Globalizzazione, società liquida e riforma del sistema scolastico.
Una risposta all'intervento di Giacomo Correale.
Questo articolo inizialmente voleva essere un commento; esigenze di spazio e la volontà di creare un dibattito che coinvolga anche voi lettoril'hanno trasformato in un intervento a sè.
Trovo valido il commento di Giacomo Correale e il suo articolo su Bauman (La vita liquida e la speranza, disponibile a questo link). Il problema che il sociologo anglo –polacco pone nel suo saggio, declinato in ottica europea, è quello di una società tradizionalmente ancorata a valori più solidi che si è trovata improvvisamente coinvolta, e impreparata, nel cambiamento globale. Quel cambiamento che ha generato, secondo Bauman, la famosa società "liquido-moderna", dove "le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”.
Liquidità significa lotta per la sopravvivenza, in un mondo che per tradizione è sempre stato più prudente e astratto di quello americano, nato col mito della frontiera, o di quello asiatico, forgiato dalla ferrea disciplina confuciana.
Ma dov’è la liquidità, attorno a noi? In quali luoghi, e in quali forme si manifesta? Un esempio interessante potrebbe essere questo. Prendiamo un giovane milanese e un giovane della provincia; diciamo pure, per rimanere in ambito locale, un milanese e un brianzolo. La continua esposizione del primo agli stimoli di una società da lungo tempo complessa come quella cittadina, aspetti che ha potuto sperimentare sulla sua pelle sin da bambino, l'ha reso, per dirla in una parola, più "sveglio", più adatto ad accettare le sfide del cambiamento del suo coetaneio brianzolo. Il quale, invece, abituato ai ritmi più blandi della (ex) provincia, trova più difficoltà nell’adattarsi. Le categorie con cui è cresciuto, quelle con cui ragiona e di cui si serve tutti i giorni per interagire col mondo sono altre.
Un futuro lavorativo spesso incerto ed esposto ai capricci della fortuna e una realtà sociale parcellizzata e frammentaria hanno forgiato il carattere del giovane milanese dotandolo di una tempra sconosciuta al giovane brianzolo. Di contro, la dimensione più intima e familiare della provincia, che fino a poco tempo fa costituiva un valore, offre riparo e sicurezza di fronte alle avversità della vita, ma non predispone ai cambiamenti.
Un'altro esempio, questa volta dal sapore decisamente più etno- culturale potrebbe essere quello del suk arabo. Molti occidentali non riuscirebbero a sopravvivere una giornata intera in quel gigantesco ridondante mercato che è il contrario della tecnologia e della modernità, dove il continuo cianciare, gli odori, i profumi, il contrattare si mischiano alle grida, alle espressioni dei volti e alla mimica facciale esasperata. Ridere, gioire per la vita e soffrire mendicando, messi l'uno di fianco all'altro, creano un accostamento per stomaci forti che è una mente non allenata riconosce come segnali di allerta. Col rischio di portare in breve alla nevrosi chi si vedesse costretto a trattenersi in un luogo simile contro la propria volontà.
Ascoltare la città
Possiamo imparare qualcosa da tutto questo? Credo di si. In primo luogo, mi sembra che la globalizzazione abbia scoperchiato il vaso di Pandora delle appartenenze ristrette, smascherando, come effetto collaterale, anche molte delle paure irrazionali che le società, nessuna esclusa, portano con sé. Paure sono il risultato delle “prove” a cui nei secoli sono state sottoposte, e delle strategie, spesso di evitamento, che esse hanno trovato per superarle. Questo è senza dubbio un fatto positivo. In secondo luogo, codici culturali, ordinamenti giudiziari diversi, abitudini consolidate si traducono in stati differenti, basati su economie differenti, e producono cittadini diversi. Il miscuglio globale sta diventando di stretta attualità per buona parte del mondo, con le inevitabili conseguenze che ne derivano. Disordine e insicurezza in primis.Questo è senza dubbio un fatto negativo.
Per trovare la quadra, e la speranza, bisogna ragionare su questi elementi. La spinta al cambiamento, al rinnovamento, che Correale ( e Bauman, naturalmente) riconoscono come positiva, lo è senza'altro. E' una spinta che viene dalle città, i veri laboratori, della modernità (per dirla con Hannerz, l'unico “luogo dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra”). Da lì, e non dalle accademie, si dovrebbe partire. Cosa succede quando gruppi etnici diversi si incontrano? Cosa accade quando un quartiere intero diventa conese, o marocchino, o peruviano? Quando la ricerca si ferma alle elaborazioni teoriche, ci si dimentica dell'obbligo di creare la modernità attraverso "linguaggi" nuovi. E si apre la strada a politiche miopi e populiste.
