, tuttu eravamu! Io, mio patre, mia matre, mio nonno, mia nonna, tutta la famiglia, parienti, amici, canuscenti, lu paise, paisi limitrofi e dintorni, la terra tutta poera era. E allora quando sei povero, come disse Gesucristu, ti tocca il Paradiso! E ognuno c’aveva il suo di Paradiso ci la Francia, ci lu Belgio, ci la Germania, ci l’America, Stati Uniti, Brasile, Argentina, ci l’Australia. A tutte parti nceranu Paratisi, addove c’era lavoru c’era Paratisu e il nostro era in Banhofstrasse, numero 14, città di Zurico, cantone Zurich, nazione Isvizzera, anno 1955.
56, 57, 58 e 59 mio nonno. 60 61, 62 e 63 mio nonno e mio patre. 64, 65, 66, 67, 68, e 69 mio nonno, mio patre, mia matre e ieu!
(siedo) Quando, bambino, me ne stavo a Zurico, io parlavo colla luna. E pure adesso ci parlo come una di famiglia. Che pare nna cosa te pacci, e invece no, invece è la vita, che infatti quando te ne stai fermo chiuso in casa, cucina e tutto il resto, senza vedere persona e nessuno ti parla e tu non parli a nessuno tranne tuo patre e tua matre quando se ne tornano dal lavoro che però magari sono morti di fatica e parlare non tengono voglia, ecco quando è così allora parli pure con la luna. Comunque… me ne stavo a Zurico in questa casa cucina e tutto il resto, con mio patre mia matre e mio nonno pure patre di mio patre, i quali se n'erano venuti nella Isvizzera a motivo del Paradiso, che in Isvizzera ce n'era e al paese no che non ce n'era manco a pagarlo.
Ora, mio nonno si chiamava Currado, e se ne venne per primo alla Isvizzera nel 1955, precisamente alle quattro del pomeriggio, che fu una giornata memmorabbile. Infatti quando qualcuno partiva per la migrazione, tutto il paese andava a salutarlo, ed erano occhi lucidi e fazzoletti spiegati, ma quel giorno no, quel giorno tre cani c'erano alla stazione, ovvero il bigliettaio Formica il capostazione Patruno e donna Assunta Matrano, ovvero la moglie di mio nonno ovvero in fine di tutto mia nonna ora defunta: manco il figlio di mio nonno c'era ovvero Rocco Filace ovvero mio patre. Che a sentire il racconto di mia nonna in sta stazione deserta si sentiva solo il rumore delle carte buttate da Patruno e Formica, impegnati nella solita partita a scopa dentro la biglietteria, partita a scopa che si protraeva diceva qualcuno da oltre dieci anni, cioè a dire da quando Patruno era stato dislocato dalle Ferrovie Italiane, all’epoca ancora Reggie, nella piccola stazione del paese nostro, che pure quando passarono gli alleati, diceva qualcuno, Patruno e Formica se ne fotterono proprio e continuarono a giocare a scopa, e quando il primo mericano passò per la stazione e affacciandosi al vano della biglietteria ci disse urlando: iù ar friiiì, iù ar friiiì, Patruno aspettò di fare la sua giocata, buttò la carta, guardò Formica, girò la testa, guardò il mericano e disse: e chi minchia è stu scemo? e allora Formica fece la sua giocata, buttò la carta, girò la testa, guardò il mericano e disse: dev'essere uno che s'è perso.
Che insomma quando partì mio nonno, nella stazione, solo loro c'erano. Dice: e come mai non ci stava nessuno?
E' presto detto, in quanto che quel giorno nell'unico cinema di tutto il paese, paesi limitrofi e dintorni, ovverosia il cinema Splendìd, veniva proiettato sto famoso film che s'intitulava "Riso amaro", che siccome pareva che dentro ci stava l'attrice Silvana Mangano colle gambe scoperte tutto il tempo nell'acqua, allora tutti da tutti i paesi vicini erano accorsi a vedere sto portento, sto miracolo, che proprio un miracolo doveva essere se le donne si facevano vedere così sfacciate, che così sfacciate non le avevano viste manco a Milano, cioè a dire la capitale immorale d'Italia, figurarsi al paese, paese limitrofi e dintorni, pareva proprio un miracolo venuto a risollevare le sorti di sta terra sfortunata.
E dunque, mentre che nonno Currado partiva per la Isvizzera nella stazione vuota solo il pianto di mia nonna buonanima si sentiva: e io credo che se l'autista del treno lo sapeva, che al cinema Splendìd ci davano “Riso amaro”, pure lui scendeva dal treno, se n'andava al paese e allora addio Isvizzera addio migrazione niente restava da dirvi e tanti saluti.
E invece, nell'anno 1960 partì pure mio patre datosi che nonno Currado diceva che in Isvizzera ci si sta bene, il lavoro non manca, prima che il Paradiso finisce bisogna che ci venite, e allora mio patre ha fatto le valigie, ha salutato mia nonna e mia matre e se n'è andato pure lui. E quando partì mio patre fu una giornata memorabbile che alla stazione non ci stava proprio nessuno, solo due gatti e mezzo, ovvero mia nonna Assunta, mia matre Santina e il sottoscritto, mezzo in quanto che stavo proprio allora nella pancia di mia matre Santina, appena concepito che già mio patre se ne partiva. Manco Patruno e Formica ci stavano quel giorno. Dice: e come mai non ci stava nessuno?
E' presto detto, in quanto che quel giorno nell'unico cinema di tutto il paese, paesi limitrofi e dintorni, ovvero sempre il cinema Splendìd, veniva proiettato sto famoso film che s'intitulava "La dolce vita", che siccome pareva che dentro ci stavano le donne tutte nude e pure nel manifesto sissignore si vedeva sta donna bionda, nordica, con le gambe scoperte fino si può dire alle vergogne, allora tutti da tutti i paesi vicini erano accorsi a vedere sto portento, con una fila di chilometri e chilometri e teste calcate le una sopra quell'altre e proiezioni che cominciavano alle ore otto del mattino per proseguire fino a notte fonda, sempre con chilometri e chilometri di fila.
E dunque, mentre che mio patre Rocco partiva per la Isvizzera nella stazione vuota si sentiva solo il pianto di mia nonna e di mia matre. E nonna diceva: questa Isvizzera è una valle di lacrime; e mio patre per prenderla a giro: quale valle, matre mia, quella la Isvizzera è tutta montagna. Ma non lo sai, diceva mia nonna, che l'acqua si mangia la pietra? Adesso è montagna, un giorno sarà valle, valle di lacrime. Che mia nonna insomma c'aveva quella che si chiama la saggezza del popolo, che uno non sa niente e pare che sa tutto.
E nell’anno 1964 se ne partì per il Paratiso pure mia matre col sottoscritto e fu una giornata memorabbile. In quanto in quel giorno, nell’unico cinema del paese, paesi limitrofi e dintorni, ovvero il solito cinema Splendid, c’era il comizio del partito comunista locale e dentro al cinema non ci stava nessuno, e la stazione era piena e Patruno e Formica giocavano la solita partita a scopa e mia nonna, mia nonna piangeva sto destino crudele che gli portava lontano marito figlio nuora e nipote e mia matre diceva: matre che piangete non lo sapete che andiamo a stare meglio? Vedrete vedrete quando torneremo con le tasche piene di soldi e ciocculata. No che non vi vedo diceva nonna no che non vi vedo, che infatti la nonna c'aveva la saggezza del popolo che uno non sa niente e pare che sa tutto, lei già lo sapeva che mica c'avrebbe più visti, e passato un anno se ne è andata a stare al Paradiso, quello vero, almeno lei, che altrimenti se ne sarebbe emigrata pure lei alla Svizzera insieme a me, mia matre, mio patre e mio nonno. Che insomma, come ho detto prima, tutti poveri eravamo e ce lo dovevamo scegliere per forza un Paradiso e miei se ne erano venuti come ho già detto alla Svizzera Paratisu. Se ne erano venuti così, lisci lisci, insieme a tutti gli altri dalle altre parti d’Italia, proprio sucati dagli Svizzeri che all’epoca appunto sucavano in Paradiso centinaia di migliaia di faticatori italiani all’anno, quando poi ne erano troppi ne sputazzavano fuori qualche migliaio e pareggiavano i conti, come una cattiva digestione animale, ragione per la quale in casa mia erano detti i sanguisuche.
Che io questo solo mi ricordo degli Svizzeri, anche se poi io sti Svizzeri mica li ho mai conosciuti di persona. Dice: e come va sta cosa che abitavi a Zurico e non hai mai conosciuto i Svizzeri? C'è sotto qualche trucco, qualche indovinello? No, niente trucchi che io ‘mpersona Antonino Filace detto Nino detto pure u steccu per la mia dirittura morale, io ste cose non le faccio e dunque racconto questa: che io sì che abitavo a Zurico, ma non uscivo mai proprio mai di casa. Dice: mai proprio mai? Mai, sissignore, manco un minuto manco un attimo per prendere un respiro d'aria, per correre su un prato, vedere le facce, sentire gli odori delle strade dei negozi della gente, mai. Dice: stavi malato, malato nel fisico, nella testa, o eri steticamente particolare, un mostro proprio che tutti ti schifavano forse? No: sano ero, bello, con una testa di capelli ricci neri che mi parevo un cespuglio.
