Intervista al vincitore di Sanremo 2007: Alda Merini, Sergio Endrigo, il Festival,
la credibilità, il figlio Tommaso, il prossimo album. Ritratto di un artista maturo
Foto di Francesca Pontiggia
S
tasera sei al Tambourine con il tuo spettacolo “Canzoni e Monologhi”. Il primo nome che viene in mente accostando questi due termini è quello di Giorgio Gaber e il suo teatro-canzone. Si può parlare di teatro-canzone riferendosi a quello che proporrai stasera?
Di solito le serate che faccio chitarra e voce sono all’insegna dell’improvvisazione, della scaletta che cambia. Non è uno spettacolo che ha una scaletta sempre uguale, mi piace percepire lo stato d’animo del pubblico, capire che tipo di serata fare e in base a quello mostrare più una parte oppure l’altra di me. Ho varie sfaccettature, sono un simpatico cialtrone, a volte anche demenziale, e nello stesso tempo mi piace raccontare anche delle storie più emozionanti o emozionali. Questa sera farò sicuramente dei monologhi tratti dai miei spettacoli; sono monologhi a volte divertenti, a volte un po’ meno. Comunque sì, il mio punto di riferimento in questo è stato Giorgio Gaber col suo teatro-canzone. Ora mi sono spostato invece più sul teatro di narrazione con gli ultimi progetti. Stasera mi è venuto a trovare anche questo mio amico, Francesco Arcuri, che suona strumenti molto particolari, tra cui la sega musicale. Quindi c’è questo elemento che si aggiunge allo spettacolo, che è un elemento nuovo per me, perché è la prima volta in assoluto che suoniamo assieme. Mi piace buttarmi senza rete e vedere quello che succede. È una fortuna suonare con lui, perché è davvero bravissimo, suona con grandi artisti, come Vinicio Capossela.
Negli ultimi mesi sei stato invece protagonista di uno spettacolo assieme ai Minatori di Santa Fiora, con il recupero di canti tradizionali, legati a vino, amore ed anarchia. Com’è nata questa collaborazione e questa voglia di guardare alla tradizione?
È nata dopo Sanremo, dopo il tour che ho fatto, che è stato davvero massacrante, con più di cento date. Sono arrivato alla fine felice ma sfinito. Ho incontrato per caso questo coro, il coro dei minatori di Santa Fiora, che riproponeva un repertorio da osteria, quindi canti molto gioiosi. Di solito uno pensa ai minatori e li associa a qualcosa di triste e di lugubre; invece questi canti sono allegri, perché servivano ad esorcizzare la paura di morire nelle gallerie. Di conseguenza ci sono grande gioia, condivisione e goliardia che escono fuori dallo spettacolo e che mi hanno fatto proprio bene, è stata per me quasi una terapia. In più c’è anche il fatto che mi ero comunque appassionato alla musica popolare, grazie ad alcuni personaggi, come Ambrogio Sparagna, che era un grande etno-musicologo e ricercatore di musica popolare, oppure Ginevra Di Marco, che è un’artista che io apprezzo molto e che ha fatto delle ricerche molto belle proprio in questo ambito. Inoltre nello spettacolo ho inserito delle parti di narrazione in cui racconto la vita in miniera e storie del paese, per cui è diventato un progetto molto singolare, con cui abbiamo girato tantissimo quest’estate. Abbiamo calcato dei palchi importantissimi, inaspettatamente; per esempio siamo stati il mese scorso al Teatro degli Arcimboldi assieme a Francesco De Gregari, oppure all’Auditorium del Parco della Musica di Roma, abbiamo avuto tante esperienze bellissime che finiranno in un film documentario che si intitolerà “Santa Fiora Social Club”, richiamando il Buena Vista.
Tra poco più di un mese parteciperai al Festival di Sanremo, dove tre anni fa hai vinto. Come sarà questo tuo ritorno in riviera? Puoi darci qualche anticipazione sul brano che porterai in gara?
