"Terra madre" di Olmi. Dalla lentezza dell'immaginario alla velocità del consumo: riflessioni sulla cultura del cibo sostenibile e le sue insospettabili propaggini.
Nel maggio 2009 usciva nelle (poche) sale Terra Madre, firmato da Ermanno Olmi in collaborazione con Franco Piavoli e Maurizio Zaccaro. Un film – come ebbe a scrivere qualche giorno più tardi Fabrizio Zappoli – che era un seme. Di semi, del resto, raccontava uno dei segmenti più affascinanti della pellicola, mostrando le immagini di una banca naturale aperta e custodita tra i ghiacchi delle Svalbard.
Eppure – osservando la trama composita lungo cui si dipanano le sequenze del film – più che a un seme viene da pensare a una mappa. Una mappa senza legenda, di scala variabile. Dal grande raduno torinese di Terra Madre nel 2006 alla rievocazione di una singola esistenza umana, passando attraverso esperienze e discorsi che intrecciano un vero e proprio zibaldone di pratiche, di culture, di idee.
In questo caleidoscopio – che è cinema, ma anche parola e tensione ideale – si riaffacciano fermenti e motivi che, almeno nell’ultimo decennio, hanno alimentato la sostanza culturale del movimento Slow Food, fondato da Carlo Petrini sul finire degli anni Ottanta. Un movimento che affaccia sulla costellazione di quelle forze sociali variamente opposte alla globalizzazione, nelle diverse forme che questa assume nella contemporaneità.
Un movimento che ha i suoi eroi, le sue parole d’ordine. In una parola: la sua riconoscibilità. Al cuore del discorso, tuttavia, l’osservatore attento può indovinare un problema molto più generale, una sorta di ansia generazionale la cui natura alza irrimediabilmente la posta in gioco. Ci riferiamo a quella fame di identità che viene oggi invocata per giustificare più o meno tutto, dai successi elettorali della Lega al tonno in scatola.
Un concetto che a sua volta lega a sé istanze diverse – parole orribili come riterritorializzazione e sostenibilità – fino alle più impensabili propaggini estetiche. Il gusto vintage che attraversa il design, per dirne una. O i panini patrii del McDonald’s.
Proprio il caso di questi ultimi può spingere a un’ulteriore riflessione. Riassumiamo: dopo un primo accordo realizzato dal Governo Prodi riguardante l’utilizzo del Parmigiano Reggiano DOP in alcuni menu della nota catena di fast food, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha di recente deciso di concedere il proprio patrocinio a un nuovo prodotto offerto dalla medesima catena. Trattasi né più né meno di un panino interamente realizzato con ingredienti italiani, variamente garantiti dalle sigle di garanzia che proteggono – per l’appunto – la genuinità dei prodotti tipici.
Ora. Questa operazione dovrebbe spingerci almeno a un paio di considerazioni. Da un lato, andrebbe notato che la scelta della multinazionale non rappresenta un caso isolato. Dal Canada all’India, il tentativo di McDonald’s di reinventarsi localmente ha una portata (coerentemente) globale. Che l’idea sia intrinsecamente paradossale è cosa che non dovrebbe destare troppo scandalo: del resto, sempre di panini si tratta. Anzi, se prendiamo per buona la generalizzata ansia identitaria di cui dicevamo sopra, possiamo ben intuire come queste strategie rispondano a una precisa volontà di adattamento del capitale ai sommovimenti della cultura. Il che – quando si guardi all’immobilismo di altre istituzioni – quasi strappa ammirazione.
L’altra considerazione che viene da fare riguarda la sostanza linguistica dell’intera faccenda. Diciamo linguistica non a caso: a garantire infatti la differenza comunicativa tra il comune olio d’oliva e quello dei Monti Iblei (orgogliosamente rivendicato nel suddetto patrio panino) è proprio quel toponimo di provenienza, con la sua promessa implicita di trasparenza, ovvero di riconducibilità a qualcosa di comprensibile, di responsabile. Insomma: a un’umanità, che quei monti nonostante tutto abita e lavora. E questo ci dice parecchio sullo strano potere che hanno i nomi propri nel linguaggio umano: un potere quasi magico, che garantisce sull’esistenza concreta dei propri diretti referenti. Eppure – con un’ultima nota alla Baudrillard – questi stessi nomi propri, irretiti nell’universo leggero del marketing – sembrano ora slittare verso un regime di simulacri, dove i luoghi e le pratiche perdono la propria unicità fondante per equivalersi, scambiarsi l’un l’altro. La lentezza del linguaggio esplode nella velocità del consumo.