I festival culturali tra territorio, strategie economiche e ruolo del pubblico: un incontro a Bologna tra realtà cittadine e l'Osservatorio di Festival of Festivals
Di cosa parliamo quando parliamo di festival culturali? La domanda – come sanno coloro che ne hanno seguito il filo su queste pagine – è di quelle che impongono più di un momento di riflessione. Il termine, del resto, condensa un precipitato di questioni – territorio, cultura, evento, identità - tra cui è difficile perfino orientarsi: figuriamoci prendere parte.
Qualche mese fa ci eravamo ripromessi di seguire e dar conto delle attività del neonato «Osservatorio sugli Eventi Culturali e Festival» promosso da Festival of Festivals. In particolare, avevamo sottolineato come dalla manifestazione bolognese si profilasse la necessità di dare una forma teorica – se non politica – a quello che ormai è un sapere complesso, specchio di una prassi matura e diffusa.
L'occasione per aggiornare il discorso si è presentata giovedì, in occasione della presentazione a Bologna di Festival 2010. Un anno di eventi culturali in Italia. Il volume, edito da Morellini e presentato come un complemento alle guide turistiche, scheda e indicizza su base tematica e regionale quattrocento delle oltre novecento manifestazioni nazionali. Schede di approfondimento e finestre internazionali completano la guida, giunta alla sua quarta edizione e parte integrante di un progetto organico di coordinamento del settore di cui bisogna rendere indubbiamente atto a Festival of Festivals. Va detto peraltro che l'incontro – a cui erano presenti rappresentanti di alcuni tra i maggiori festival cittadini – ha preso fin da subito la piega di una riflessione più generale. Con risvolti perfino inaspettati.
Prima questione, il pubblico. Andrea Romeo, in rappresentanza dell'Osservatorio, ha rivendicato con energia la necessità di sfatare il luogo comune sulla sovrabbondanza di manifestazioni. Con ventuno nuove iniziative nel solo 2009, tuttavia, il mito parrebbe non del tutto infondato. Il fatto, stando ai dati, è che la diffusione di queste pratiche culturali sul territorio avviene per gemmazione. Anche considerando città medio-piccole, laddove una manifestazione riesce a consolidarsi è possibile costatare come – a distanza di poco – altre iniziative emergono sulla scia. La chiave di questo fenomeno sta nella creazione di un pubblico: l'offerta di cultura – in altri termini – genererebbe una domanda di cultura, e il mercato sarebbe di quelli che non si saturano.
Da sinistra: Andrea Romeo (Festival of Festivals), Emanuela Ceddia (Biografilm Festival), Davide Baruzzi (Bologna Jazz Festival), Massimo Carosi (Danza Urbana), Emilio Varrà (BilBolBul), Mauro Morellini (Morellini editore).
L'ipotesi – inutile negarlo – è affascinante. E' però Emanuela Ceddia (direttrice operativa del Biografilm) a sottolineare come in questa dinamica la variabile del territorio sia tutt'altro che trasparente. Insomma: perché emerga un pubblico, la città conta. La circuitazione dei contenuti non sempre ha successo: non esiste il festival per buono per tutti I pubblici. Così come – chiosa nuovamente Romeo – non esiste un luogo che non possieda le risorse culturali potenziali per esprimere un pubblico interessato.
La discussione – sollecitata anche da un intervento del cronista di Vorrei – finisce con l'inquadrare una polarità di fondo. Da un lato, i festival rappresentano delle pratiche culturali che convocano, in una dimensione di unicità e irripetibilità, delle forze che già operano sul territorio, agendo come un medium identitario. In questo senso, verrebbe da aggiungere, è difficile non pensare a queste manifestazioni come a una forma di resistenza nei confronti dell'intero sistema dell'industria culturale. Emblematico in questo caso l'esempio del BilBolBul, rappresentato da Emilio Varrà e dall'associazione Hamelin: in forte discontinuità con il tradizionale modello delle fiere del fumetto, l'iniziativa bolognese ha assunto una posizione di netto riposizionamento rispetto al proprio contenuto culturale, rinunciando ai classici stand degli editori per lavorare invece sul ricchissimo sostrato cittadino: un approccio quasi accademico, per un'operazione di alto profilo critico e – diciamo così – pedagogico. Da qui la posizione scettica, perfino velatamente polemica di Varrà sull'attenzione ossessiva al festival come evento. E non a caso.
Dall'altro lato della polarità, infatti, c'è proprio l'idea di queste manifestazioni come macchine per la produzione e la vendita di esperienze. Avremmo cioè a che fare con macchine economico-culturali, in cui proprio l'irripetibilità servirebbe a tradurre in termini di mercato un bisogno di cultura-in-atto che - dietro l'affollamento di prodotti culturali - resiste e cerca nuove strade per esprimersi. Ecco così che il festival si fa «struttura-flusso», pronta a tararsi sui bisogni di un pubblico che va coltivato, fidelizzato, abituato e – per così dire – vezzeggiato in quanto consumatore di cultura, in modo da inserirlo in una precisa catena economica e sociale, che collega sponsor privati e professionisti dell'organizzazione culturale.
Entrambe queste dimensioni – diciamolo chiaramente – appartengono giustamente al fenomeno festival. Si tratta in fondo dell'ennesima espressione di un conflitto antico, quasi antropologico, tra merci e pratiche culturali. A trovare un compromesso (crediamo) dovrebbe forse essere il grande assente dell'incontro di giovedì: la mano pubblica. Ma per questo, visti i tempi che corrono a Bologna (e non solo), sarà il caso di aspettare la prossima puntata.
Fotografie © Alberto Morelli