A Bologna il primo festival dedicato ai video virali. Intervista al direttore artistico della manifestazione, sospesa tra paradossi e libertà creativa.
Da Bologna – tradizionale laboratorio di linguaggi e nuove forme espressive – arriva in queste settimane il progetto di un festival quanto meno bizzarro. Un festival – a detta degli stessi organizzatori – che è un falstival, in bilico tra l’imbroglio e la provocazione.
La proposta infatti è quella di un concorso per video virali. Una categoria indefinita, nella quale ricade un’ampia casistica di oggetti audiovisivi, generati e consumati dalla Rete. Piccoli commercials, immagini statiche accompagnate da testi, riprese amatoriali più o meno riuscite (e più o meno originali); una massa informe di creatività e idiozia liberamente distribuita, che - almeno dalla nascita di YouTube nel 2005 - costituisce uno dei fenomeni distintivi di quella che viene considerata la seconda stagione del Web.
Di questo festival/concorso (su cui trovate ulteriori commenti qui e qui) abbiamo parlato con Giuseppe Doria, direttore artistico dell’iniziativa, organizzata dall’associazione MomaBo.org.
Lo raggiungiamo a casa sua, nel cuore pulsante dell’iniziativa: un tipico appartamento studentesco nel centro di Bologna, riadattato negli ultimi tre mesi a ufficio stampa, sala riunioni e centro organizzativo del festival. Subito dopo le presentazioni, il direttore (classe 1983) viene convocato in cucina, per far saltare una frittata. Quindi – tornato al tavolo – abbandona il piglio guascone e inizia a raccontarci della sua scommessa organizzativa.
«La prima cosa che bisogna capire è che questo festival è virale fin dalle fondamenta. Non ci limitiamo a promuovere una forma espressiva: la adottiamo come principio di organizzazione. Del resto, non abbiamo fondi di nessun tipo: per noi il guerrilla marketing è una necessità più che una scelta di stile.»
Perché, non è sempre così?
«Assolutamente no. Ormai esistono agenzie pubblicitarie che organizzano campagne di guerrilla marketing su commissione, per chi se le può permettere. Noi, per promuovere il festival, ci siamo trovati ad attaccare volantini per terra rischiando la denuncia. E io mi sono personalmente infilato nelle aule di storia del cinema durante gli esami per parlare agli studenti.»
Però. Una promozione improvvisata, ma con un target mirato: gli studenti di cinema.
«Sì, ma fino a un certo punto. Perché il nostro non è un concorso di cortometraggi: non ci interessa tanto il canone del linguaggio cinematografico, ma una maniera di servirsi dell’audiovisivo. Infatti preferisco parlare di video, di oggetti che si confrontino in modo consapevole con una forma espressiva che finora non ha goduto di riconoscimenti seri. Prendi ad esempio i tre temi che abbiamo proposto: verità, dubbio, aspettativa. L’idea è quella di giocare con l’idea di relatività, evocandola senza menzionarla.»
Perché?
«Perché alla base del virale c’è un paradosso. Il paradosso di una forma comunicativa snobbata dagli ambienti culturali, ma che riesce a essere spontanea e imprevedibile pur avendo una sua logica e un suo criterio.»
E dove sta il paradosso?
«Nel fatto l’elemento virale è costruito a posteriori: non appartiene alla forma espressiva ma all’utilizzo, alla pratica della condivisione. Questi oggetti hanno in comune la tendenza a costituire delle serialità di elementi, ma alla fine non esiste nessuna base comune: si va dal montaggio di fotografie e scritte al falso amatoriale costruito dai creativi del marketing.»
E in tutto questo il festival come si pone?
«Il festival vorrebbe essere un ulteriore paradosso, perché chiede di utilizzare in modo creativo e consapevole questo effetto non prevedibile. E’ una sfida per tutti: anche per noi, che alla fine selezioneremo tre video – uno per ognuna delle categorie – e assembleremo un cortometraggio corale, un concept movie intitolato l’Arte del Paradosso, che invieremo a dei concorsi cinematografici veri. Questo per far capire che questo linguaggio, questa pratica, esiste e può costituire una forma espressiva matura se si sceglie di guardarla senza pregiudizi.»
Tu parli di forma espressiva e di linguaggio creativo, però nel regolamento del concorso si chiede – per garantire la riconoscibilità della ‘struttura virale’ di inserire nei video il marchio dell’iniziativa. Non vuol dire sbilanciarsi dal lato del marketing?
«Guarda, la faccenda del marchio per noi è più una garanzia che altro. Vogliamo la certezza che il video sia originale e pensato per il concorso. Certo, c’è anche un discorso di autopromozione: in questo modo i video che partecipano e vengono fatti girare diventano altrettanti virali, che diffondono la voce della manifestazione. Comunque c’è da considerare una cosa: chi fa viral marketing utilizza quella maniera espressiva puntando a ottenere l’effetto virale con l’intenzione di vendere. Noi chiediamo di fare lo stesso, ma per esplorare le possibilità espressive di questa pratica mediale. Non è la stessa cosa»
Ultima domanda. Qual è secondo te la frontiera di questo formato?
«C’è una cosa che mi è capitato più volte di pensare, riflettendo su quanto sia importante il riuso dei materiali in questo tipo di prodotti. Perché continuare a produrre nuovo pattume audiovisivo, quando su YouTube ce n’è già in abbondanza? Quello che mi piacerebbe fare personalmente è prendere quei materiali e rimontarli per raccontare storie nuove. Creare dei racconti a partire da immagini già usate, e vedere fin dove ci può portare il paradosso.»