Erasmo, Bauman e la globalizzazione della cultura. Prosegue il dibattito di Vorrei sulla "società liquida" descritta dal grande sociologo.
Qualche parola. Pur non essendo un partigiano del liquidismo, sono senz'altro d'accordo con Antonio Piemontese sul ruolo cruciale che spetta all'educazione e alla scuola nell'affrontare le mutazioni sociopolitiche che indichiamo con il termine 'globalizzazione'. Un'idea perfino banale, ma visto il Paese in cui viviamo è forse il caso di fare esercizio d'umiltà e ricordarlo una volta di più.
Che poi, globalizzazione. Fisserei due punti intorno a cui orientare il nostro dibattito. Da un lato, l'aumento e l'ampliamento di scala dei flussi migratori. Dall'altro, il predominio della comunicazione e dei media di massa sugli altri apparati delle culture (pensiero politico, arti, folklore, etc). I due aspetti non esauriscono sicuramente il problema, ma mi sembra che delimitino a sufficienza l'orizzonte a cui il sistema educativo è chiamato a rispondere.
Sul primo punto (meraviglioso l'esempio del suk arabo) sono sinceramente pessimista. Voglio dire, noi italiani siamo gli eredi di una delle più belle tradizioni umanistiche d'Europa. E guardate a cosa si è ridotta la nostra cultura: chiassose zuffe sul crocefisso in aula e sproloqui ignoranti sulle radici cattoliche di un Paese che non si cura più nemmeno di studiare il latino. Beninteso: non mi sto lamentando. Ogni tempo elabora la propria cultura, e noi ci lamentiamo della decadenza della retorica da un po' troppo tempo per essere ancora credibili.
Il problema, piuttosto, è adorniano: per elaborare un pensiero critico, ovvero un pensiero "aperto e plurale", occorre una base di partenza. Una tradizione in grado di sostenere, integrare, fornire materiale per elaborare nuovi modelli. La mia impressione è che negli ultimi vent'anni il nostro considerevole capitale culturale - e non mi riferisco solo ai classici, ma anche, per esempio, alle conquiste metodologiche degli anni Settanta e Ottanta - sia stato dissipato senza ritegno. Reso incapace di agire, neutralizzato e menomato.
Non perduto, no. Per quello ci vogliono secoli. E' stato come messo in parentesi. E qui arriviamo al secondo punto: il predominio della comunicazione nei meccanismi di elaborazione del senso all'interno della società. Conseguenze: lo schiacciamento sul presente, l'abbattimento delle distinzioni tra pubblico e privato, informazione e intrattenimento, chiacchiericcio da bar e riflessione politica, etc. Per chi si occupa di media questi argomenti sono pane quotidiano. La sociologia si è poi occupata di studiarne i vari effetti sul corpo sociale e civile.
Ora, questi effetti - tra le altre cose - comprendono proprio lo smorzamento dei poteri di traduzione della cultura. Cioè di quelle facoltà di assimilazione, integrazione e reciproco cambiamento che tutti invochiamo nel confronto con l'Altro. Ecco allora dove potrebbe entrare in gioco la scuola: insegnando a smarcarsi, a riconoscere e disinnescare i meccanismi di potere insiti nel discorso televisivo, a rilevare i sottintesi culturali, le implicazioni ideologiche. In breve: instillando almeno i germi di quel pensiero critico che il vecchio Adorno invocava (bontà sua) già contro la radio e la musica jazz.
Si tratta insomma di recuperare agli strumenti dell'immaginario e della cultura giovanile proprio quel radicamento e quella continuità il cui bisogno emerge oggi in forme oblique, manipolate dal potere politico (orgoglio vichingo-padano) o ingenuamente declinate nell'attivismo nuovo-mediale. Non abbiamo bisogno di nuovi Adami, ma del vecchio Erasmo. Il primo che passa da Rotterdam provi a dargli una voce.