Una grande mostra al Serrone e all'Arengario di Monza riscopre il decennio del ritorno alla pittura
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enerdì 16 ottobre 2009 è stata inaugurata quella che molto probabilmente è la più importante mostra d'arte dell'ultimo decennio a Monza. Gli Anni 80 è curata da Marco Meneguzzo e voluta dal Comune di Monza; conta la presenza di un centinaio di opere pittoriche degli artisti più noti a livello internazionale di quel decennio, dagli italiani Cucchi e Paladino agli americani Haring e Basquiat, passando per Kiefer, Middendorf, Kapoor e tanti altri. Giusto un pizzico di scultura e tantissima pittura, per un revival che dal punto di vista scientifico non aggiunge molto a quanto già ampiamente visto e studiato su quel periodo, ma che è una grande festa per gli occhi e che potrebbe trovare quindi il favore dei grandi numeri.
Jean Michel Basquiat
Artisticamente, gli Ottanta arrivarono dopo il rigore e i concettualismi degli anni Settanta, dopo la scorpacciata di installazioni, filmati e performance che pure avevano riportato in Europa il baricentro della ricerca, sottraendolo ad una America ancora legata alla Pop Art di Warhol e soci. Politicamente invece furono anni segnati dai due mandati di Reagan e dal suo farwest sociale sulla sponda occidentale dell'Atlantico; su quella europea dal superamento della fase di massima tensione vissuta nel dopoguerra, con la sconfitta del terrorismo da un lato e l'allontanamento dall'impegno collettivo delle nuove generazioni dall'altro; mutazione che in Italia fece in fretta a volgersi in superficialità ed egoismo, trovando un ottimo concime nel letame che le nuove televisioni, tutte tette e risate, cominciarono a riversare nelle case dei cittadini.
Enzo Cucchi al lavoro (da "Anima nuda" del 2007 di Riccardo Buzzanca)
Si creò un cocktail di voglia di leggerezza, di vivacità e di ricchezza che trovò nella presunta alta digeribilità della pittura, soprattutto figurativa, il riferimento perfetto per chi non aveva tempo per riflettere sui macigni di Beuys o sulle pareti plumbee di Kounellis. I quadri “colorati” andavano molto bene sopra il divano nelle case degli yuppie vestiti Coveri e Versace, da lì il grande successo economico che incontrarono e che, piaccia o no, resta per le masse il metro per misurare quanto un autore “valga”. Fortuna volle che si trattasse in buona parte di grandi autori, grandi pittori che realizzarono grandi dipinti. E fortuna vuole che oggi al Serrone della Villa Reale e all'Arengario di Monza sia possibile ammirarne un bel po', tutti insieme.
Mimmo Paladino alle prese con la litografia
Ci sono coloro sui quali Bonito Oliva teorizzò a lungo, inventando il nome Transavanguardia, perchè di tutto poteva trattarsi fuorchè di avanguardia. Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Sandro Chia e il più grande fra loro, il Mimmo Paladino a cui è destinata la rotonda di Appiani con un emblematico “Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro” che in realtà è del 1977 ma che segna l'allontanamento dai lavori concettuali che pure l'artista di Paduli aveva realizzato sino ad allora. Ci sono tutti quegli altri italiani, da Maraniello a Longobardi a Salvo che non ebbero il travolgente successo dei transavanguardisti ma che pure seppero ritagliarsi uno spazio di attenzione enorme.
Ci sono molti tedeschi, anche loro caduti sotto l'accetta dell'etichetta omogeneizzante: i “Nuovi selvaggi” per la virulenza delle pennellate e dei colori. C'è l'erotismo di Rainer Fetting e il mondo capovolto di Baselitz, il primitivismo di Penk e l'impeto di Middendorf (foto a sinistra). Appartenenti a più di una generazione perchè quel tipo di pittura in Germania non aveva mai cessato di essere coltivato. Ci sono poi gli outsider, l'inquietudine di Kiefer (semplicemente fantastico il suo lavoro in mostra) e due “vecchi” italiani rivalutati in quegli anni, l'intossicato Schifano e il maestro veneziano Emilio Vedova (nella cui città la fondazione che porta il suo nome proprio quest'anno ha aperto uno spazio extra-ordinario, su progetto di Renzo Piano). Ci sono anche i due più grandi graffittari vissuti a New York, Haring e Basquiat, in rappresentanza di quella «sorta di “risposta” alla pittura europea» - come scrive Meneguzzo - nata fra muri di periferia e vagoni di metropolitana. Due ragazzi fantastici accomunati dalla morte prematura (uno per Aids, l'altro per overdose) e dall'incredibile forza icastica, inventori di alfabeti grafici in cui trovarono cittadinanza la tradizione pittorica e la contemporaneità sociale.
