Probabilmente il più importante giornalista musicale italiano, il conduttore radiofonico di Asti si racconta a Vorrei: il lavoro del critico, il libro-intervista, la scena musicale italiana e internazionale
Foto di Chiara Ranieri
Spesso, in Suonala ancora Sam, abbiamo parlato di persone la cui vita è stata segnata da alcune canzoni. Per Massimo Cotto di sicuro "Thunder Road" di Bruce Springsteen (dall'album Born to Run del 1975) è stata un'illuminazione. Sentendola raccontare da un deejay, il sedicenne Massimo decise che il suo futuro sarebbe stato nella radio. A ventidue anni divenne il più giovane conduttore del programma Rai Stereonotte, e in Rai avrebbe lavorato per altri vent'anni. Attualmente in forza a Radio Capital, dove cura il programma Capital Tribute, la passione per la musica continua ad ispirare il suo lavoro. È anche scrittore: oltre ad aver pubblicato più di trenta libri di argomento musicale, tra biografie e interviste, con il suo primo romanzo Hobo, una vita fuori giri ha vinto il premio letterario intitolato a Cesare Pavese, nel 2003. Lo abbiamo incontrato nel suo studio ad Asti, in un regno fatto di dischi, cassette, fotografie, e soprattutto tanti ricordi degli artisti che ha incontrato.
La leggenda narra che ti è bastato presentarti al direttore di una radio privata per iniziare la carriera radiofonica. È stato davvero così semplice? Oggi sarebbe ancora possibile?
Gli anni in cui io iniziai questa strada erano decisamente molto diversi rispetto all'epoca in cui viviamo ora. Oggi l'importanza della musica è già esplosa all'interno dei mezzi di informazione, che ormai hanno scoperto quanto possa essere seguita dal proprio pubblico. Infatti oggi dedicano alla musica (e anche allo sport) molto più spazio rispetto ad una volta.
Cosa serve per diventare dei bravi giornalisti musicali?
Serve molto studiare la storia della musica, per riuscire a mettere tutto in prospettiva, distinguendo ciò che è oggettivo da ciò che è solo soggettivo. Bisogna essere affidabili e onesti, non prendere soldi dalle etichette, e soprattutto rispettare l'artista. Inoltre, secondo me, è un lavoro che deve essere svolto da chi nella vita ha sempre voluto fare quello. Chi lo fa come alternativa, magari proprio dopo aver militato in gruppi e complessi, se non addirittura parallelamente alla propria attività musicale, rischia di proiettare nel lavoro le sue convinzioni, invece di restare imparziale e obiettivo. In generale, la qualità più importante per un giornalista musicale è la credibilità.
Nella tua carriera, hai ottenuto la stima dei migliori musicisti italiani. De Gregori addirittura nel 2002 decise di rompere un lungo silenzio proprio con te. Come si riesce a vedersi riconosciuta tanta stima da parte degli artisti?
Ripeto, la credibilità di un giornalista è importante. Certo, ogni tanto in questo lavoro ci si imbatte in alcuni casi folli, per così dire: quando incontrai Mick Jagger per un'intervista, il suo manager rimase stupito che io avessi ascoltato per intero il CD, come se non fosse scontato. E in effetti capita spesso che critici e giornalisti si comportino in modo molto superficiale. Il rispetto per l'artista e per il suo lavoro è fondamentale, perché si crei fiducia reciproca. Ottenere la stima dei musicisti che si intervistano è frutto di una lunga e sincera militanza, e soprattutto di amore per questo lavoro, che fra l'altro è uno dei più belli che ci siano.
Cotto è direttore artistico del Premio De Andrè
Nel 2003 hai dovuto abbandonare la Rai, con somma tristezza di quasi tutti i più importanti musicisti italiani. Come mai hai dovuto lasciarla?
I motivi per cui ho dovuto lasciare la Rai sono alquanto delicati, direi ai limiti del penale. Di certo non è una pagina chiusa, perché vent'anni di lavoro non si possono scordare. Posso dire che sono cose che capitano quando si richiede un'appartenenza precisa a chi si occupa di musica, di arte. Ma l'arte non ha colore.
Le tue collaborazioni con riviste internazionali di grande rilievo (Billboard, USA, Howl!, Germania) ti forniscono un punto di vista privilegiato sulla realtà musicale odierna europea e internazionale. Come si presenta il mondo musicale di questo primo scorcio del ventunesimo secolo? È ancora opportuno parlare di generi?
La musica esiste per riconoscere gli steccati e abbatterli. Definire gli stili musicali ha una funzione esplicativa, ma non ha altra utilità. Forse una volta il rock e gli altri generi rispondevano ad ambiti semantici precisi, ma ora di sicuro non più. Adesso è la mescolanza ad imporsi, a partire dal jazz. La musica odierna secondo me è una sorta di pongo rimodellato, in cui non si riesce più a distinguere gli ingredienti. C'è chi lo trova negativo, ma anche chi pensa che l'arte che si riesce a definire in qualche modo non sia più arte.
