Dalle vignette su Maometto ad Avatar, passando per la Sindone e Lourdes di Jessica Hausner: riflessioni sull'iconosclastia moderna e sul rapporto tra l'immagine e il sacro.
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ualcuno ricorderà il caso delle vignette su Maometto apparse su un quotidiano danese nel 2005, e la collera – abilmente pilotata – che esse suscitarono in alcuni segmenti dell’opinione pubblica di fede musulmana. Da allora, il meccanismo è entrato a far parte di una sintassi riconosciuta, diventando un tropo, una funzione retorica di quella grammatica globale che nutre i mezzi di comunicazione e sostiene la nostra prefabbricata visione del mondo. Una funzione vitale, se ancora poche settimane fa essa è riemersa in Sudafrica, scatenata da una vignetta di Jonathan Shapiro che – peraltro – nei confronti del Profeta era anche piuttosto affettuosa.
In un dossier dedicato alle persistenze e alle risorgenze del discorso religioso, viene spontaneo interrogarsi sul senso odierno dell’iconoclastia, ovvero sulla funzione polemica che la produzione di immagini esercita nei confronti del sacro e dei suoi segni sociali.
Andiamo alla radice (verbale). Quella del fondamento etimologico del termine ‘religione’ è una questione dibattuta fin dai tempi antichi. Per sommi capi: due sono le interpretazioni in campo. Cicerone propose di collegare la parola alla radice del verbo relegere, nell’accezione di ‘dedicarsi con scrupolo’, in una prospettiva che dell’universo religioso coglieva come eminente l’aspetto della pratica, del culto, del rito. Retori più tardi e di area cristiana – come Lattanzio e Tertulliano – proposero invece la discendenza da religere, sottolineando in questo modo il vincolo indissolubile tra la comunità umana e la divinità.
La parola imago, invece, rimanda alle effigi di cera degli antenati che i Romani conservavano sugli altari domestici. Una radice materica, concreta, legata alla mondanità di una religione civile che teneva (meglio: impastava) insieme vivi e morti. Una radice che presto evolverà verso nuove accezioni, connesse al reame semantico del magico, del manipolatorio: images saranno anche i fantasmi, le malombre, gli inganni.
Questi brevi cenni aprono la strada ai classici discorsi sulla vita l’universo e tutto il resto. Più o meno i tre quarti della riflessione estetica occidentale, in effetti, potrebbe essere ricondotta a questo nocciolo culturale. Ma in questa sede giocheremo sporco: lanciamo pietre.
Cosa hanno in comune Avatar e la Sindone? Una prima risposta potrebbe essere questa: sono due fenomeni fondati sull’immagine che, attraverso l’eccezionalità della propria fattura (delle loro marche di enunciazione, se proprio vogliamo tirarcela), si offrono come garanti di un ordine collettivo. Da un lato, l’esperienza immersiva del film mondo, che mediante l’esibizione della stereoscopia si incarica di ricollocare diligentemente lo spettatore nella più reazionaria delle narrative e nella più rassicurante delle forme-film. Dall’altro, l’immagine-impronta per eccellenza, che proprio nella sua irripetibile natura di traccia si offre come sostegno materiale alle credenze immateriali di migliaia di persone. In modo bizzarro ma analogo, il film e la reliquia funzionano da meccanismi di saldatura e agiscono come normalizzatori sociali. Siamo – per riprendere le note etimologiche di cui sopra – dalle parti della magia, del vincolo. La fattura soprannaturale dell’immagine sacra riproduce il meccanismo dell’impressione fotografica, e in questo testimonia appunto di una saldatura tra il piano celeste e quello mondano che riguarda tutti, e giustifica la necessità di una fede e di un ordine comuni: come in cielo, così in terra. Il film di Cameron (questa è la bizzarria) riesce, proprio attraverso la rinuncia a quel meccanismo dell’impressione fotografica, a vincolare il magma in espansione delle nuove credenze mediali e sociali in una forma globale, rassicurante quanto assolutamente chiusa: l’Albero Sacro sarà anche stato abbattuto, ma le sue radici continuano a connetterci tutti, e tutti – nel momento in cui inforchiamo gli occhialini polarizzati – sappiamo che tanto, alla fine, arriveranno i nostri. Che poi sono sempre gli stessi, che indossino i cappucci bianchi del KKK come in The Birth of a Nation o cavalchino grossi draghi renderizzati.
Se prendiamo invece un film come Lourdes, dell’austriaca Jessica Hausner, ci rendiamo conto di quanto il discorso cinematografico sia in grado di decostruire questa specie di grande gioco di prestigio collettivo. Il film racconta la storia di una donna paralizzata dalla testa in giù che – durante un pellegrinaggio organizzato a Lourdes - gradualmente riacquista la piena mobilità, suscitando le crudeli invidie e le gelosie degli altri pellegrini. Il tutto raccontato con uno sguardo asettico, attento alla materialità delle procedure liturgiche, alla ritualità corporea dei riti. Il miracolo viene ricondotto alla catena umana degli atti: spogliato di qualsiasi connotazione simbolica, esso cessa di rappresentare una saldatura per gettare invece una luce ancora più spietata sulla dissoluzione di ogni fede collettiva. Altro che satira: è in questa oggettivazione dell’immagine che si esercita oggi una forma, tutta moderna, di iconoclastia. Dallo scetticismo un po’ cinico degli accompagnatori laici all’individualismo un po’ gretto dei pellegrini, la religione di Lourdes è un vuoto relegere, una ritualità di spazi e movimenti che verrebbe quasi da definire post-kafkiana: non solo si osservano cerimonie di cui non si riconosce più il senso, ma – anche quando il divino comunque si manifesta – la concretezza del segno sacro resta lì, irrilevante se non nelle sue conseguenze private (poter di nuovo ballare, innamorarsi, etc), incapace di veicolare e rinnovare una qualche credenza comune. La felicità – se esiste – è una canzone di Albano e Romina.
E la religione civile? Quella dei Romani, che non cercava tanto la saldatura tra l’alto e il basso quanto quella tra vivi e morti? Ammesso e non concesso che il nostro brutale schematismo storico-religioso abbia qualche fondamento, per concludere questo excursus si potrebbe a questo punto citare un altro film d’animazione. The Secret of Kells è una recente coproduzione europea, diretta da Tomm Moore e Nora Twomey, che racconta la storia della produzione del Book of Kells, un Vangelo miniato realizzato negli scriptoria monastici irlandesi intorno al IX secolo, e oggi considerato come una delle meraviglie dell’arte medievale. Il film – esso stesso un capolavoro dell’illustrazione animata – condensa in uno stile naturalmente raffinato un messaggio di schietta fiducia nella condivisione della bellezza. Una bellezza tutta umana, intendiamoci, culturale e sociale: il Vangelo conta meno della pagina miniata. O – meglio – è la devozione stessa con cui il miniatore (oggi: gli animatori) impiega la propria esistenza per farne materia d’arte a farne un segno corale. Le immagini diventano alla fine la traccia concreta di una comunità ideale, che travalica le mura dell’abbazia, sopravvive ai barbari, e – in un certo senso – giustifica Dio. E la vita, e l’universo, e tutto il resto.