Posso dire che torno a Sanremo principalmente perché mi diverte l’idea di presentare una canzone che non ha niente a che vedere con quella che vinse il Festival, nel senso che sicuramente è una canzone che spiazzerà molti. A me va bene così, perché nella mia breve carriera se c’è una cosa che mi ha contraddistinto è stata questa idea di rinnovarmi sempre. Per esempio anche il progetto con il coro dei minatori è stato un salto nel vuoto, oppure il nuovo monologo sulla guerra di Russia. A Sanremo andrò anche per presentare tutti questi progetti e, in più, anche il mio nuovo disco, che era pronto ad uscire già un anno fa. È stato molto faticoso per me questo terzo disco perché mi ero avventurato in altri mille mondi e avevo un po’ lasciato da parte la musica; il titolo ancora non lo so, anche se il disco sarà stampato tra poco.
Hai citato il prossimo spettacolo che porterai in scena, intitolato “Li Romani in Russia”, in cui racconti la missione in Russia durante la seconda guerra mondiale. Cosa ti ha fatto sentire l’esigenza di raccontare quel tragico momento di storia?
Innanzitutto il fatto che è una storia che mi riguarda da vicino, perché mio nonno, Rinaldo Cristicchi, fu uno dei pochissimi reduci a tornare dalla campagna di Russia. Non mi ha mai voluto raccontare niente di questa esperienza, come se la volesse rimuovere o non volesse svelarmi qualcosa di brutto. Ho incontrato poi per caso questo libro, “Li Romani in Russia”, che è un’opera epica di 1200 ottave; l’ottava classica è la metrica della grande tradizione dell’epica, come la “Gerusalemme Liberata” o “L’Orlando Furioso”. In questo caso è in dialetto romanesco; io sono romano da undici generazioni, quindi sento ancora di più il dialetto, lo sento molto mio. Quindi l’esigenza è stata quella di raccontare una storia ancora poco conosciuta, soprattutto per le giovani generazioni, e raccontare un episodio di guerra che però raccontasse nello stesso tempo tutte le guerre, anche perché in questo testo viene descritta molto bene la disumanizzazione dell’uomo in guerra. Durante la ritirata che ci fu nel ’43 quei poveri ragazzi che erano stati mandati lì a morire furono lasciati a loro stessi, allo sbando, venivano chiamati “l’esercito degli straccioni”. Questo è un testo che racconta la storia che è già stata raccontata da altri scrittori dal punto di vista degli alpini, come hanno fatto Rigoni Stern o Bedeschi; invece il punto di vista dei romani non era mai stato approfondito. Ciononostante non è questo il fatto che mi ha spinto a imparare questo testo e a recitarlo, è stata soprattutto la voglia di avvicinare le giovani generazioni a queste tematiche, perché credo sia importante tenere a mente che cos’è la guerra, e questo è un testo che riesce a farlo in maniera brillante, quasi per assurdo. Non è un testo noioso infatti, è come vedere un film; anche questo è un aspetto che mi ha colpito e mi ha convinto.
Lo scorso autunno hai partecipato alla manifestazione in favore della libertà di stampa. Dal palco hai cantato un brano inedito, “Genova brucia”. L’hai fatto per mettere in guardia sul fatto che non è solo la libertà di stampa ad essere in pericolo?
In un certo senso sì, perché questa canzone ha una storia un po’ particolare. Ho cercato di farla pubblicare per tanto tempo dalla mia casa discografica e non hanno mai accettato. Sono riuscito invece quest’anno a convincerli e sarà pubblicata nel nuovo album. Detto questo, mi piaceva farla su quel palco, infatti l’ho presentata dicendo che non esistono solamente le censure sull’informazione, la censura esiste a volte anche sulle canzoni. Ha avuto un grande riscontro questo pezzo in quell’occasione perché raccontava il G8 e i giorni di Genova in maniera particolare, anche violenta se vogliamo, dal punto di vista di un celerino fascista picchiatore che non vede l’ora di massacrare la gente col suo manganello. Anche questa è una storia che andrebbe approfondita, anche sono già stati fatti tanti libri e tante inchieste. Però ricordare quel che è successo, la memoria mi interessa molto nel mio lavoro. È stato così per quanto riguarda i manicomi, raccontare quello che succedeva alle persone che ci finivano, che oggi sembra assurdo ma fino a poco tempo fa avveniva. È così anche per quello che è successo a Genova o per la vita dei minatori, tutto si ricollega a questo mio interesse per la memoria.
