Di scena fino al 30 maggio, al Piccolo Teatro Strehler di Milano, il “Mistero Buffo” di Dario Fo in una versione molto pop(olare). Alla narrazione dell’infanzia, dei miracoli e della Passione di Cristo si mescolano continui rimandi al potere, religioso e non solo.
Scrivo poche righe, prima che arrivi il treno, prima che in treno mi ci addormenti. Già so che non sarò capace di esprimere appieno il mio giudizio: in così poco spazio, così a caldo, avendo preso due appunti in croce (la crisi colpisce anche gli accrediti stampa, io per ripicca risparmio sulle parole).
Ti fidi di me?, chiedeva un Gesù Cristo adolescente complessato; se la risposta è sì, allora credetemi e andate a vedere lo spettacolo di Paolo Rossi in scena allo Strehler per tutto maggio, anche se da qui in avanti non capirete niente dei miei commenti a briglia sciolta.
La croce: potrei cominciare dalla fine (tanto, non si tratta di una storia esattamente inedita). Dal momento in cui crocifiggono Goran; e a sorpresa quella scena mi smuove come non ha mai fatto prima, quando l’ho sentita raccontare nelle chiese avvolte dal silenzio e ricostruita nei film con la giusta colonna sonora.
Sarà perché Lucia Vasini riesce tanto convincente nella parte dell’attricetta sciroccata, quanto (se non di più) nell’urlare un dolore materno. Sarà perché il Goran crocefisso sarà pure quel che è, ma ha ragione Paolo Rossi: è un pezzo di realtà messo in scena, un teatro che parla con il pubblico piuttosto che per esso.
Non è come in televisione: qui, il diaframma che impedisce il dialogo botta e risposta è tutt’al più teorico. Se qualcuno intorno alla quarta fila della platea inizia a ridere in stile lupo mannaro (davvero: ululava), non è che Paolo Rossi segua imperterrito il copione della serata. Si mette a ridere, ci costruisce uno sketch sopra, finché non ne ridono tutti.
Nel corso delle oltre due ore di recitazione, difficile distinguere quanto è già stato scritto e quello che invece sarebbe ancora da scrivere, ora che è emerso spontaneo.
Paolo Rossi interpreta alla lettera il senso ultimo dei Misteri Buffi, la loro vocazione ad attualizzare una storia millenaria. Tutto il lavoro prova a rispondere a una sola interrogazione, Cosa succederebbe se Gesù Cristo tornasse oggi tra noi?
Le ipotesi non mancano. S’immagina il Messia che, in un cimitero dell’eccellenza italiana, vorrebbe dar prova del proprio potere di resuscitare i morti, ma non ci sono morti che convenga resuscitare: ci sarebbe Aldo Moro, va bene, ma forse a quel signore che Gesù può vedere là in fondo, ai margini del camposanto, beh forse a lui non va tanto bene (e Paolo Rossi scolpisce dal nulla la silhouette criptica del senatore Andreotti).
Non a caso, Dario Fo nel 1978 recluta un giovane Rossi come mimo per Histoire du Soldat. La gestualità dell’attore è segnaletica, ancora più plastica delle sue voci farsesche: popolare, cita senza soluzione di continuità gli zombie dei B-movie, gli assoli di Jimi Hendrix e l’ancheggiamento di Elvis Presley.
Impareggiabile la prima messa in scena del Buffone nella storia, subito dopo che Cristo l’ha battezzato tale al termine dell’Ultima Cena (questa dei Misteri Buffi, che assomiglia più a un rave che alla tavolata azzima di Da Vinci): la sua storia, il Buffone l’ha già raccontata in un profluvio di espressioni padane-triestine-ferraresi (no global), ma quando la ripete senza verbo proferire ci si accorge di quanto siano rimasti impressi i gesti, che basta ripeterli per non perdere il filo.
Rossi il giullare manda a segno tutte le sue frecciate, fedele alla massima che il riso apre le teste al pensiero. Con tale maestria che ci si stupisce del perché non riesca a trovare lavoro.
Perché? É presto detto. Ci sono i re e i buffoni. Ecco, in Italia il re e il buffone sono la stessa persona: se uno decide di fare tutto lui, a me giullare di professione, che resta da fare?