Dice: e allora?
Allora ero clandestino. Un bambino clandestino.
Che quando qualcuno se n'andava alla Svizzera a lavorare, mica ci poteva portare la famiglia, in quanto che era proibito. Proibito, sissignore, per paura che poi se ne stavano lì tutta la vita, padre madre e figlio, e poi i figli dei figli e i figli dei figli ancora, a fotterci per sempre il lavoro a i Svizzeri, a fotterci la terra, a fotterci la Isvizzera tutta. Niente figli nossignore. Ma quando te ne stai fuori un anno, due, cinque, dieci anni, che fai? Che il figlio è sangue del tuo sangue, è come una mano, un braccio, è come che stai senza braccio due cinque dieci anni, che fai, eh? Te lo porti lo stesso il figlio, ecco che fai, e lo tieni chiuso in casa, non lo fai andare a scuola, ca te futte la paura che qualcuno lo vede e ti fa la spia. E non lo fai giocare a tuo figlio, non lo fai parlare, zitto, mutu dentru casa, ca te futte la paura che qualcuno lo sente e va dalla polizia a dire che tieni il figlio ch'è proibito e così magari ti tolgono il lavoro, la casa, tutto, e ti rimandano al paese pure, che te ne torni più povero e scurnatu di prima. Lo tieni, il figlio, ma lo tieni clandestino. Insomma, questa era la condizione in Svizzera del lavoratore cosiddetto stagionale, che poi significa che nello stesso posto in Svizzera ci potevi lavorare al massimo dieci, undici mesi, poi te ne dovevi tornare per forza, per legge, al tuo paese uno, due mesi e poi di nuovo in Isvizzera a lavorare altri undici mesi e così di seguito per anni e anni, con la speranza che prima o poi diventi lavoratore cosiddetto annuale e allora finisce sto vai e vieni e in attesa di sta speranza molti hanno fatto in tempo pure a morire. Come appunto successe a mio nonno Currado che se ne andò il giorno 18 del mese di luglio del 1969, dopo 14 anni passati al Paradiso.
E ora racconto questa. Che in quegli stessi giorni, succedeva un altro fatto straordinario epocale ovverosia la partenza della nave spaziale con a bordo i tre stronauti che se ne andavano a gita per la luna. E i tre stronauti nell'ordine erano Eugenio Aldrìn Michele Collìn Nello Amstròn che io a memoria me li ero imparati come una litania una preghiera: Eugenio Aldrìn Michele Collìn Nello Amstròn, nati tutti e tre - per qualche scherzo del destino - nel 1930. E allora bambino, pensavo che se anch'io me ne nascevo nel 1930 mi facevano stronauta sicuro, in viaggio per la luna invece sono nato nel 1960 e l'unico viaggio che ho fatto ora lo racconto.
Che quella notte che mio nonno se ne stavo partendo via, che io stavo lì tutto triste perché appunto mi pensavo che moriva, lui zitto zitto s’avvicina all’orecchio e mi fa: Nino, stai allegro, che io mica sto andando a morire… e dove stai andando nonno? Sto andando ad accompagnare un poco sti tre stronauti sulla luna, che mi devo pure sbrigare, che ormai domani arrivano, magari arrivo tardi all’appuntamento… poi, come un bambino che si addorme, ha chiuso li occhi e non ha parlato più.
E dunque quella notte del 18 di luglio 1969, io me ne stavo alla finestra a guardare la luna questo astro candido lucente che l’uomo ci stava per andare, e pure il cielo guardavo tutto, da tutte le parti se per caso ci vedevo nonno Currado che chianu chianu se ne saliva a raggiungere i tre stronauti, che anche se non è vero per me sulla luna ci erano scesi in quattro: Eugenio Aldrìn, Michele Collìn, Nello Amstròn e Currado Filace nonno mio culla bandiera italiana. E mentre che fantasticavo tutte queste cose guardando la luna, sento venire di là dalla cucina le voci soffocate di mio patre, di mia matre e di Gaetano Strummo detto Tano detto Tanino: che non lo sapete, diceva Tano, non lo sapete che a dichiararlo si spendono tanti soldi quanto pesa, ogni comune svizzero e italiano che attraversiamo ci vuole un permesso e ogni permesso una tassa? e allora no vi dovete preoccupare cho vi cumpagno io e noi ce lo portiamo senza dire niente! E se ci beccano qui in Svizzera, diceva matrima. Non ci beccano. Va bene che non ci beccano, ma se ci beccano. Se ci beccano ci rimandano a casa ovvero il posto dove stiamo andando. E possiamo tornare, chiedeva mio patre. No che non possiamo tornare. Mai più per il resto della vita? Rocco, che credi, che ci danno pure un premio se ci trovano col morto? Il morto...che a sentire sta parola mi si nnebbiò la vista che non vedevo più niente non capivo più niente, allora forse che a nonno lo avevano ammazzato loro? solo ho avuto ancora il tempo di sentire il peggio: e il bambino, fa matrima. Il bambino lo chiudiamo dietro. Dietro dove. Nel bagagliaio...E allora se non sono crepato di paura in quel momento io ringrazio il Signore nostro Iddio, il quale io non ci credo che esiste tranne quella notte del 18 luglio, che se n'è nato morto risorto e defunto definitivamente dopo aver salvato il sottoscritto. Chiuso nel bagagliaio una morte atroce non so se mi spiego. E m'è salito un calore ma un calore… E una rabbia m'è salita un odio contro sto Tano detto Tanino che me lo volevo mangiare intero, basso e secco com'era facevo pure presto. Il quale ora lo capivo perché sempre poco l'avevo potuto sopportare quando se ne veniva a casa a sparlare d'i Svizzeri e d'i patruni e di questo e quest'altro, chi si credeva di essere sto Tano eh? basso secco tutto nervi chi sei Tano che vuoi dalla nostra famiglia eh? Che si vede che Tano deve aver sentito i miei pensieri e dopo poco ha preso se n'è andato. Così quella notte mi sono messo a letto, ma senza dormire: ho spettato il buio e zitto zitto mi sono levato e nell'oscurità più completa ho raggiunto la porta di casa che me ne volevo scappare, sissignore, ed era come un'avventura pazzesca perché io da quella porta mai c'ero passato tranne una sola volta, quando arrivai in Isvizzera nascosto sotto il cappotto di mio patre, e allora mi tremavo tutto come andare in un posto nuovo sconosciuto, come lo spazio cosmico ecco, che può essere che ci trovo sulla luna ma può essere pure che mi perdo non trovo più la strada e buonanotte. E così ho aperta la porta, l’aggiu traversata e aggiu scisu lu primo gradino e poi il secondo, il terzo, e sudavo e tremavo, quattro cinque, e sudavo, sei, e tremavo, sette...Ma a ddu cazzu ai? In un attimo risucchiato, sollevato da terra come una piuma nella tempesta: lasciami papà lasciami! Non urlare scemo! Lasciami! Non urlare t'ho detto, entriamo in casa, scimunito! E mentre che le prendevo sentivo la voce di mio patre che urlava soffocato per non farsi sentire dai vicini: quante volte te l'ho detto, quante volte che non devi uscire di casa, quante volte eh! Ma voi che mi volete fare, mi volete far morire come quell'altro che avete ammazzato! Ma che dici scemo? Mentre voi ve ne andate con Tano, eh! Ascolta ascolta, sì che ce ne andiamo, ma tutti insieme, tu pure, tutti insieme capito? E dove papà dove? A casa, Nino, a casa...A casa? Sì, volevo partirmene domani mattina ma siccome tutti t'hanno sentito ci tocca farlo ora, vai a vestirti, aspetta vieni qua, dammi un bacio, ti voglio bene Nino...e tu Santina smettila di piangere ca me pari nna funtana rutta!
Parte in primo piano una canzone popolare svizzera
MARIO
Siamo nel 1969. In Svizzera i lavoratori stranieri sono quasi un milione su una popolazione di 4 milioni e mezzo di persone. Di questo milione, 700.000 sono italiani tra i quali 180.000 con permesso di dimora stagionale.
Essere lavoratore stagionale in Svizzera vuol dire lavorare undici mesi, essere licenziato, tornare forzatamente a casa un mese e rientrare in Svizzera con un nuovo permesso stagionale. Allo stagionale però, è impedito di cambiare lavoro e cambiare cantone, quindi ogni rientro in patria è accompagnato dalla speranza che il vecchio datore di lavoro ti rinnovi il contratto. Una specie di caporalato internazionale: tu sì, tu sì, tu sì, tu sì, tu sì, tu… no.
Lo stagionale, in quanto lavoratore a tempo determinato e soprattutto in quanto italiano non può affittare un alloggio: lo dicono i cartelli e gli annunci - non si affitta agli italiani. Altri cartelli danno indicazioni in materia di ristorazione e bar: vietato l’ingresso ai cani e agli italiani.