In quegli anni tutti citavano tutto, chi stratificando ed evolvendo in una narrazione densa di senso, chi invece semplicemente e furbescamente rimasticando quanto già digerito nei decenni e secoli precedenti. Lo chiamavano postmoderno. Per taluni una resa innanzi alla impossibilità di dire e fare qualcosa di nuovo, per altri il superamento del concetto di avanguardia stesso.
Quello che in definitiva venne messo in discussione, senza però giungere ad una risoluzione, era l'eterno altalenare fra la forma e la sostanza. Negli anni Settanta la sostanza (nel senso di pensiero quasi filosofico intorno all'atto creativo) aveva – secondo molti - soffocato la forma o quantomeno l'aveva portata ai minimi termini. Negli anni Ottanta la forma si riprese la scena, riesplodendo favorita dal quell'insostenibile voglia di leggerezza e apparenza che aleggiava. Molte volte è proprio dietro a questa enfasi formale che si cela il senso di pesantezza e profondità, addirittura macabra e spettrale. Mascherata di colori sfavillanti, furono proprio gli americani a rimettere sulla tavolozza la tragedia e la caducità dell'essere, fu proprio Keith Haring e la sua malattia a riportare i serpenti nella stanza dei giochi. In questo gli americani sono maestri, nell'avvelenare le loro patinatissime superfici colorate di inquietudini in filigrana, lo faceva Warhol, lo fece Haring, lo fa Lachappelle.
Keith Haring all'opera
All'inaugurazione abbiamo appreso che la moda della prossima stagione, anche quella culturale, vuole che gli Ottanta diventino il tormentone dei prossimi mesi; nella musica lo sono già da un po' con i gruppetti usa e getta che scimmiottano Joy Division e Smiths; Monza li rilancia nell'arte con questa mostra. Dobbiamo prepararci al peggio? Il revival della moda vera e propria, intesa come vestiario e look, con le spalline, i capelli cotonati e gli sbuffi a volontà già mette i brividi.
Com'è abitudine per i grandi eventi, è previsto un programma di manifestazioni collaterali che vorrebbero approfondire la conoscenza del decennio in questione. Fra gli ospiti quello più in tono, forse l'unico, ci sembra essere “Mister Fantasy” Carlo Massarini, ovvero colui che lanciò in tivù per primo in Italia i video musicali, quando ancora non erano fatti con la fotocopiatrice come abbiamo poi imparato grazie a MTV. Il resto, dai titoli dei film alle serate musicali ci sembra onestamente non all'altezza della mostra: se per conoscere la musica degli anni Ottanta dobbiamo sentire Mario Lavezzi, qualcosa non torna. Chiedetelo a Massarini se non ci credete.
Molto meglio quella che più che un'audioguida è una colonna sonora. Curato da Storyville, ai visitatori viene offerto da ascoltare in cuffia (senza aggiunta di prezzo) un montaggio di testimonianze sul decennio di Paolo Rossi il calciatore e della new wave, di Frigidaire e del Tenax, alternate alla voce di Meneguzzo che porta per mano fra le spire di un Serrone mai così glamour. Splendido splendente. Ma ricordate, “non si esce vivi dagli anni Ottanta”.
Mister Fantasy con Carlo Massarini
GLI ANNI 80.
