L'attore e regista si è raccontato a Vorrei per Binario½: il lavoro al Binario 7, il sogno di un'Accademia Teatrale a Monza e il tributo ad Hemingway che chiude la stagione
Foto di Paola Rizzi
U
na vita per il teatro. Fin dai 16 anni, dai tempi del liceo, Corrado Accordino ha coltivato la passione per il teatro, «allora con risultati pessimi», racconta lui ridendo. Diplomato nel 1989 all'Accademia di Milano, è attualmente direttore artistico sia del teatro Binario 7 sia del teatro dei Filodrammatici di Milano. Nella sua carriera non sono mancate nemmeno incursioni nel mondo della narrativa (con una raccolta di racconti e un romanzo), ma il teatro resta il suo ambiente naturale, «anche se l'ho vissuto sempre con un atteggiamento distaccato – dice – all'Accademia mi presero come attore, ma io volevo fare il regista». Adesso che può svolgere entrambi i ruoli, confessa che è sempre più difficile recitare per un altro regista: «Riesco a farlo solo per qualcuno che stimo moltissimo – dice al riguardo – perché "chiudere la chiavetta della regia", per dirla alla Pirandello, è difficilissimo, ce la fai solo se hai grande considerazione per chi ti dirige». Abbiamo intervistato Accordino in occasione della presentazione del suo nuovo spettacolo "Hemingway".
Partiamo dall'uomo Hemingway: che cosa credi che abbia lasciato al Novecento, a noi, e soprattutto, cosa credi abbia lasciato a te?
Sono appassionato da sempre di Hemingway, l'ho studiato tanto. Lui ha portato la disperazione nella letteratura, creando l'equivoco della coincidenza fra arte e vita. Ha deflagrato la figura dell'uomo accademico, ha portato la scrittura nella vita. Prima di lui era imperante uno stile pomposo e vittoriano, che lui non ha solo rifiutato, ma rivoluzionato. Questo per quanto riguarda l'Hemingway scrittore. Dell'uomo, invece, apprezzo la sua capacità di rischiare tutto, la sua avventurosità. Pescatore, cacciatore, pugile, guerriero: era un appassionato della morte, pieno di contraddizioni e capace di rendere letterarie le sue contraddizioni.
"Essere uomo è un mestiere difficile. E soltanto pochi ce la fanno". Secondo te nella sua opera Hemingway fornisce alcuni elementi per capire cosa serva per riuscirci? Secondo te quali sono?
Per me lui ha scritto solo romanzi grandiosi o terribili, senza vie di mezzo. In quelli grandiosi il pensiero dominante dei personaggi era imparare a stare al mondo. Come ne "Il vecchio e il mare", per esempio, dove è raccontata la lotta di un singolo contro tutti. Il pesce che Santiago ha catturato è divorato dagli squali durante il rientro al porto, trasformando la sua vittoria sulla natura in un apparente fallimento totale. Ma il personaggio non ha realmente fallito, perché per Hemingway l'uomo può essere sconfitto ma non può mai fallire, è il tentativo a nobilitare l'essere umano. Anche lui, per esempio, alla fine della sua vita sembrerebbe essere un fallito, a causa della sua incapacità di crescere, di maturare, ma semplicemente ha voluto vivere l'intera sua vita come una giovinezza eterna.
Condividi con Hemingway la passione per l'avventura, intesa sia in senso concreto che metaforico (cioè, vivere tutta la propria vita come fosse un'avventura)?
Assolutamente sì. È dopo aver letto i suoi libri che ho deciso di viaggiare in Sud America, dove sono rimasto per nove mesi. Poi ho viaggiato anche in Africa e in Asia. Dopo aver divorato libri, in sostanza, ho sentito il bisogno di andare incontro alla vita, proprio come lui.
Il tuo "Hemingway" si propone come un tributo allo scrittore e all'uomo. Secondo te in un autore come lui è possibile scindere le due dimensioni?