Per l’alloggio però, di solito provvedeva il datore di lavoro: una baracca di legno, dove vivevano fino a sedici persone in una stanza, una sola cucina, un bagno, a volte una stufa a gas per l’inverno. E si pagava anche l’affitto, che andava al datore di lavoro che era il proprietario delle baracche. Se vi viene voglia, ancora oggi è possibile visitarle in tutta la Svizzera. Credo che le tengano conservate come monumenti nazionali.
Lo stagionale, per legge, non ha diritti civili, diritti sindacali e politici... No, ho sbagliato… Lo stagionale, per legge, non ha diritti sindacali e politici. Gli resta qualche diritto civile, qualora però lo dovesse rivendicare: tu sì, tu sì, tu sì, tu… no!
Lo stagionale paga le stesse tasse degli altri ma gode di prestazioni ridotte o nulle in materia di pensioni, assistenza sanitaria e farmaceutica, disoccupazione, assegni per i figli. A proposito di figli…
Allo stagionale è fatto divieto, per legge, di portare in Svizzera moglie e figli. Se poi anche la moglie è in Svizzera come lavoratrice stagionale, per i figli la regola non cambia: restano in Italia. Tanto più che non avrebbero neanche saputo dove metterli, visto che nella maggior parte dei casi i genitori vivevano separati, ognuno nelle baracche della ditta per cui lavorava. Qualora invece, nonostante le diverse baracche, i due coniugi riescano comunque a congiungersi carnalmente e dovesse nascere un figlio sul suolo svizzero: la polizia degli stranieri provvederà ad accompagnare immediatamente madre e figlio aldilà della frontiera, cosa che puntualmente facevano senza alcun riguardo.
Ma c’era un modo per farla finita con questa storia dello stagionale: il punto 1 dell’articolo 12 dello statuto dello stagionale: “I lavoratori stagionali che, durante cinque anni consecutivi, hanno totalizzato almeno 45 mesi di lavoro in Svizzera, otterranno su richiesta un permesso di dimora non stagionale”.
Per evitare questo rischio, bastava quindi che il datore di lavoro ti licenziasse il 44esimo mese, aspettava la scadenza dei 5 anni consecutivi e poi ti riassumeva, così ricominciavi tutto daccapo, per altri cinque anni. E così qualcuno è arrivato a 10 anni da stagionale, qualcuno a 15, vent’anni, qualcuno è ancora là… Qualcuno invece ce l’aveva fatta, ma non aveva letto il punto 3 dello stesso articolo 12 che coronava il capolavoro: “Restano salve le disposizioni svizzere che limitano l’impiego della manodopera straniera per inderogabili ragioni di interesse nazionale”.
Firmato e sottoscritto il 10 agosto 1964. Confederazione elvetica; Governo italiano.
In Svizzera nel 1969 c’erano 30.000 bambini italiani clandestini figli di altrettanti stagionali che, giustamente, se ne erano fottuti della Confederazione elvetica e del Governo italiano. Qualcuno di questi bambini è stato sepolto in casa due anni, qualcun’altro quattro, otto anni, qualcuno è ancora là, non è più figlio di italiani, forse di turchi, di portoghesi, ma è ancora là…
Pink Floyd 1969 – Dramatic Theme
NINO
E così nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1969 ce ne saliamo in macchina io, mio patre, mia matre, Tanino Strummo - che l'eravamo passati a prendere a casa e già dormiva e ci abbiamo messo mezz'ora a svegliarlo - e mio nonno, nonno Currado Filace vestito a puntino da cima a fondo col cappello in testa ben calato sulla fronte pure se era morto, perché invece vivo doveva sembrare, solo come un signore vecchio che dorme beato sotto il suo cappello.
E allora via veloci, attraverso la Svizzera, attraverso il Paradiso, che invece un Inferno era stato, gridava mio patre mentre guidava, per 10 anni mi hanno fottuto Nino, e hanno fottuto pure a tuo nonno. Ma adesso li fottiamo noi, ah? Che ce ne andiamo a casa, Nino, per sempre! A casa, certo: ovvero in Italia ovvero al paese, quello che l'avevo visto l'ultima volta a quattro anni e che non me lo ricordavo per niente e tutto quello che sapevo me lo raccontava nonno, che la nostra terra, diceva, è la più bella del mondo, e c’era la foto pure, quella appesa sulla parete della casa in Svizzera, dove si vedevano nonno e nonna abbracciati davanti a una distesa di campi e alberi all'infinito che io sempre la guardavo sta foto per capire se era un fatto vero oppure la distesa ce l'avevano disegnata, che io una spianata così grande d'alberi e campi non potevo manco immaginarla, mi sembrava che non poteva esistere. Perché la nostra terra, diceva nonno, Dio l'ha creata prima di tutto il resto, quando ancora c'aveva il sole e il mare e l'ulivi gonfi di frutti, e se qualcuno, per esempio qualche svizzero, ti dice che la sua terra è più bella perché c'ha le montagne e i prati verdi, tu non devi dare retta, perchè le montagne e i prati verdi sono scarti nelle mani di Dio il quale aveva finito il sole il mare e l'ulivi gonfi di frutti ca nui li tenimu e loro no; e quella foto, vedi, dietro si vede la distesa di ulivi, ma davanti, che non si vede, ci sta il mare, due distese immense e opposte che ti pare di dominare l'universo intero; e per ultimo, vedi quell'albero a destra che spunta di fianco a nonna, quello è l'albero più grande di tutta la pianura e lì ai suoi piedi sotto due dita di terra, ci ho sepolto un segreto, che se io per qualche caso vengo a mancare, Nino, devi andare ai piedi di quell’albero e scavare e trovare quel segreto, va bene? Va bene nonno, sto per andare, siamo già partiti e quando arrivo ci guardo, promesso...
E dunque, in macchina, stavamo messi così: mio patre alla guida e di fianco Tanino Strummo, e dietro a sinistra mia matre a destra il sottoscritto e in mezzo mio nonno Currado che lo dovevamo sostenere perché paresse durmentato. Su questa macchina che si chiamava Alfa Giulia, la quale mio patre si stimava tutto e diceva: ora che scendiamo la gente non ci vuole credere che mi sono comprato questa macchina, che già le altre volte che sono sceso non ci potevano credere che tenevo le scarpe belle lucenti come il sole, ora proprio ci cascheranno gli occhi ai compari nostri, eh, Tano, che te ne pare? A me l’unica cosa che mi pare è che ‘sta la Alfa Giulia è un prodotto del capitale e adesso tu te ne vai al paese a farci vedere ai compagni quant'è bello il capitale che t'ha portato in dote sta macchina, a umiliarli,a farci venire la voglia pure a loro di sporcarsi le mani. Ma che minchia dici Tano, e allora che dobbiamo fare dobbiamo andarci a piedi al paese, va bene così, senza capitale senza manco le scarpe magari ah? Rocco, non facciamo discorsi cretini: qui è il sistema che è sbagliato. Vedi che non sai che dire...Papà...Tu parli tanto contro il capitale...Papà...poi se ti tocca fare vita da pezzente...Papà...ti rimangi tutto...Papà...Che vuoi Nino?! Ma che è sto capitale? Il capitale...eh...che ti posso dire...aiutami Tano...Che ne so io, Rocco, è figlio tuo! Il capitale...ecco: Roma! Roma è il capitale d'Italia, come Berna è il capitale della Svizzera, giusto Tano? Eh giusto giusto...Pensa a guidare Rocco, dice matrima. Hai capito Nino? Ho capito papà.
E intanto via traverso la Isvizzera che mi pareva un sogno che io mai ero uscito di casa e ora invece all'improvviso ero buttato nel mondo, dentro sta macchina che io non c'ero mai salito, con a fianco nonno Currado ch'era morto ma che doveva sembrare che dormiva, un'avventura insomma.
Allora Nino, che te ne pare della Isvizzera? Non lo so papà, non si vede niente. Ma come non si vede niente, Santina scostati facci vedere la Isvizzera a tuo figlio! Ma che si deve vedere Rocco, è ancora buio! Vabbé Nino, non ti perdi niente, tutte montagne sono...
Ma invece qualche luce io la vedevo che sembrava appiccicata al cielo e allora pensavo: eccoli eccoli i tre stronauti Eugenio Michele e Nello, adesso sono a destra adesso sono a sinistra, qua ce ne stanno altri, hi vedi che raduno di stronauti da sta parte! che invece erano solo le case sparse per le montagne, ora di più ora di meno, ma quando uno è piccolo tutto ci pare un'avventura e a me così pareva quella volta che c'avevo testa solo per la gita nella luna dei tre stronauti.
Come va Nino? C'ho un poco di dolore di pancia. Mica devi fare la cacca, Nino? Forse. No, la devi tenere fino alla frontiera. C'è molto a sta frontiera papà? Tu tienila e non ci pensare. Va bene papà.