Mediare tra le diverse esigenze, intranazionali e internazionali, armonizzare per quanto possibile gli ordinamenti per aiutare l’economia e la circolazione delle merci, e quindi lo sviluppo; sviluppare un sistema di alleanze proattivo che sia in grado di garantire il benessere, oltre alla sicurezza è un impegno che richiede mano ferma e chiarezza di idee, ma anche una certa dose di savoir faire. Non è certo facile, ma ci si può provare. Alla politica spetta il compito di guidare il cambiamento, in questi anni di transizione che si riveleranno decisivi, e cercare di cogliere il meglio dalla globalizzazione che, in definitiva, mi sembra debba essere vista come un'opportunità.
Mi sembra a questo punto imprescindibile occuparsi dell'educazione dei cittadini di domani.
L'educazione dei giovani ha un ruolo fondamentale nell'accettare le nuove sfide globali. Studiare significa aprirsi, predisporsi al cambiamento e al mettersi in discussione. Nel Duemila significa differenziarsi dallo sterile nozionismo - che mantiene comunque una valenza formativa quando significa imparare nomi e date cje ci ricordino la nostra storia - senza per questo diventare una terra di nessuno in cui ciascuno si senta “professore” e di allievi non ne esistano più.
La specializzazione della società moderna che porta a una diminuzione del senso critico dell'individuo in favore del senso comune, visto come maggiormente affidabile, è sicuramente una conseguenza della maggiore complessità sociale. La delega all’ “esperto” o all’ente affidabile che ci dica cosa pensare e come farlo, in sostanza, come risolvere i problemi, aiuta a vivere in un mondo sempre più veloce. Ma atrofizza la mente.
La sfida del sistema scolastico
Rinnovare i sistemi scolastici per fornire ai giovani gli strumenti adatti a comprendere i mutamenti in atto è un'esigenza non più prorogabile. Di quegli stessi mutamenti, i giovani saranno fra poco protagonisti in prima persona. Inutile dire che non sembrano pronti. Chi scrive appartiene a una generazione di passaggio, priva di modelli saldi; ma quella dei ragazzi di oggi, cresciuta a base di playstation e televisione, vestiti firmati e amuchina, senza riferimentii chiari nè una cultura sembra destinata a un futuro peggiore. In cambio di un po' di libertà, hanno ottenuto il mito del successo e la necessità quasi ossessiva dell'affermazione di sè. E lo esprimono come meglio possono: chi urlando, chi diventando aggressivo... chi chiudendosi in se stesso, per poi riemergere con un atto plateale quasi sempre dalle conseguenze drammatiche.
Insegnare sin da subito l'integrazione a scuola, tenere i bimbi al riparo dalle diatribe dal sapore elettorale degli adulti mi sembra un'esigenza imprescindibile. La pronuncia della Corte Europea sul crocifisso in aula, e il conseguente dibattito mi paiono un bell'esempio di ciò che non si dovrebbe fare. In un'Unione che si appresta a includere anche la Turchia, e che per definizione è multietnica, sarebbe più utile insegnare la storia delle religioni.
Caro Giacomo, un sistema educativo sano e plurale è la condizione necessaria per poter almeno coltivare la speranza di cui parli.
Non lasciare nessuno indietro
Se il Novecento è stato definito "il secole breve", con riferimento ai cambiamenti epocali che si sono verificati uno dietro l'altro, non c'è ragione per dubitare che il Ventunesimo lo sarà ancora di più. L'attenzione ai giovani è dovuta; ma ci sono anche gli altri, i post 40enni cresciuti in un mondo che non gli appartiene più e di cui spesso non capiscono molto. Lasciarli indietro non è giusto. Nel permettermi di consigliare la lettura del bel libro di Luca De Biase "Economia della felicità", suggerirei di tenere presenti un paio di concetti. Non accettare come dato una volta per sempre l'allargamento della forbice tra le varie categorie sociali. Non copiare pedissequamente modelli che non ci appartengono. Sta a noi immunizzarci dal virus dell’egoismo, molto più pericoloso, per quel che si è visto finora, di quello dell’influenza.