Decisamente no. Lui ha corrotto, per così dire, una serie di generazioni di scrittori, facendo credere che arte e vita potessero mescolarsi. In effetti, lui ha sempre scritto della sua vita.
Come è nata l'opera? Ci sono stati ostacoli da superare o è scaturita senza difficoltà?
La vera difficoltà è stata dover tagliare circa due ore e mezza delle oltre quattro che avevo scritto. Lo spettacolo si divide in quattro parti: la cronaca della sua vita, dalla nascita alla morte; una condensazione dei suoi racconti e dei suoi romanzi; che cosa hanno detto di lui critici letterari, altri scrittori e altri personaggi famosi; e in fondo che cosa io penso di lui.
Chi oltre a te è stato coinvolto nella realizzazione dell'opera?
Lo spettacolo è un tributo personale che io ho voluto fare ad un autore che amo, quindi mi sento il più coinvolto di tutti. Hanno collaborato con me anche Valentina Paiano, Anna Bertolotti e Maria Chiara Vitali, nella realizzazione delle scenografie e nella resa scenica.
Cosa rappresenta per te questo nuovo testo, all'interno della tua carriera? Un fattore di continuità o un punto di svolta?
A dire il vero, nessuna delle due cose. Lo spettacolo esula dalle mie ultime regie. Il mio lavoro normalmente si concentra sulla frammentazione, sulla destrutturazione della realtà. Quest'opera invece no, perché è cronachistica. Diciamo che è un lavoro a sé stante. Sulla frammentazione, ci tengo a precisare che non considero la realtà schizofrenica, perché quella è una patologia, mentre per me la frammentarietà del reale è semplicemente un dato di fatto, un intrecciarsi di livelli di cui l'arte deve dare conto, poiché il suo ruolo è proprio quello. L'unitarietà delle esperienze, che noi consideriamo la "normalità", è utile per vivere, ma non è la vera realtà. Chi fa teatro non deve fare altro che rappresentare questo intrecciarsi di livelli dell'esperienza. Spesso si dice che l'arte "deve stare in piedi" per essere compresa, ma è sbagliato. L'arte deve esplodere, deflagrare.
Hai sperimentato anche la scrittura narrativa, sia breve che lunga. Quali differenze hai notato rispetto a quella teatrale? Nella stesura di quei testi, ti ha aiutato la tua pratica teatrale? E l'esperienza narrativa può aver migliorato, al contrario, la tua scrittura teatrale?
Il mio sogno era quello di diventare scrittore. Non essendoci riuscito, mi sono dato al teatro – ride – il teatro ad ogni modo mi appartiene di più. Nel teatro, il lavoro di scrittura è un mezzo per far agire le parole, per dar loro la vita, il respiro, il sudore dell'attore. La differenza con la narrativa è enorme, perché nel teatro è più forte la necessità di rendere presente la parola. Ecco, sì, direi che il teatro è più presente, il suo atto creativo è momentaneo, anche se rituale, ed è unico.
Curiosità: c'è qualcosa di Hemingway nel tuo stile narrativo?
Tra i racconti che ho scritto ce ne sono anche un paio dedicati a lui, scritti peraltro in luoghi a lui molto cari, come per esempio Cuba. Non credo di poter raggiungere il suo stile, ma posso dire che nella mia opera rappresenta una sorta di spirito guida.
Qual è il tuo rapporto con le altre forme d'arte?
Adoro la pittura, soprattutto l'espressionismo tedesco. Ho studiato molto Schiele, il suo modo di trattare le figure umane, che in fondo può anche essere un modo per trattare la psicologia dei personaggi teatrali. Ad ogni modo, non sono capace di dipingere, il mio interesse è solo teorico. Vorrei tantissimo saper dipingere. D'altronde, forse è proprio la distanza da quest'arte a rendermela così cara. Mi piacerebbe poter contribuire a realizzare le scenografie, per esempio, ma non riesco a tradurre in pratica le idee che mi vengono al riguardo. Di conseguenza lavoro personalmente sulle luci di scena, che in teatro corrispondono a ciò che l'inquadratura è nel cinema.