E intanto via traverso sta Isvizzera, che intanto cominciava a spuntare il sole dietro alle montagne le quali pure loro cominciavano a spuntare così grandi da togliere il fiato, una cosa di pazzi bellissima mai vista.
Nino! Mica c'hai paura lì dietro eh?
Ma come potevo tenere paura? Che nonno Currado sempre diceva che i morti mica muiono davvero, solo si trasformano, tipo qualcuno in albero, qualcuno in uccello, qualcun’altro pure in un bambino, mentre che il corpo è come un vestito vecchio che si può buttare. E sta cosa, diceva, gliela aveva insegnata Nello Favale pascolatore di pecore al nostro paese, il quale alle sue pecore ci dava nomi di persone per esempio Francesca o Antonio o Marco o Assunta, tutta gente morta e sepolta però, in quanto Nello non voleva far torto ai vivi del paese mettendo il loro nome a degli animali, ma con i morti però, diceva lui, si poteva fare, perché così non se la pigliano ed è come se rimanessero un po' vivi, cioè sempre loro ma trasformati in pecore. E tutti al paese ci credevano, tanto che venivano a visitare le pecore di Nello e ci parlavano e s'informavano sulla loro salute nell'aldilà, come per esempio: buongiorno signor padre come state oggi? Vi è piaciuta l'erba che vi ho portato ieri? Se ne volete ancora non fate complimenti. Cose così. E la pecora a guardare, che tanto quella mica capiva, è chiaro. E quando poi la pecora moriva era come se moriva di nuovo il parente e c'era chi si addolorava molto, quasi più che alla prima morte, perché magari quello, il parente, in vita era stato un poco stronzo manesco, mentre dopo, da pecora, non faceva male a nessuno. Vedrai vedrai, diceva nonno, quante ne sentirai di ste storie quando scenderai finalmente al paese.
Come va Nino? Così papà...Devi resistere mi raccomando.
E intanto via diretti lontano, a casa, che per me era chissà dove, un posto da favola proprio come la luna...e il segreto: mi raccomando Nino, vai ai piedi dell'albero e scava... Va bene nonno.
Che qua, dice Tano all’improvviso, proprio su sto pezzo di strada, una volta con Franco e Bruno abbiamo forato, che stavamo andando alla riunione del sindacato a Baden, un casino quella volta, perché era la prima volta che dovevo parlare, un intervento intero sissignore, e invece niente siamo arrivati ch'era finito tutto. Dico Tano, che porti iella? Che iella e iella Santina, m'è passato per la mente così, in quanto che quello doveva essere un giorno che non me lo scordavo più per il resto della vita, che infatti non me lo sono più scordato ma per altri motivi. Pure il discorso mi ricordo, sano sano: tutto 'mprontato sul comunismo e la solidarietà tra italiani, perché il comunismo, Nino, è una cosa bella una cosa che... che quando uno è comunista Nino… Aaaaah!!!
All’improvviso Tano comincia ad urlare come un pazzo tenendosi la pancia: aaaaah!
Che c’hai Tano, che ti senti?
Sta’ zitta Santina, sta’ zitta!
Tano continua ad urlare: Aaaaah!
Poco più avanti la luce di una sirena e una paletta ci fanno pure segno di fermarci…
Rocco, pure la polizia! (matrima)
Zitta Santina, zitta! (patrima)
Aaaah! (Tano)
E in questo casino di voci e di urla che può fare un bambino di nove anni che non ci sta capendo niente se non che tra poco succede qualcosa di grave? Si mette a piangere come una fontana, giustamente!
Solo nonno dorme beato perché lui non può sentire niente.
La macchina si ferma, patrima abbassa il finestrino: due divise si affacciano sospettose.
Ospedale, ospidal, mio fratello, appendicite, appendicen, appendik… ma comu cazzu si dice! male di pancia, fretta, fretta!
Intanto Tano continua ad urlare, io continuo a piangere comu nna bestia, nonno continuo a dormire beato.
Voi cumpagnare noi, accompagna! accompagna all’ospital…
Le due divise buttano un’occhiata dentro la macchina, si danno uno sguardo tra di loro… e ci lasciano andare. E io allora non l’ho capito, ma oggi me lo immagino che quello sguardo voleva dire: crepino pure ‘sti cazzo di italiani ce ne sono già troppi in Svizzera.
La macchina riparte e Tano continua ad urlare: aaaah! Le due divise si fanno sempre più lontane: aaaaah! La luce della sirena sparisce dietro una curva: aaaah! Tano butta un’ ultima occhiata di dietro: aaaaaaaa… Affaculu! A voi e tutta la Svizzera. Ti sono piaciuto Rocco?!?
Ti avevo capito Tano!
Allora Santina ho recitato bene? Sono stato bravo?
Ma ‘fanculo tu Tano, che mi sono presa una paura da morire… e tu, Rocco! Che ridi…
E per farvi capire la tensione di quel momento, io, matrima che dice ‘fanculo, l’ho sentita quella volta e poi mai più per il resto della vita.
E allora via, traverso la Isvizzera e verso l'Italia, che stava arrivando, "lo senti il profumo Nino?", via via sempre più veloci che il sole intanto pareva che ci segnava la strada…
Rocco...
Che c'è Santina?
Mi pare che tuo patre comincia a puzzare.
Ma che dici Santina, puzzare… non è possibbile...Nino!
Sì papà...
C'hai ancora mal di pancia? (SILENZIO) Allora?
No papà.
Maledetto a mme quando ho deciso di fare sto viaggio! Scendi Nino.
Di nuovo fermi. Di nuovo ai lati della strada, accanto al bosco, con matrima che pulisce tutto lo spreco che ho fatto e m'allunga il ricambio mentre io faccio quel poco che mi resta da fare.
Ma'.
Oh.
Che è quella macchina?
Che infatti una macchina s'è fermata proprio davanti a noi e due uomini biondi robusti mi guardano fissi nelle mie funzioni naturali, con una faccia di disprezzo come a dire: sporchi italiani, pure la vostra merda ci volete lasciare, andatevene a casa vostra. Poi uno attacca a parlare veramente e parla in tedesco e io non lo capisco cos'è che dice, ma sicuramente niente di buono tanto che patrima e Tano si avvicinano alla macchina di sti due svizzeri e cominciano pure loro a dire delle parole poco gentili, che queste le capisco ma non le posso ripetere. I due svizzeri scendono dalla macchina mentre Tano, dietro la schiena, già stringe forte il pugno con le vene del braccio gonfie di rabbia.
Due da una parte due dall'altra, sempre più vicini, sempre più vicini, finché...finché succede una cosa. Succede che i due svizzeri mettono le braccia dietro la schiena e buttano fuori il petto come una specie di resa che non vuole sembrare resa, e patrima e Tano fanno la stessa cosa cominciando a urtarsi con i due svizzeri petto contro petto, come quattro gallinacci che difendono un pollaio, uno spettacolo assurdo. Cioè, dico, uno s'aspetta di vedere le botte e invece vede sto balletto da polli, ma che significa? Significa che i due svizzeri stanno facendo come tutti gli svizzeri quando non vogliono venire alle mani e patrima e Tano, datosi che siamo ancora sul suolo svizzero, seguono la regola. Io, sempre con i pantaloni calati, resto babbatu, inebbetitu, davanti a questa scena fino a che i due svizzeri sputano per terra e salgono in macchina e partono e mentre se ne vanno uno s'affaccia dal finestrino e urla in lontananza: cincali, italiani cincali! Allora a Tano gli sale tutta la rabbia compressa e comincia a correre verso la macchina e grida: bastardi bastardi! che io a vederlo così animale mi sono confermato sempre più nell'opinione che era una persona da starci alla larga.
Ma intanto la macchina dei due svizzeri era scomparsa dietro una curva e allora patremo ha urlato a Tano di tornare indietro, e Tano si è fermato ed è stato qualche secondo immobbile con gli occhi verso la strada, poi è tornato indietro, con gli occhi rossi, che non so se era fatica o rabbia oppure lacrime. Ma’ che cosa vuole dire cincali?
Matrima mi tira su i pantaloni puliti e non dice niente.
Papà, che è ‘sto cincali?
Patrima apre lo sportello e monta in macchina senza dire niente.
Tano, che cosa… Nino, basta!
Siamo risaliti tutti in macchina, patrima ha acceso il motore e siamo ripartiti.
(Silenzio)
Nonno, che vuole dire cincali?
Zingari.
Come?
Zingari vuol dire, Nino. E lascia stare a tuo nonno, che almeno lui riposi in pace.
Poi si è girato in avanti e ha continuato a guidare e per un po' in macchina, nessuno ha più detto niente.
Ecco tra qualche chilometro c'è il confine.
Mio patre ferma la macchina e mi guarda: Nino, ora devi tenere molto coraggio.
Perché?
Perché ti dobbiamo nascondere.
Perché?
Perché qui ci sta la polizia.
Perché?
Perché quello che hai fatto prima non va bene.
Dici la cacca papà?
Sì, no, cioè...ascolta Nino: qui alla Isvizzera nessuno t'ha mai visto, nessuno l'ha mai saputo che ci stavi e se ora qualcuno lo scopre non va bene, chiaro no? E allora ti devi nascondere.