E in questo panorama, come si pone la realtà italiana?
In Italia non emerge più la buona musica, che peraltro è tanta. Ad emergere è il pop che osa di meno. Questo dipende dalla crisi delle etichette discografiche, che lavorano in un contesto in cui "non si può sbagliare": i grandi di una volta invece non raggiungevano il successo con il primo disco, ma avevano bisogno del secondo, a volte anche del terzo per riuscire ad imporsi nel mercato. Avevano però alle spalle etichette disposte a farli crescere, a lavorare su di loro, cosa che adesso è impensabile. In Italia esiste poi questa categoria senza senso della musica leggera. Ma esiste forse una "musica pesante"? Da noi il mercato non è sano. Lo sarebbe se esistessero molti più canali e vetrine di pari livello per artisti di ogni genere.
Questa differenza tra l'Italia e altre scene musicali si vede anche nei luoghi della creatività di ciascun artista?
Sì, si vede. Gli anglosassoni, per esempio, sono molto alla mano, ti accolgono a casa loro con naturalezza e tranquillità, senza il bisogno di studi alla moda o cerimonie. Tra gli italiani, anche Ligabue è così. Quando ti ricevono nei luoghi in cui scrivono o registrano, ti capita spesso di trovarti in posti sporchi, grezzi, come un garage, magari. In Italia, al contrario, è tutto più patinato, il bisogno di manifestare materialmente la vita inimitabile dell'artista è più forte che altrove. Buona parte degli artisti italiani vorrebbero vivere nell'arte (e spesso fingono di farlo). In altre parti del mondo si fa il contrario: gli artisti mettono l'arte nella vita, con un risultato spesso più dignitoso.
Tu che sei piemontese, riesci a spiegare il motivo per cui questa regione regala così tanti talenti musicali? Tra i più in vista ricordiamo Marlene Kuntz, Subsonica, Ufomammut...
È un'osservazione giusta. Bisogna però distinguere fra Torino e il resto del Piemonte. Nel capoluogo si è vissuto per tanto tempo sulla monocultura Fiat, con tutti i disagi che ne potevano derivare, e di cui la musica ha risentito. A Torino ci sono molti più gruppi militanti, che mettono in preventivo il fatto di non avere mai successo. O meglio, vedono il successo come conseguenza e non come obiettivo primario. Nel resto della regione si sperimenta di più, c'è una maggiore apertura al nuovo. Al festival di Asti, per esempio, per dei perfetti sconosciuti interviene sempre almeno un migliaio di persone, a testimonianza che c'è interesse verso ciò che ancora non si conosce.
Copertine autografate da Supertramp, Pat Metheny, Led Zeppelin (nella foto precedente: Mina e Celentano)
Nella tua carriera, qual è stata l'intervista migliore che pensi di aver fatto? E quale invece ti ha dato meno soddisfazione, o proprio ha deluso le tue aspettative?
È un po' come chiedere quale musica o quale canzone ami di più. Posso dire che una delle più brutte è stata quella con Jakob Dylan per un album che ha pubblicato con il suo gruppo Wallflowers. Lui sembrava abbastanza maldisposto, forse perché continuamente infastidito dal fatto di portare un cognome pesante. Certo, nessuno gliel'ha imposto, visto che poteva anche scegliere il cognome Zimmerman... Con McCartney invece fu un'intervista un po' strana, nel 2001. Lui iniziò ad aprirsi un po' soltanto suonando. Molto belle le chiacchierate con David Bowie e Robert Plant, persone che hanno una grande voglia di raccontarsi. Trovo illuminante il fatto che spesso l'intervista, da conoscenza dell'intervistato, può trasformarsi in un modo per imparare tantissimo su se stessi.
Copertine autografate da Joe Cocker, David Bowie, Lou Reed
Sei considerato il padre del libro-intervista. Che ne pensi? Come è nata questa idea?
Sono molto fiero di questo fatto, perché prima era considerato un genere di serie b. Una piccola casa editrice invece ci ha creduto, e ne è nato qualcosa di buono. Il libro intervista è un modo diverso di raccontare le cose, non un'occasione per una persona di parlare a ruota libera di se stessa, bensì un momento in cui due intelligenze si incontrano, generando un racconto unico, in tutti i sensi.
E come è avvenuto il passaggio ai romanzi/racconti?
Ha agito forte in me la necessità di inventare vite, oltre che raccontarle come avevo sempre fatto. Per i miei libri non di interviste ho preferito la pubblicazione in una piccola casa editrice piuttosto che per un grande editore, magari più prestigioso. Questo perché volevo sentirmi seguito in quanto scrittore, più che vedere il mio libro pubblicato, sì, ma relegato in mezzo alle migliaia di libri che un'editrice alla Mondadori sforna ogni anno.