"A lavoro faccio sempre più schifo.
Sono settimane che non riesco a raggiungere il minimo di produzione."
A lavoro faccio sempre più schifo. Sono settimane che non riesco a raggiungere il minimo di produzione. I miei colleghi mi guardano con un odio che non capisco. Per me sono tutti fantastici, adoro le loro mani che stringono, con più forza di quanta necessaria, chiavi inglesi, pinze, martelli, cacciaviti, e che di lì a poco stringeranno le braccia dei loro bambini, la carne calda di letto delle loro mogli, i coccodrilli di peluche dei loro figli. Il capoturno mi si avvicina tenendo le gambe larghe come un cowboy, anche se non c'è pubblico, la scena è tutta sua. Mi chiede cos'è che non va. Non c'è niente che non va, non capisco perché me lo chieda. Non va che per causa mia la media di produzione della squadra scende vergognosamente, non va che, per colpa mia perdono 22 euro al mese -duecentosessantaquattro euro all'anno- di premio produzione. Anche gli ultimi arrivati riescono a produrre più di me. Non va che lavoro male, non va che sono sempre in ritardo. "Ma che cazzo ti passa per la testa?". Lo fisso e non so che dire, è tutto vero. Quando qualcuno mi sputa in faccia la verità io non so che dire. Sarei capace di contestare qualunque cosa, anche il colore delle sue scarpe, ma la verità mi atterrisce, mi manda al tappeto. Vorrà dire che mi impegnerò di più, non riesco ad aggiungere altro. Lavorare di notte mi piega con la stessa facilità con cui il mago Silvan piega cucchiaini durante i suoi spettacoli. E' l'una, mancano ancora cinque ore alla fine del turno e sono già agli sgoccioli. Non ho abbastanza fiato per rincorrere quei maledetti bicchieri che volano dappertutto. Mi scotto continuamente, aggiungo sulle mie braccia segni viola che si sommano ad altri segni viola. Le mie braccia somigliano ad una tela astratta, al disegno di un bambino di due anni che si è messo in testa di disegnare la fine del mondo. Di tanto intanto faccio qualche operazione sbagliata, plastica molle cola sulle mie braccia, mi taglio cercando di tirarla via con la lama del taglierino.
Chiedo al capoturno di sostituirmi per poter andare in bagno a pisciare e mi stendo sulla panca degli spogliatoi. Solo un minuto, mi dico. Passa un minuto, un'ora, forse un mese, poi mi sembra di sentire una voce arrabbiata avvicinarsi. Ho sei anni, i capelli arruffati e indosso un maglione troppo grande per me. Mio padre mi sgrida per avergli segato il manico del martello."Basta, hai rotto il cazzo. O lavori o te ne vai a casa" Mi ritrovo a terra, con la panca ribaltata addosso. Il capoturno ha gli occhi fuori dalle orbite di un paio di centimetri. La sua rabbia lo rende buffo, ma questo lui non può saperlo. Mi scuote con la punta di ferro delle scarpe da lavoro, come se volesse accertarsi che sia vivo, o, peggio, come fossi una carcassa da spostare dal centro della strada. Negli spogliatoi c'è sempre puzza di olio bruciato. Apro il rubinetto e aspetto che la prima acqua, quella marrone, venga inghiottita dal lavandino. Offro le mani al ghiaccio sciolto che fotta a singhiozzi, le agito bagnate sul viso e, no, non funziona, non mi sveglia. Torno all'impianto attraversando uno spazio in cui non mi riconosco. Uno spazio che odio senza rancore, alla stessa maniera di un obeso che odia il cibo che lo rende grasso. La fabbrica alimenta il mio dolore. La odio perché ne ho bisogno. Ne ho bisogno perché la odio. Mi trascino in apnea fino alle sei del mattino. Non riesco a stare a galla. Sono un naufrago che non ha mai voluto imparare a nuotare quando il mare era calmo. Adesso mi tocca ingoiare e sputare, sperando di toccare la riva prima di annegare. Chiudo con un bel meno 23% di produzione. Record negativo di sempre. Wow, sono una cima. Il guaio è che dopo aver lavorato otto ore, di notte, devi anche tornare a casa senza schiantarti con la macchina. Mi sveglio alle 16,30 ed è già buio. Vivo giorni senza luce. Esco per andare a lavoro troppo presto o troppo tardi, mi addormentano quando gli altri fanno colazione, mi sveglio a ora di cena. Il bello del giorno libero è che ho tutto il tempo che voglio per non fare niente, per crogiolarmi e stare a galla come una papera di gomma nella vasca di un bambino. Mi metto nudo davanti allo specchio, le occhiaie mi arrivano quasi alla punta del naso. Mi raso i capelli a zero lasciando intatta la barba, ringiovanisco di un paio di anni. Taglio via anche la barba e via altri due anni. Adesso ho ventisei anni, mi sorrido allo specchio.