Dove pa'?
Dietro, nel baule. Scendi Nino.
La mamma viene?
No, non posso Nino. Stai tranquillo, sono dieci minuti, ma ti penso sai? ti penso più che ll'altre volte.
Intanto io guardavo Tano, perché pensavo che era colpa sua, di Tano Strummo, se ora succedeva questo. Ma Tano guardava dritto, niente diceva e ho pensato che c'aveva il cuore duro di pietra e allora se esco vivo dal baule te la faccio pagare Tano, perchè un bambino, ste cose, non se le dimentica.
Si apre il baule.
Vai dentro Nino. Mi raccomando, solo dieci minuti, ti sembrerà un tempo lunghissimo eterno ma tu non devi urlare, non devi parlare, perchè se no finisce male per tutti e l'Italia chi la vede più dopo? Ti fidi di me?
Sì papà.
Si chiude il baule. Buio.
Che nel buio tutto cambia e tutto si fa più grande anche se stai stretto stretto come in una bara: i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, la pelle pure, che i pori si fanno larghi larghi per respirare meglio, la poca aria che ti resta, e gli occhi che ci provano ad aprirsi ma tanto è uguale, che niente vedi e stu buiu ti pare nna malatia, e allora cominci a sentire il tuo cuore, una musica regolare che ti accompagna che forse te la fa passare sta porca paura, finché arriva la calma, lenta lenta, e scioglie tutto come un sonno, ricordatelo nonno quando starai nella cassa, che devi ascoltare il tuo cuore, e allora la paura d'essere morto ti passa vedrai che ti passa, che nemmeno con le orecchie tese al motore devi stare, quando la macchina riparte e i minuti ci mettono anni a passare e poi senti che si ferma, e lo capisci che questo è il momento peggiore perché sei arrivato alla frontiera e senti i passi delle guardie attorno alla macchina e uno che dice: buongiorno e patrima risponde: buongiorno, e loro che chiedono i documenti e mentre uno li controlla l'altra guarda dentro la macchina, uno a uno in faccia quelli che ci stanno dentro, e anche se non lo senti te lo immagini che più di tutti guarda quell'uomo col cappello calato sulla faccia, che non capisce se dorme o non si vuole far vedere e papà dice: quello è nonno, c'ha il sonno pesante, e intanto butta occhiate a tua matre e a Tano col sudore che cola freddo dalla fronte; ecco, in quel momento nonno, può succedere di tutto, e allora ricordatelo che devi stare calmo, calmo finché il cuore non s'è messo zitto e allora vedrai che tutto passa, nonno, tutto è già passato...
E quando toccherà a me, finire dove sei finito tu, penso che non me n'accorgerò neanche, perchè tutta la mia vita di bambino io l'ho vissuta solo, chiuso, in quell'appartamento di Zurico a spettare la sera che tornavano papà, mamma e nonno dal lavoro, che nemmanco giù dalla finestra potevo guardare, e se guardavo era di nascosto, come un furto, che me ne vergognavo e subbito ritiravo la testa e poi di nuovo scostavo la tenda perché davanti, e pare uno scherzo di cattivo gusto, davanti ci stava la scuola elementare cantonale, e nelle pause tutti i bambini uscivano fuori, all'aria, e io li guardavo giocare e correre, e mi pensavo che stavo lì con loro a giocare e correre, ché ormai tutti li conoscevo, cioè non di persona, ma nella mia fantasia, che tanto sempre gli stessi erano, e allora gli avevo dato pure dei nomi, che se lo sapevano che nel palazzo di fronte ci stava uno che li chiamava con dei nomi italiani penso che se la prendevano moltissimo. E c'era questa bambina bionda che si chiamava Agnese, che cioè io la chiamavo Agnese, come la zia Agnese, la sorella di mio patre, e insomma c’era sta bambina Agnese che stava sempre un poco sola, in disparte, mentre tutti gli altri giocavano e correvano e si litigavano e allora io mi sentivo di consolarla, di dirci che anch'io ero triste e forse me la passavo pure peggio, senza parlare, senza vedere nessuno, e: ieri, così le dicevo, ieri, Agnese, sono venuti all'improvviso degli italiani conoscenti di famiglia, ma nessuno lo deve sapere che ci sto pure io qui nella Isvizzera, perché non sono scritto nelle carte, e gli Svizzeri, dice matrima, alle carte ci tengono molto rispetto e se uno non c'è scritto non ci deve stare, così io non ci posso stare, e allora ieri, quando matrima ha sentito che alla porta c'erano i signori Di Crausi, m'ha preso e m'ha chiuso nell'armadio dei vestiti e m'ha comandato di non parlare di non far rumore di non tossire di non starnutire, e io sono stato lì fermo immobbile chissà quanto tempo ch'era tutto buio intorno e io tenevo pure paura, ma non potevo fare niente, parlare tossire starnutire, e allora ho chiuso li occhi così che quel buio è diventato il buio di quando si dorme e la paura un poco mi è passata ma quando mamma ha aperto l'armadio s'è messa a piangere, e allora pure io ho pianto e anche a papà ci son venuti gli occhi lucidi, e allora vedi Agnese che anch'io non me la passo bene, quindi tu stai allegra felice che almeno l'aria la respiri e sei scritta sulle carte e nessuno per questo può dirti niente e se capita che un giorno per miracolo scendo da sta casa scura e grigia ti porto a comprare la ciocculata che dice matrima che tiene allegri e così ci passa la tristezza e tu mi racconti un poco di te della tua vita che io di me t'ho già raccontato praticamente tutto.
E così quando toccherà a me finire dove sei finito tu, nonno, mi sembrerà uno scherzo che io molto tempo sono stato chiuso, pure nell'armadio pure nel baule della macchina, come una specie di morte senza che fosse morte, perché dopo, dopo che mio patre aveva detto questo è nonno c'ha il sonno pesante, che io a quel punto non m'immaginavo niente di buono, dopo il motore è ripartito e di nuovo si è fermato e poteva essere che li avevano portati al comando, o in prigione o che so io, e invece all'improvviso il baule si è aperto ed è tornata la luce, e in quella luce c'era la voce di mio patre che in mezzo alle lacrime m'ha detto: abbiamo superato il confine, ce l'abbiamo fatta Nino, ed è stato un abbracciamento grande con papà mamma e pure Tano Strummo, sissignore, che la gioia quando è così grande e così bella non guarda in faccia a nessuno, neppure a quello che ti pare un nemico, neppure a Tano Strummo e io me lo sono bracciato perchè ero vivo felice dall'altra parte del confine addio Isvizzera con tutti gli Svizzeri ce l'abbiamo fatta nonno ce l'abbiamo fatta!
Led Zeppelin 1969- Whola lotta love
E andare si andava veloci, cioè sempre uguale ma più leggeri, e anche il paesaggio intorno era uguale a prima, con le montagne e i boschi e il verde, ma pure quello pareva diverso, perché quella adesso, quella era la mia terra, ora ci andavo finalmente incontro, e l'annusavo con la testa fuori dal finestrino e la volevo toccare e la volevo mangiare e la volevo baciare…
quando si arriva papà?
Eh ce n'è ancora di strada, Nino.
E adesso, adesso siamo arrivati?
Eh ce n'è ancora di strada Nino.
E adesso?
E adesso non ancora.
E adesso?
Non ancora.
E adesso?
E adesso basta che se continui ti porto indietro.
E allora muto, mutissimo pure la bocca mi spariva dalla faccia.
Ma parlare invece parlava Tano, che magnificava tutto quello che vedeva all'intorno, ispecialmente la ferrovia che adesso correva parallela alla strada, ecco, diceva, quando di qui ci passa un treno di migranti che torna per andare a votare, la festa voi manco potete immaginarla, che finalmente, passata sta frontiera, stanno tutti ai finestrini a gridare la loro fede e buttare fuori striscioni e manifesti rossi con la faccia di Marx e di Lenin e viva il partito comunista, abbasso la democrazia cristiana, vinceremo vinceremo...
Sta buono Tano
Papà...
Te l’avevo detto Tano...
Papa’…
dimmi Nino.
Chi sono Marx e Lenin?
Chi sono...eh...sono...dei calciatori ecco, che tutti ci fanno festa perché sono bravi, ecco...
Sono stranieri?
Sì, stranieri, ma stranieri lontani, eh!
Mericani?
Sì bravo, mericani proprio.
E dov'è che giocano?
Ehm...in sta squadra che si chiama...comunista.
Squadra comunista?
Sì, squadra comunista.
E tu ci tifi a sta squadra comunista?
Eh sì, tutti ci tifano.
Ma tu non tenevi al Lecce?
Sì, pure al Lecce...ma pure alla squadra comunista.
Ah...E quando giocano contro?
E quando giocano contro...che si fa Tano quando giocano contro?
Eh? Che si fa...si tiene alla più debole.