Nell’ambito del tuo progetto sui manicomi hai conosciuto e collaborato con Alda Merini, a cui hai anche dedicato la canzone “Nostra Signora dei Navigli”. Purtroppo Alda ci ha lasciato pochi mesi fa. Puoi darci un tuo ricordo della grande poetessa milanese?
Io sono molto legato ad Alda Merini perché ho avuto la fortuna di conoscerla, di frequentarla, di intervistarla, di starci insieme, di parlarle. Sono legato a lei perché è stato per me un incontro che mi ha colpito profondamente, con una persona dal carisma straordinario, anche solo standole vicino percepivi un’energia fortissima. In lei convivevano due anime, una dolcissima, di una sensibilità estrema, l’altra invece rabbiosa, sembrava che ce l’avesse con tutti. Quindi starci insieme era affascinante, perché sembrava di stare con un essere che non era di questo mondo, soprattutto quando mi è capitato di assistere alle sue improvvisazioni poetiche, perché lei non scriveva più, dettava le poesie. Io sono stato fortunato perché negli ultimi tempi lei decise di farmi dei regali, mi chiamava al telefono e mi dettava delle poesie, tra cui una in particolare a cui tengo molto perché la dedicò alla nascita di mio figlio Tommaso; è una poesia straordinaria che tengo tra le cose più preziose. Detto questo, secondo me Alda resta la più grande poetessa italiana, peccato che molti non se ne siano accorti mentre era in vita, ma non è mai troppo tardi, forse, per tributarle ciò che merita.
Una domanda “solo musicale” ora. Il tuo stile di canto è solitamente abbastanza rappato, ma in alcuni casi, come nel duetto con Sergio Endrigo contenuto nel primo disco o in “La risposta” è più melodico e in linea con la tradizione cantautorale. In futuro hai intenzione di sfruttare maggiormente le tue doti in tal senso?
Sì. Faccio un concerto con un quartetto d’archi, lo Gnu Quartet, e con loro mi diverto a cantare, nel senso che reinterpreto delle canzoni degli anni ’60 o dei grandi cantautori, da De André a Sergio Endrigo. Io ho iniziato cantando, come cantante melodico, il rap è stato un modo per inserire in una canzone tante parole, tante descrizioni; è quasi una malattia, infatti non mi reputo un rapper, mi reputo un narratore, le mie canzoni sono a volte piene di descrizioni. Nel nuovo album invece ci sarà solo una canzone che è simil-rappata, mentre tutte le altre sono cantate, melodiche, anche se è un album molto rock, sulla linea di “Genova Brucia”, per esempio.
Ultima domanda, forse la più impegnativa. Come ti vedi tra dieci anni? Cosa speri di ottenere nei prossimi anni?
Io mi sto piano piano abituando a seguire i miei istinti, quello che mi va di fare, senza programmare troppo, quindi è una domanda un po’ difficile a cui rispondere. Mi sto impegnando molto a costruirmi un pubblico, perché credo che sia importante per un artista come me creare uno zoccolo duro che mi segua anche nelle mie scorribande extra-musicali. Quindi se fino a due anni fa le persone che venivano ai miei concerti erano soprattutto giovani, in quest’ultimo anno l’età si è molto alzata. Per me è un buon segno questo, non perché non voglia un pubblico giovane, ma perché a seconda dei miei progetti cambia anche il tipo di pubblico, è normale. Quindi in futuro mi vedo a continuare con queste mie ricerche, che poi si trasformino in canzoni, in spettacoli o in monologhi non lo so dire. Però ho questa grande fortuna di essere curioso, è la curiosità che mi ha permesso di arrivare al livello in cui sono; non dico di essere a un livello altissimo, però sono felice, sono una persona serena e voglio continuare ad essere fedele a me stesso, anche magari non avendo un grande pubblico. Non è quello a cui miro, anche se ho vinto Sanremo. È un altro discorso: la popolarità è una cosa, la credibilità è un’altra e ce lo mostrano tutti i giorni i reality show.