La fabbrica ha reso il mio corpo tonico, nascondendo la timidezza del mio essere esile con linee precise intorno ai muscoli. Sono patetico, sono bianco come un cadavere ad eccezione delle parti riempite dall'inchiostro e delle braccia viola, sulle quali non ci sono bolle, ma strisce scure raggrinzite. Avvicino il braccio al naso e sento distintamente l'odore di carne bruciata, mista alla puzza di plastica. Mi osservo, trattengo il respiro esponendo i pettorali e contraendo gli addominali, faccio uno sguardo serio corrucciando la fronte. Mi infilo sotto la doccia e gratto la pelle con il guanto di crine che hai lasciato tu. Gratto come un disperato, un appestato, sto attento solo a non sfregiarmi le braccia. L'acqua bollente mi sbatte sulla faccia, chiudo gli occhi, respiro con la bocca aperta, ansimo. Se piangessi non se ne accorgerebbe nessuno. Esco dalla doccia senza essere riuscito a lavarmi di dosso un bel niente. Le malinconie mi sono ancora attaccate addosso, i tuoi passi lasciano scie di profumo in altre stanze, per altri nasi, altri occhi seguono il tuo passaggio, in altri luoghi. Controllo il cellulare, ma non c'è nessuna tua chiamata. Vorrei telefonarti, avere il coraggio di farlo, avere qualcosa di speciale da dirti, magari una di quelle cose brillanti capaci di ammutolirti, ma non ce l'ho. Vorrei penetrare la tua corazza lucida di scarafaggio. Certi giorni, come oggi, mi accontenterei di scheggiarla. Vorrei poter trovare la frase giusta, quella che non ti fa arrabbiare. Una frase divertente, irresistibile, capace di farti crepare dal ridere, capace di cancellare qualsiasi schiaffo, insulto, indice puntato. Mi rigiro il cellulare nelle mani ed è freddo, non ha niente a che vedere con il calore del tuo corpo appiccicato al mio. Se lo guardo rimane a fissarmi inespressivo con i suoi pixel arancioni. Lo accarezzo con le dita, ma non riesco a dargli la vita, rimane indifferente, rimane telefono. Mi accendo una sigaretta, smonto la batteria. Così è più leggero, ho come la sensazione di aver staccato un uomo dal respiratore artificiale, di averlo liberato. Smonto la cover frontale, dispongo tutti i pezzi uno accanto all'altro, ma non mi basta.
Prendo un coltello dal tavolo e faccio leva piegando la plastica per staccare il display. Non è divertente, non mi dà nessuna gioia fare questo gioco infantile, ma non c'è niente altro che possa fare se non sperare in una evoluzione tecnologica del vodoo. Telefoni al posto di bambole. Domani comprerò il giornale locale alla ricerca della notizia: ragazza ventiseienne trovata nel suo letto con la testa staccata. Nessuna traccia dell'omicida. Accendo il pc e ti scrivo una mail. Dieci righe per dirti che ti voglio. Schiaccio "invia" e me ne pento subito. Mi fischiano le orecchie, mi fischiano sempre da qualche mese. Questo fischio costante e atono mi ricorda che ci sei, una presenza costante che scarta a destra la mia volontà e corre la sua corsa verso il niente. Vorrei esserti vicino, pelle a pelle, su di te, con i nostri respiri che si sommano e annullano. E invece sei lontana. Lontana con la testa, lontana con lo stomaco. Rimonto il cellulare e chiamo Dino. Con lui si esce a bere, è così che funziona. Un uomo ha bisogno di avere delle certezze nella vita: Dino è la certezza che mi ubriacherò, è la certezza che perderò i sensi, la certezza che sopravviverò anche a questa notte. Le valvole dell'amplificatore si scaldano come si deve, il giradischi freme, Tom Waits mi brama. Sfilo il disco dalla copertina con la stessa accortezza con cui maneggerei tritolo, lo accarezzo con la spazzola in fibra di carbonio, come accarezzerei le tue gambe, lascio che lo stilo trovi la sua strada tra i solchi e godo mentre ascolto il tuo silenzio e aspetto. Dopo dieci minuti sento la sua macchina arrivare, socchiudo la porta e lo spio mentre si aggiusta la giacca di pelle e raggiunge l'ingresso.
Dino sorride. Cascasse il mondo, Dino sorride. La sua presenza nella mia vita è un dono di Dio e, stranamente, oggi non è in ritardo. Ci abbracciamo sulla porta come se non ci vedessimo da anni e invece non è passata che una settimana. Beviamo una birra, aspettiamo che finisca la facciata del disco e usciamo in strada. Facciamo il giro dei bar, fumiamo due milioni di sigarette, beviamo e parliamo tanto. Attacchiamo bottone con due ragazze, le offriamo da bere, ma ce la filiamo quando scopriamo che quei corpicini moderatamente succulenti, appartengono a due sedicenni. Tagliamo la notte, la spacchiamo a metà come una pesca acerba sotto il peso di una mannaia. Ancora un paio di posti, ancora un po' di alcol, ci diamo gomitate per guadagnare la cassa e stabilire chi pagherà il giro. In quello che sarà l'ultimo bar della serata c'è un Tequila Party, è tardi e la gente è su di giri. Buttiamo giù un paio di bicchieri, la musica è volgare e alta. Dai tavoli vicini sentiamo i bicchieri battere sui tavoli e qualcuno gridare "bum bum". Ci avviamo verso i bagni insieme, come due puttane che vanno a ravvivarsi il trucco, Dino sorride come se gli avessero appena comunicato che ha avuto un figlio. La vita gli scivola addosso, non ha odio dentro di sé. La musica si fa meno rumorosa, sui divanetti non restano che pochi ragazzi, prendiamo i nostri giubbini, ci diamo qualche pugno ai fianchi, come due adolescenti alticci e andiamo via.
Tra due ore comincia il turno in fabbrica, il criceto deve essere pronto, la ruota deve girare, nessuno la può fermare.
foto di Sonya Songyan
note:
This abandoned workshop had existed in Anshan, Liaoning Province, Northeast China. The area used to be the most important heavy industry base of the country. Since late 1990s, a huge number of state-owned factories were going bankrupt one bye one due to global structural changes.
The photo was taken in February 2004 and the workshop was knocked down in 2005.
Mastro Tensione, per contatti: yeahs@hotmail.it