Ed era per questo, pensavo, che l'anno prima, ovvero il 1968, quando l'Italia era arrivata in finale al campionato d'Europa contro la Jugoslavia, e c'era la casa piena di gente per vedere la partita, e pure Tano Strummo c'era, e tutti alla fine urlavano come pazzi perchè l'Italia aveva vinto, Tano era l'unico triste in quanto aveva tifato tutta il tempo per la Jugoslavia, e per questo aveva rischiato pure di finire fuori dalla finestra buttatovi da Michelone Trotta, sulla cui stazza fa fede il nome, e allora s'era messo buono buono in un angolo e alla fine si diceva tra i denti: sta pugnalata nella schiena ce la potevamo risparmiare al compagno Tito; che pure sto Tito io per anni e anni mi pensai che era un giocatore di calcio della Jugoslavia e così per anni e anni me ne sono andato in giro a vantare il mio sapere calcistico basato su Tito Marx e Lenin, che gli altri ragazzi mi guardavano e pensavano che proprio tutto sapevo, pure dei giocatori minori dei campionati stranieri e c'ho campato un pezzo come un'autorità in materia.
E siccome, dopo sta faccenda della squadra comunista, nella macchina era sopravvenuto un certo silenzio, che nessuno sapeva più che pesci prendere, matrima con grande intuizione ha detto: Che non ce ne stanno oggi partite?, così che mio patre e Tano, cogliendo come si dice la palla al balzo, tutti sollevati hanno dato cenni d'assenso e: giusto, giusto, accendi un poco la radio Nino che sentiamo se ci stanno partite, accendi accendi! Che però era chiaro che non ci potevano stare in quanto si era di luglio quasi agosto, insomma del pallone non ci stava nemmeno l’ombra: chiaro che quello era un argomento per cambiare discorso, lo capivo pure io che c'avevo solo nove anni, ma certe cose le capisci pure se sei scemo.
Allora per farci piacere la radio l'ho accesa lo stesso, e questa era una radiolina a transistor che oggi non esistono più, piccola e nera, col suono che andava e veniva. Dice: se andava e veniva che poteva servire? Serviva a tenere compagnia sissignore, che quando il viaggio è lungo e la stanchezza tanta pure il rumore va bene. Ma se eri fortunato, la radio mandava musica, e adesso poi che stavamo in Italia mandava la musica nostra dei cantanti nostri, che se eri fortunato ti capitava pure di sentire i tuoi cantanti preferiti, i quali per matrima erano nell'ordine: Peppino di Capri, Nicola di Bari e Gianni di Otranto, ovvero tutti quelli che nel nome c'avevano una località del meridione; così, tanto per ricordarci un poco l'aria di casa; tranne che i primi due alla radio li potevi sentire, ma il terzo no, siccome era solo un amico di matrima che cantava alle feste di paese. Poi certo matrima diceva che era bravo, molto bravo e prima o poi alla radio ci sarebbe finito; mentre mio patre sto Gianni di Otranto lo schifava proprio, io sospetto in quanto geloso, e diceva un poco perfido: Santina, com'è che sto Gianni alla radio non lo sento mai? Sarà mica che vale meno di quello che dici?
Il suo cantante preferito, cioè di mio patre, era invece Al Bano detto Albano tuttu ttaccatu, che era stato pure il cantante preferito di nonno per il poco tempo che l'aveva potuto sentire. E sto Albano tuttu ttaccatu, diceva il nonno, mi piace soprattutto perché ha scritto una canzone per me, sissignore, e questa canzone si chiama Nel sole. Infatti, pare scritta per una femmina ma invece è dedicata alla nostra terra. Nonno, che dici? Sissignore, questo Albano viene da Cellino S. Marco, dalle nostre parti insomma, e pure lui è dovuto migrare a Milano per lavoro, ma partendo certamente ha guardato il sole, che noi, Nino, c’è l’abbiamo il sole…il sole, il mare e l’ulivi gonfi di frutti! Ah, bravo, allora ti sei imparato, bravo Nino! Dunque, dicevo, ha guardato il solilmareluligonfdifrtti e ci ha scritto questa canzone alla terra, per prometterci che prima o poi tornava e questa canzone fa così: quando il sole tornerà e nel sole io verrò da te, un altro uomo troverai in me, e che non può più fare a meno di te… E’ chiaro Nino? Sì, nonno. E insomma io pensavo che era un fatto straordinario che questo Albano aveva scritto una canzone per il nonno e allora ci chiedevo di ascoltarla tutte le sere prima di addormentarmi e nonno Currado me la metteva al mangia dischi che si era comprato lì in Svizzera: Nino! una volta sola però, eh? Va bene, nonno, una volta sola, tutta però… va bene Nino, tutta: perché questa notte… ha le ore più lunghe che non passano mai… ma perché ogni minuto dura un’eternità… e allora mi convinsi che questo Albano l’aveva scritta pure per me quella canzone, che stavo chiuso sempre in casa da solo che ogni giorno pareva davvero un’eternità; l’aveva scritta per me e per il nonno: io e nonno Currado uniti Nel sole… e il mare e gli ulivi gonfi di frutti.
Led Zeppelin 1969 – Bring it on home
E allora via andiamo sempre più veloci che si parla, si ascolta la radio che trasmette canzoni e notizie, e racconta tutto dei stronauti diretti alla luna, che dopodomani arrivano e quanta gente si calcola che ci sarà davanti alla tivvù, una folla un esercito un'enormità mai vista.
E allora via andiamo, andiamo veloci finché si può, ovvero fino a Bologna che lì finisce l'autostrada e si prende la strada normale, che mio patre comincia a dire delle cose bruttissime perchè adesso si deve andare piano, mentre Tano, al cartello di Bologna, non sta nella pelle e ride urla e racconta di quando i famosi treni dei migranti passano di lì, la città rossa la chiama, che io ci provo a guardarla mentre sfila sulla nostra destra, ma mi pare in realtà che è come tutte le altre, cioè di tutti i colori a seconda delle case, rosse marroni bianche eccetera, e così penso che chissà che può averci di rosso, le strade forse o i negozi o la gente che magari è pellerossa come gli indiani…
Che quando si passa in treno da Bologna per andare a votare, dice Tano, è una festa sissignore che tu t'affacci e trovi i compagni che ti salutano e ti allungano da sotto frutta, acqua, pane e latte, se è inverno, invece, salgono proprio sul treno e ti danno il tè caldo e poi sono saluti e sono abbracci e pianti, che io mi pensavo che sti compagni era gente che stava assieme alla scuola, che non si vedeva da tanto tempo e dunque era felice di rivedersi, ma invece Tano continuava viva il comunismo e abbasso la democrazia cristiana! e matrima e patrima sempre lo zittivano: basta Tano, sicché ho pensato che sti compagni erano quelli della squadra comunista e che magari c'aveva giocato pure Tano a sta squadra e che lui li aveva conosciuti di persona sti fuoriclasse Tito e Marx e Lenin, ma non lo poteva dire perché adesso era in auge sta squadra cristiana che i comunisti non li poteva soffrire proprio.
Ma i comunisti c'hanno mai giocato contro il Milan e l'Inter?
Certo, contro tutti giocano.
E pure contro la Juve?
Pure. Ma la partita della vita la fanno contro...contro i capitalisti.
Tano!
Che è una partita che si gioca da secoli e secoli.
Me la racconti Tano, me la racconti?
Allora vediamo…
Tano...
Schhh! Prima di tutto Nino, ci stanno le classi. Le classi sono un po’ come le serie del calcio, serie A serie B eccetera. I capitalisti hanno comprato tutti i più forti, tutti i campioni, gente tipo Riva Rivera Pelè addirittura, e quindi stanno in serie A. I comunisti, che non hanno soldi, stanno nelle serie inferiori, fino all’Interregionale. Comincia la partita: i capitalisti fanno subito un sacco di gol, cinque sei sette...Dopo un quarto d'ora stiamo già dieci a zero per i capitalisti. Ora, quei dieci gol cosa sono? Sono il CAPITALE, altro che Roma, il risultato, che lo devono difendere, se lo tengono stretto stretto senza darlo a nessuno. Intanto i comunisti, per via di sta batosta, sono...diciamo così...tristi avviliti, cioè, per dirla con la giusta parola, alienati. Dice: come stai? un po' alienato. Che, senti, anche la parola ti rende tutta la stanchezza, l'alienazione insomma. Ma subito viene il riscatto. Attento: le due squadre hanno due capitani. Quello dei capitalisti si chiama padrone. Quello dei comunisti si chiama sindacalista. A un certo punto il sindacalista va dal padrone e ci fa: sentite, stiamo dieci a zero per voi, ma i gol che avete fatto mica sono solo vostri, mica sono...come posso dire...una vostra proprietà privata. Eh sì, perchè se voi avete fatto sti gol un po’ è merito nostro che siamo brocchi e ve li abbiamo lasciati fare. Quindi vi mettete una mano sul cuore e ce ne date indietro qualcuno. Ma i capitalisti niente, duri come sassi. Perchè? Perché loro stanno in serie A, mica possono sporcarsi le mani, mica possono darci retta a questi che stanno in basso. E allora i comunisti che fanno? Fanno la LOTTA DI CLASSE, ovvero la lotta per passare dalla serie B alla serie A. Fanno un casino, cortei scioperi proteste, per farci prendere coscienza a tutti dell’ingiustizia subita. Poi vabbé, c’è qualcuno che esagera, che si pensa di ottenere tutto con la violenza e invece no, mi raccomando Nino, ché la violenza tira violenza mentre il comunista vero la violenza la schifa il comunista vero vuole che tutto il mondo ride e sta in pace ed è felice: e adesso sta lotta è in corso, ma vedrai vedrai che un giorno il sogno si avvera, e quando finalmente non ci saranno più guerre, più lotte tra la gente, quando tutti avranno tutto e nessuno dovrà chiederlo come uno straccione, quando ci sarà sempre il sole e sparirà il nero del fumo delle fabbriche, quando l'operaio potrà sedere alla stessa tavola del padrone allora Nino allora vorrà dire che ce l'abbiamo fatta, l'abbiamo vinta sta benedetta partita, vittoria Nino vittoria, Goooooooooool!