Il trionfo della pittura. Da Schifano a Basquiat
Monza, Serrone della Villa Reale (Viale Brianza, 2) e Arengario (piazza Roma)
17 ottobre 2009 – 14 febbraio 2010
Orari: da martedì a domenica dalle 10.00 alle 18.00; lunedì chiuso
Ingresso: intero, 9 Euro; ridotto, 7 Euro; ridotto speciale scuole, 3 Euro.
Il biglietto dà diritto all’ingresso a entrambe le sedi
Catalogo: Silvana editoriale (pp. 328; Euro 29 in mostra - Euro 35 in libreria)
www.silvanaeditoriale.it
Sito internet: www.glianni80.it
Per informazioni: tel. 02 43353522; servizi@civita.it
Coordinamento organizzativo e promozione: CIVITA
Gli anni Ottanta: una prospettiva italiana*
di Marco Meneguzzo
A partire dall’estate 1982, per almeno quattro anni, ogniqualvolta si consegnava il passaporto italiano a un posto di frontiera, ci si sentiva chiedere “italiano?” e alla nostra risposta affermativa, l’interlocutore replicava “Paolo Rossi!”: avevamo vinto il campionato del mondo di calcio, in Spagna, ed eravamo sulla cresta dell’onda.
Era accaduto tutto improvvisamente, all’incirca due/tre anni prima: il modo italiano di vivere era sembrato appetibile, invidiabile, ben equilibrato, finanche elegante, e il merito di tutto questo era stato di una serie di circostanze favorevoli, tutte ben connesse tra di loro. La moda (!), la cucina, il design, l’arte, persino l’architettura (in un Paese dove non si costruisce e non si costruiva nulla) avevano sconfitto le Brigate Rosse e le derive rivoluzionarie e terroristiche degli anni Settanta, almeno nell’immaginario del resto del mondo che solo pochi anni prima aveva visto l’Italia sull’orlo del baratro: non era stata la classe operaia – allora ancora esistente -, la coesione finale delle forze politiche, la sostanziale tenuta democratica delle istituzioni a battere il terrorismo (si ricordi che il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro avvenne ancora nel 1978, e che la strage di Bologna è dell’agosto 1980, cioè vicinissimi al decennio dell’euforia…), ma l’effimero, o almeno quello che allora si considerava tale, e che poi è divenuto la prima industria del Paese.
Senza volerlo e senza saperlo, eravamo diventati il laboratorio di prova su scala nazionale dei nuovi assetti proposti dallo sviluppo delle società occidentali, per di più con l’aggiunta di una serie di “vaccinazioni” contro gli ultimi colpi di coda – in Occidente – della Guerra Fredda, declinante retaggio dei decenni precedenti, ma ancora attiva soprattutto nelle sue variabili impazzite. Inoltre, eravamo un Paese di frontiera, con le truppe dell’”Impero del Male” (così Ronald Reagan, presidente USA dal 1980 al 1988, aveva definito il blocco sovietico) alle porte. In pratica, l’incarnazione perfetta di una società postmoderna, nella sua primissima versione, nel momento di transizione, cioè, tra Modernità e Postmodernità. Spiace usare questi paragoni, data la tragicità degli avvenimenti, ma si tratta di esempi a nostro avviso calzanti, per percepire intuitivamente la differenza tra l’una e l’altra delle condizioni esistenziali vissute dalla società italiana di allora: la già citata strage di Bologna del 1980 è un avvenimento che appartiene ancora alla Modernità e ai suoi progetti, l’abbattimento del DC9 dell’Itavia sul cielo di Ustica, con la sua insensatezza da videogame ante litteram, è invece un accadimento postmoderno…
Mimmo Paladino
In una società dell’apparire (dello spettacolo, l’aveva definita Guy Debord, ma nel 1968…), dove anche la politica mostrava una certa nuova aggressività mediatica con i governi Craxi, tutto ciò che fino a poco prima era definito con una nota di disprezzo “sovrastrutturale” diventava improvvisamente l’asse portante del rinnovamento sociale: l’immagine, la percezione che si dà di sé e del proprio mondo, la sensazione delle cose sono elementi più sfumati della cosa, di sé, della realtà, ma sono anche molto più immediatamente visibili, e se vengono per così dire “sdoganati” dalla loro minorità, dal loro essere elementi sovrastrutturali, superficiali, catturano la scena senza dover rimandare a qualcosa che sia, come prima, più reale, più profondo, più vero. Si stabilisce così l’equivalenza tra immagine e cosa, tra percezione e realtà, tra efficacia e verità, relazioni esaltate nella prima fase postmoderna, quella ideologicamente più virulenta, che coincide all’incirca con gli anni Ottanta.