Tu lavori nell'ambito del teatro sia a Monza che a Milano: ci sono le premesse per la creazione di un "ponte" che possa unire le due realtà dal punto di vista culturale, o perlomeno avvicinarle un po'?
La sinergia tra le due realtà è già presente e attiva, soprattutto grazie al lavoro della compagnia La Danza Immobile. Sappiamo che in quest'epoca l'isolamento dell'artista è evidente, quindi noi operiamo per la comunicazione e l'incontro, lavorando su produzioni e coproduzioni ad ogni piè sospinto.
Parliamo della compagnia che dirigi, La Danza Immobile: cosa pensi dei risultati che avete raggiunto finora? Cosa si prepara per il futuro?
Io sono felicissimo di ciò che sta accadendo a Monza e Brianza grazie al Binario 7, trovo che sia una cosa straordinaria, un evento fantastico per la città, per il territorio, e soprattutto per tutte le arti coinvolte, dalla musica alla poesia, dalla prosa al cinema di cortometraggi. Anche la scuola di teatro, dove seguiamo duecentoventi ragazzi, sta dando grandi soddisfazioni. E vorrei rilanciare ulteriormente, approfitto di questa sede per dichiararlo: mi piacerebbe creare a Monza una vera Accademia teatrale. Noi lavoriamo per preparare i nostri allievi ad andare nelle accademie di Milano Roma o Napoli. Sarebbe invece molto più bello disporre di strutture adatte per avere un'accademia a Monza. Non si tratta di desideri gratuiti, ma di ambizioni dettate dal fatto che il territorio esprime un'istanza in questo senso. Il rapporto con la città è davvero maturato, ha aiutato molto il fatto di lavorare con istituzioni disponibili al confronto. C'è una progettualità in cui si crede, e ciò crea conseguenze positive.
Cosa ti aspetti dal pubblico?
Vorrei che quell'ora e mezza in cui la gente sta a teatro fosse un'esperienza sensoriale importante. So che la metabolizzazione dello spettacolo teatrale è più lenta rispetto a quella dello spettacolo televisivo. So anche che il cinema magari racconta meglio la vita rispetto al teatro, ma il teatro può fare di più: può raccontare anche la non-vita, o meglio ancora la a-vita.
Tu sei artista e imprenditore culturale. Cosa comporta questo nell'ambiente artistico?
In Italia i due ruoli sono sempre accoppiati perché manca una classe imprenditoriale capace di occuparsi degnamente della cultura e degli eventi culturali. Se non lo fanno gli artisti, non lo fa nessuno. In realtà, però, non vivo questa cosa come una mancanza, perché anche se questa sovrapposizione di ruoli non fa dormire mai, permette all'artista di seguire la sua opera in ogni singolo momento, senza bisogno di delegare a nessun altro un ruolo molto importante, quello di promozione e produzione. La verità, quindi, è che mancano le risorse, più che le figure professionali, perché anche se ci fossero gli imprenditori culturali, sarebbe un ruolo che io mi assumerei comunque. Il problema, dunque, sono le risorse e il modo in cui vengono assegnate. Per le istituzioni pubbliche che devono erogartele, la qualità di un lavoro culturale in genere si misura con i numeri. Che hanno certo una loro utilità, ma spesso non rendono giustizia al valore artistico di un'opera.
Per finire, torniamo ad Hemingway: pensi che tornerà, nella tua produzione? Oppure ritieni che, con questo testo, si possa considerare esaurito il tuo recupero della sua figura?
Dal punto di vista emotivo, mi ritengo a posto, lo spettacolo mi piace molto. Certo, non sarebbe male, in futuro, recuperare quelle due ore e mezza tagliate.