Che io devo averlo guardato un po’ scemo, intontito da quella partita tra capitalisti e comunisti, sicché il sorriso che c’aveva stampato sulla bocca piano piano se n’è andato e gli occhi hanno cominciato a luccicare come per un principio di lacrime.
Va bene così Tano, va bene… dice patrima.
Va bene va bene Rocco, dice Tano, e si gira. E girato non lo potevo vedere, ma forse piangeva sul suo sogno sempre rimandato e per questo dopo gli voluto tutto il bene del mondo. Perché in quel momento l’ho capito che Tano era una brava persona e che se qualche volta pareva rigido o scuro era perché ogni giorno, alla Isvizzera, doveva guardarsi le spalle e stare attento che non lo rimandassero in Italia col decreto d'espulsione. Perché Tano era sindacalista, ma un sindacalista tosto, che ci faceva sputare sangue a i padroni svizzeri. Insomma alla fine io Tano Strummo, da quel momento del sogno comunista mancato, l'ho sempre tenuto in grande considerazione.
MARIO
E’ sempre il 1969. 15 giugno. Ore 19. 18. Il soggetto entra al civico 28 di Stocherstrasse (eseguita foto n. 39). Alle 19 e 25 si accende la luce del bagno. Si spegne alle 19 e 48. Probabile doccia. Ore 20 e 12 intercettata telefonata con interlocutore italiano (vedere trascrizione). Note generali: il soggetto fuma regolarmente, si reca ogni sabato a praticare sesso a pagamento, scrive corrispondenza copiosa (verificate sette lettere nel mese di maggio). Genere: amoroso, politico…
Soltanto nel 1989, vent’anni dopo, questa scheda composta da migliaia di pagine, saltò fuori insieme ad altre 900mila schede dagli archivi della Polizia federale svizzera. Era dal 1950 che andavano avanti. Bastava un sospetto, una segnalazione per ritrovarsi nell’elenco dei cosiddetti “sovversivi” e dare il via a pedinamenti, lettere aperte, telefonate registrate, quintali di fotocopie della tua posta, atti di convegni a cui avevi partecipato, articoli di giornale, elenchi delle persone che frequenti e via, controlliamo anche loro… 900mila schede in 40 anni. Poi nel 1989 lo scandalo nazionale. A migliaia chiesero che gli fosse consegnata la propria scheda personale, riscoprendo pezzi di vita che avevano completamente dimenticato, un servizio pubblico insomma.
Ma chi erano questi sovversivi? Quasi la metà erano italiani. 400mila schedati, ma non stagionali, no, in questo caso erano gli altri, quelli con il permesso di dimora fissa a fare paura.
Ma perché facevano paura? Perché gli italiani li abbiamo chiamati a svolgere i lavori più umili, per evitare agli svizzeri i lavori più pesanti: ma ecco che dopo il primo smarrimento, si guardano attorno, migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: come dovremmo reagire? Mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano…
E’ James Schwarzenbach leader politico dei DS… Democratici Svizzeri.
Siamo nel 1969 quando Schwarzenbach scatena il primo di tre referendum per cacciare gli italiani dalla Svizzera, mancando la vittoria per un misero 4%. Perderà anche gli altri due referendum, ma la sua vittoria è culturale. Nello stesso 1969 il tribunale di Coira, dopo soli due giorni di processo, condanna i tre assassini svizzeri di Attilio Tonola, operaio italiano massacrato a calci e pugni, a due anni di reclusione;
Nel ’72 il tribunale di Briga conclude il processo per la strage di Mattmark. 88 operai, 56 italiani, un cantiere di lavoro collocato sotto un ghiacciaio enorme. Rimasero sepolti da un milione di metri cubi di ghiaccio il 30 agosto 1965. Le indagini dimostrarono che i responsabili del cantiere sapevano degli smottamenti del ghiacciaio. La sentenza assolve tutti gli imputati con spese processuali a carico dello Stato. Ma nella sentenza d’appello, le cose cambiarono: assolti tutti gli imputati e metà delle spese processuali a carico dei parenti delle vittime.
E’ invece nel 1974 che Gerhard Schwizgebel, un colosso di 130 chili avvezzo all’alcool, dopo una sola udienza, viene condannato a 18 mesi di carcere dal tribunale di Zurigo. Tre anni prima, in un locale pieno di avventori, aveva ucciso a mani nude Alfredo Zardini. Movente: era italiano.
Intanto gli 88 morti di Mattmark sono un traguardo da superare, è per questo che in Svizzera continuano a morire sul lavoro 100 italiani ogni anno spesso per mancanza totale di misure di sicurezza. Per dare un senso a questi numeri: in 10 anni in Svizzera muoiono più italiani che in vent’anni di miniera in Belgio.
Ma mentre accadeva tutto questo l’Italia dov’era? Non ci si poteva pensare?
Per me, queste, non sono domande retoriche. L’articolo 35 della nostra Costituzione stabilisce che “la Repubblica Riconosce la libertà di emigrazione e tutela il lavoro italiano all'estero”.
Nel 69 in Italia sono molte le conquiste civili: si istituisce la scuola materna di Stato, 18 marzo; si eliminano le gabbie salariali grazie alle quali un lavoratore del sud guadagnava meno di uno del nord con la stessa qualifica, 19 marzo; viene abolito definitivamente il lavoro a cottimo, 29 giugno. E allora non ci si poteva pensare?
L’11 dicembre 1969 il Senato, in Italia, approva addirittura lo Statuto dei diritti dei lavoratori …
Ma siamo sempre nel 69. E c’è l’autunno, quello caldo e il tempo è poco, forse non c’è più tempo per pensare. E poi ancora Piazza Fontana e allora non c’è tempo, non ci si può pensare a chi sta all’estero; poi muore l’anarchico Pinelli, accidentalmente, se non c’è stato tempo prima, figuriamoci adesso se c’è tempo di pensare… sono 700mila solo in Svizzera, ma non c’è più tempo… le loro rimesse nel solo anno 1969 ammontano a 580 miliardi di lire di allora, ma non c’è tempo, non c’è più tempo…
NINO
E allora via lontani, lontani da questa Svizzera che l’unica cosa che mi dispiaceva era che ci avevo lasciata l’Agnese lì nel cortile della scuola, che io Agnese no so se ti rivedrò mai più, che ora che sono libero, ora che ho vito com’è il mondo fuori da quelle quattro mura io non so se ci torno più indietro, forse è meglio se viene tu qui in Italia, che qui Agnese, ti pare davvero di stare sempre dentro un sogno, che infatti Agnese a un certo punto, è apparso sullo strada un cartello che c’era scritto Puglia, che tu la vedessi che spettacolo c'avresti voglia di correre subito in Italia, e ancora non è finita perché tra poco arriviamo a casa, al paese e allora via, via andiamo, che ora è tutta una spianata di ulivi e strisce di mare, perché è arrivata la nostra terra, paese dopo paese città dopo città: Foggia, Trani, Bisceglie…
Mano a mano che scorrevano i cartelli Tano diceva: quasi ci siamo, ogni volta sempre più eccitato a un volume sempre più alto, mentre patremo stava muto e matrema carezzava i capelli a nonno e sussurrava: ecco nonno la vedete la vostra terra? e anche se lui non poteva vedere e non poteva rispondere, era come se vedeva e rispondeva, perché quel viaggio per lui era stato fatto, per riportarlo a casa, e lui nella macchina c'era presente e vivo e si stava gustando sta gran turnata… Bari, Monopoli, Fasano… E allora guarda nonno, guardala tutta sta terra, prima che ti mangi per sempre risucchiato nella bara, portati negli occhi sti colori e nel naso sto profumo e nel cuore sta gente dura e fiera che schiuma rabbia antica dalla bocca e sudore di fatica dalla pelle.
Ostuni, Brindisi Squinzano...
Ogni secondo un anno, ogni minuto un secolo...quando s'arriva quando s'arriva?... S'arriva quando non devi più partire...