In questo macrocontesto culturale, la posizione italiana risultava favorita. Favorita dalla qualità della sua produzione culturale – latamente intesa: la moda, in tal senso, è cultura a tutti gli effetti – tutta incentrata sul “superfluo”, dalla sua situazione storica, in fondo uscita dignitosamente dalla più acuta crisi sociopolitica del dopoguerra, dalla capacità di assorbire intuitivamente le novità, dalla condizione intellettuale che nel XX secolo ha vissuto del contrasto tra tradizione e avanguardia, e che quindi possedeva gli strumenti di analisi linguistica, dalla posizione geopoliticamente strategica, al confine tra i due blocchi Est/Ovest, ma ormai stabilmente schierata da una parte, tanto da poterne diventare una sorta di “vetrina”, di dimostrazione su scala internazionale delle capacità di sviluppo, di resistenza e di benessere del modello occidentale.
Rainer Fetting
C’era di che avere tutti gli occhi addosso. E se a questo si aggiunge la circostanza fortunata che in quel momento – tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – in Italia si produce quel tipo di cultura che rappresenta non solo il nuovo, un nuovo stile, ma addirittura un nuovo modo di pensare o, meglio, di guardare il mondo e di viverlo, si comprenderà come l’Italia sia stata per un breve, intensissimo periodo – tra il 1980 e il 1986, all’incirca -, il crocevia del mondo, e come il mondo possa essere stato visto da un prospettiva italiana, che di quel mondo costituiva l’esperimento più nuovo. Dopo la moda – fenomeno planetario e di massa -, e accanto al design, è l’arte – fenomeno altrettanto planetario, ma d’élite – a costituire l’immagine dell’Italia nel globo. Di fatto, l’inaspettato e strabiliante ritorno della pittura in tutte le culture artistiche del pianeta e il suo straordinario, immediato successo mondiale deve molto all’arte italiana, ai suoi nuovi pittori – soprattutto a quelli della cosiddetta Transavanguardia, teorizzata da Achille Bonito Oliva e nata attorno al 1978/79 - , alla qualità della proposta, al suo contenuto di novità, alla spregiudicatezza della sua diffusione, alla ricerca e alla scoperta di un nuovo mercato, di una nuova “tribù” di opinion maker, di un nuovo vasto pubblico popolare.
Accanto agli stilisti, sono gli artisti – e spesso gli artisti italiani – a conquistare le copertine dei settimanali più glamour (nei decenni precedenti erano state le star del cinema, negli anni Novanta saranno le top model), perché non solo l’arte è uscita dal ristretto cerchio dei conoscitori, ma proprio per questo sta diventando un vero e proprio business. Sono infatti gli anni Ottanta che determinano il boom dell’arte contemporanea anche presso fasce di pubblico prima impensabili, e questo fatto innesca lo sviluppo rapidissimo del mercato, con un nuovo concetto di galleria d’arte e anche di museo: le gallerie diventano i set del jet set, le location di film, mentre i musei d’arte contemporanea diventano le nuove cattedrali. In questo quadro, le strutture italiane del sistema dell’arte all’inizio del decennio non sono lontanissime, quanto a organizzazione, grandezza, potenza economica, da quelle tedesche o statunitensi, tanto da costituire spesso dei pool con alcune di queste (fatto, questo, stigmatizzato dai detrattori della transavanguardia, che nell’asse Germania-USA vedevano le prove delle costruzione artificiale, mercantile del gruppo), ma nel corso del decennio il gap strutturale si allarga, e alla fine degli Ottanta le gallerie tedesche e statunitensi hanno consolidato il loro potere, ingrandendosi sino ad assumere lo status di piccole/medie imprese, mentre le nostre non escono da un gestione ancora familiare o al massimo “artigianale”: l’inventiva e il dinamismo mostrato nei primi anni Ottanta, quando anche futuri importanti galleristi internazionali venivano a studiare il caso italiano, non si è concretizzato in strutture più aderenti alle nuove situazioni di mercato, quel mercato che l’Italia aveva inizialmente contribuito a creare e a rinnovare.