…meno dieci meno nove meno otto… Sono comparse le prime case e intanto gli occhi pareva che più che vedere volevano toccare tutto quanto c'era intorno, le strade i lampioni le insegne le saracinesche le finestre le terrazze...meno sette meno sei...e Tano che spiegava tutto: ecco questo è il negozio di Aldo il barbiere, qua ci sta la strada dove abita mio cugino Pinuccio, il postino del paese, in sto bar una volta c'ho vinto un maiale alle carte...meno cinque meno quattro...e intanto si apre uno slargo come un cratere lunare: la piazza del paese; la macchina rallenta, si ferma...meno tre meno due...si apre lo sportello metto fuori il piede...meno uno...
Ecco Agnese sono arrivato a casa, ma tu non essere triste che ti vengo a trovare qualche volta nell'immaginazione e tu mi devi dire tutto, che cosa succede nella tua scuola lì alla Isvizzera e se i bambini come me prima o poi si possono mostrare senza problemi, e se ti ricorderai di me, che se tu ti ricordi di me io mi ricordo di te, Agnese, per sempre finché campo, ma ora ti devo salutare perché sono arrivato davvero adesso, all'ultima tappa della mia turnata, ovvero in quel punto della foto dove ci sta l’albero, l’ulivo, quello più grande di tutti gli altri, ed è proprio identico alla foto, e ai suoi piedi dev'esserci il segreto, ho cominciato a scavare e scavando ho trovato una cassetta di legno come il tesoro dei pirati e dentro, dentro c'era solo un foglio che diceva: su questo pezzo di terra un giorno crescerà la casa mia e dei miei figli e dei figli dei miei figli e nessuno ce la potrà togliere per l'eternità. E allora ho capito che la partenza di mio nonno per la Svizzera, quella di mio patre, di mia madre, tutti gli anni che sono stato chiuso clandestino, quella foto, tutto aveva un senso, era un progetto lungo di anni; e ho capito che quel pezzo di terra era destinato a me e sopra ci è nata la casa che nonno voleva, che dietro guarda agli ulivi e davanti guarda il mare, due distese immense e opposte che ti pare davvero di stare in Paradiso; e per ultimo, quella notte che tutti i televisori del paese erano accesi per ascoltare la discesa dei tre stronauti sulla luna, io m’aggiu misu settatu tra gli ulivi a guardare la luna, e allora l'ho visto, insieme ai tre stronauti, ho visto a nonno Currado, che mentre gli altri tre piantavano la bandiera mericana, lui sulla luna ci piantava la bandiera della nostra terra, e quando gli altri sono ripartiti, lui pure s'è messo seduto su questa superficie bianca e candida, s’è messo a guardare l'orizzonte e tutte le altre stelle; poi ha girato la testa verso il sottoscritto, m'ha fatto un gran sorriso e ha salutato con la mano. E quella è stata l'ultima volta che l'ho visto.
Con vostra pazienza sono arrivato in fondo chi poteva dirlo, spero con buoni risultati, che la storia è vera ne faccio fede io sottoscritto Antonino Filace detto Nino…
Parte Nel sole di Albano in sottofondo
…dedicato a tutti quelli che partono e che tornano…(Al Bano canta)
e pure a quelli che non tornano più... (Al Bano canta)
Il giorno 16 del mese di settembre…(Al Bano canta)
dell'anno 2005. Fine.
Al Bano sale in primo piano, l’immagine di Nino sparisce lentamente nel buio.
Teatro dell'Argine
Poetica
La Compagnia del Teatro dell'Argine nasce negli anni novanta col dichiarato intento di lavorare sulla drammaturgia contemporanea e di fare della propria sede un luogo stanziale dove creare e divulgare un progetto di teatro aperto a tutta la comunità. A partire dal 1998, questo intento trova anche una sua “casa” stabile, con l’assegnazione dell’ITC Teatro di San Lazzaro in gestione alla Compagnia.
Il presupposto sul quale si costruisce l'intera attività, è che il teatro possa essere ancora un bisogno primario dell'uomo, al pari del cibo o dell'acqua.
Alla base del lavoro, un progetto culturale che unisce studio e ricerca, produzione di spettacoli e pedagogia teatrale a tutti i livelli, con principianti dai 3 agli 80 anni e con i più importanti professionisti italiani ed europei.
Il dialogo e la didattica rivolti ai giovani, ridisegnano quotidianamente una rotta, rinnovando motivazioni e significati profondi; la memoria del passato ed il senso del presente dirigono le scelte artistiche. La produzione degli spettacoli si nutre dello studio e dell’approfondimento di temi che hanno lasciato segni forti o grossi interrogativi nell’immaginario collettivo. Si parla del disagio mentale nella pulizia etnica hitleriana nel Tiergartenstrasse 4, della ricerca scientifica ed i suoi limiti ne Il caso Di Bella, dell’emigrazione e dei minatori di Marcinelle in Italiani Cìncali!, delle nefaste conseguenze del ventennio fascista sulla Storia (quella con la “s” maiuscola) attraverso la narrazione della “piccola”, privata storia dell’editore Formiggini in Mamsér-Bastardo.
Questo confronto con la drammaturgia contemporanea varca spesso i confini nazionali andando a ricercare attraverso co-produzioni internazionali, incontri con culture e metodologie di lavoro nuove. Da questa esigenza è nata la produzione italo-tedesca Pane Quotidiano con la regia di Claudia Hamm ed il successivo confronto con Steve Lambert che ha portato alla co-produzione con il Badac Theatre in The march/La marcia.
L’intero lavoro getta quindi uno sguardo sul nostro tempo e sul tempo appena passato varcando confini e princìpi per divenire di interesse universale.
Storia
La Compagnia del Teatro dell’Argine è nata nel 1994 dall’incontro di una ventina di giovanissimi professionisti che sentivano l’esigenza di non disperdere un comune patrimonio di idee e, condividere, eventualmente, percorsi più personali e accidentati. Costituitasi come Associazione con sede a San Lazzaro di Savena (Bologna), la Compagnia ha affidato agli esordi la direzione artistica al regista Salvatore Cardone. Il lavoro si è svolto da subito all’interno di alcune linee progettuali, che miravano non solo alla produzione di spettacoli, ma alla formazione del pubblico, alla didattica teatrale, nonché a fasi di studio e ricerca per i giovani professionisti del teatro.
Il radicamento territoriale, attuato attraverso una serie di servizi per la cittadinanza e un numero piuttosto ampio di laboratori negli istituti scolastici, dava perciò senso e sostanza al progetto culturale dell’Associazione.
Nei primissimi anni la Compagnia, non disponendo di una sede propria, veniva ospitata in alcune stanze di un Centro Civico sanlazzarese, dove aveva modo di saggiare gli strumenti a sua disposizione attraverso alcune piccole produzioni da camera: è il momento, se vogliamo, più arrembante, dove ognuno scopre la propria vocazione e ha modo di cimentarsi in ogni fase del lavoro teatrale. Nei mesi estivi si preparano mises en espaces per luoghi aperti, parchi o centri urbani adeguati: gli spettacoli "In Groppa allo Scarabeo" dal teatro di Aristofane (Parco della Resistenza a San Lazzaro e centro storico di Formello) e "Paesaggio con Teatri" (atti unici del Novecento italiano, Parco della Resistenza a San Lazzaro), i due importanti allestimenti shakespeariani ("La dodicesima notte" e "La commedia degli errori"), entrambi con la regia di Cardone, hanno caratteristiche di questo tipo e rispondono alla necessità di fare teatro pur in una cronica carenza di spazi. E’ in questi anni che l’associazione acquisisce nuove forze, attori e drammaturghi provenienti da altre esperienze, come lo stabile di Torino e Il Piccolo di Milano.
Tuttavia nel 1998, la Compagnia vince il bando di concorso per l’assegnazione dell’ITC Teatro, una sala da 220 posti appena riaperta dopo una lunga ristrutturazione.
L’ottenimento di una sede stabile dà finalmente alla compagnia la possibilità di realizzare un vecchio sogno: creare una sorta di “casa del teatro”, che vorrebbe modellarsi sull’esempio dei tanti centres dramatiques europei, piuttosto che sullo stile, più tipico del teatro italiano, della compagnia di giro.
Dal 2000 la Direzione è affidata ad Andrea Paolucci, Nicola Bonazzi e Pietro Floridia, registi fondatori della compagnia.
Sotto il loro impulso, e grazie alla crescente maturità artistica dell'intero gruppo di attori, il Teatro dell'Argine inizia a farsi conoscere a livello nazionale e a portare i propri lavori in prestigiosi teatri europei, da Berlino a Bruxelles , da Liegi a Zurigo.
Le produzioni della Compagnia, sempre legate a tematiche civili e storiche, esplorano vari linguaggi e passano indifferentemente dal teatro di narrazione, al teatro fisico al teatro di parola.
Oggi la compagnia è composta da tre registi, tre drammaturghi, dieci attori e 15 operatori che si occupano di didattica. Il lavoro organizzativo, tecnico e promozionale è gestito direttamente da queste persone.
Tratto da www.argine.it