Mario Schifano
In ogni caso, all’affermarsi di un nuovo modo di guardare il presente, corrisponde un nuovo modo di considerare il passato. In campo disciplinare, è grazie al successo della pittura italiana negli anni Ottanta, che si rivaluta la pittura italiana degli anni Venti e Trenta, e il Futurismo, tutti argomenti scomodi perché sino ad allora ritenuti collusi col regime fascista: al contrario, la capacità della pittura italiana di astrarre da quei grandi maestri forme e colori, soggetti e composizioni, e di riutilizzarli nei propri quadri – ovviamente aggiornandoli - con quella disinvoltura trasversale (da cui “Transavanguardia”) ben definita come “ideologia del traditore” da Bonito Oliva, ha fatto scoprire la grandezza del Novecento italiano e del Futurismo, tanto da far definire il XX secolo come “il secolo della pittura italiana”. E’ pur vero che le definizioni passano con una rapidità indescrivibile (quanti “matrimoni del secolo” ci sono ogni anno?...), ma è anche vero che gli anni Ottanta sono stati gli ultimi anni in cui la cultura artistica è stata eurocentrica, dopo l’egemonia americana iniziata negli anni Sessanta e la spasmodica ricerca di nuovi confini planetari – in Russia prima, dopo la caduta del comunismo, in Cina e in India poi, quando queste culture sono anche diventati mercati importanti – a partire dagli anni Novanta, quando la vitale dicotomia mondiale si è spostata dall’asse Est/Ovest a quello Nord/Sud.
Negli anni Ottanta tutto questo era prevedibile, ma non era ancora accaduto, e i “confini del mondo” passavano ancora per Trieste, per Sigonella e per la Kurfursterdamm di Berlino Ovest: Il mondo era più piccolo e l’Occidente era molto più autoreferente, soprattutto culturalmente. Solo in questo frangente, e in presenza di un vuoto produttivo e di una parziale carenza d’inventiva negli USA, che tra gli anni Settanta e Ottanta artisticamente non avevano prodotto nulla di significativo ( il Graffitismo è stata a nostro avviso una sorta di “risposta” alla pittura europea, ed è tra l’altro sintomatico che la prima mostra personale di Jean Michel Basquiat sia stata allestita a Modena, nella galleria di Emilio Mazzoli), l’arte italiana ha potuto trovare spazio e ascolto negli Stati Uniti, vero punto d’irradiamento di ogni nuova moda, di ogni nuovo stile.
Tuttavia, anche se il successo viene decretato negli USA, si può ugualmente parlare di “prospettiva italiana” per gli anni Ottanta. Pur tralasciando i fasti più noti del “made in Italy” (formula, tra l’altro, coniata proprio in quegli anni),la cultura italiana “alta”, rappresentata allora solo dall’arte ( e dalle “Lezioni americane” di Italo Calvino) ha permeato di sé tutte i linguaggi artistici europei e americani, se non altro per contrasto: ciò che si riconosceva alla cultura italiana di allora era la capacità di produrre qualcosa di assolutamente peculiare e di assolutamente universale – ciò che ora si chiamerebbe “glocal” -, e per di più rispondente a uno stereotipo conosciuto e riconoscibile, come la tradizione, l’artisticità, l’estro, l’invenzione, l’improvvisazione, il bel gesto. La pittura italiana come la pizza, in un ambiente appena più colto... Dopo di allora, i confini si sono allontanati, la nuova frontiera si è spostata, e l’oceano che li collega al centro del potere non è più l’Atlantico, ma il Pacifico.
Monza, 16 ottobre 2009
* Dal catalogo Silvana Editoriale