La poetessa brianzola d'adozione, ospite fissa di PoesiaPresente, si racconta a Vorrei: musica e poesia, l'incessante ricerca poetica e il ruolo dell'editoria nella diffusione della poesia
Se vieni fuori poetessa in una casa di musicisti, qualcosa ti resta impresso per forza. L'opera di Silvia Monti sta lì a dimostrarlo. Insegnante, nata e cresciuta a Morbegno, ma trapiantata in Brianza, ha pubblicato le raccolte Più primavera che Paranoia (LietoColle 2006), e Così uguale (Lampi di Stampa, 2008).
Qual è stato il tuo approccio alla poesia? Cosa ti ha fatto capire che dovevi esprimerti con questo mezzo?
Una prima spinta mi fu data dall'insegnante di lettere delle medie, che ci faceva leggere tanta poesia, ma senza dogmatismi. I primi libri che ho comprato sono stati L'Allegria di Ungaretti e il Canzoniere di Saba, spinta proprio dalle letture in classe. Leggo tanta poesia italiana, poca straniera, a parte Wislawa Szymborska (autrice polacca premio nobel per la letteratura 1996, ndr), i simbolisti francesi, Garcia Lorca e Neruda. Ho scampato il fenomeno Prevert, che, per me appassionata di ermetismo, è troppo immediato. Lo uso a scuola, però, e vedo che i ragazzi si emozionano. Diciamo che attraverso di loro sto imparando ad apprezzarlo di più. La spinta a scrivere venne però all'università: collaboravo con un gruppo che si occupava di poesia e curava una collana, sulla quale peraltro non sono mai stata pubblicata: provai la strana esperienza di essere stroncata dai miei amici. La cosa, che adesso ricordo con un sorriso, all'epoca mi servì molto, perché mi resi conto che avevo ancora tanto da imparare, soprattutto nella tecnica, per quanto la parola mi faccia paura.
Lavori nella scuola: quanto il tuo mestiere influenza la tua poetica?
Con il lavoro che faccio, devo leggere cose che normalmente non leggerei, e confrontarmi di continuo, con persone sempre diverse che sulle stesse parole mi danno vari punti di vista. Questo non si riversa poi nella mia scrittura, ma contribuisce al mio modo di leggere la poesia altrui.
Accompagnata da tuo fratello bassista, hai offerto letture di poesia e musica. Come sei arrivata a questa fase di ricerca poetica?
Premessa: sono un appassionata di musica pop. Credo di ascoltare molta più musica di quanto legga poesie. Il lavoro che svolgo sui miei testi è in un certo senso pop. Tento cioè di lavorare in maniera intelligente su un linguaggio quotidiano, senza per questo dimenticare il mio bagaglio culturale, frutto di tante letture. Ho due fratelli musicisti. Con il più piccolo, l'occasione di collaborare è nata per caso nel corso di un festival a Morbegno. Compose una vera e propria colonna sonora per un mio lavoro, "Dark è la notte". Per un paio d'anni tutto andò molto bene. Poi litigammo, e iniziai a collaborare con l'altro fratello, un po' più grande, bassista. Ho lavorato anche con una mia amica pianista nella lettura di "Più primavera che paranoia", ispirata a Vivaldi. Con il basso, però, ho scoperto un divertimento in più: le prove, come se fossimo una band. Questo tipo di situazione mi ha fatto migliorare nella mia capacità di leggere in pubblico.
Quanto è importante la musica per un poeta?
Nella mia è fondamentale. La musica salva l'anima tanto quanto la poesia. Un album degli Skunk Anansie mi ha salvato in un momento della mia vita da inutili e dannose elucubrazioni, esattamente come in un altro periodo ha fatto la poesia di Montale.
Ci sono musicisti che ti influenzano come poetessa?
I cantautori italiani, come Guccini e De Gregori, ma anche le cantautrici straniere, come Tracy Chapman e Suzanne Vega. Poi anche molta musica pop degli anni Ottanta e Novanta: Eurythmics, Skunk Anansie, qualcosa di Paola Turci e Carmen Consoli. Adesso però mi sento più elettronica, diciamo, e questo mi sembra si rifletta anche nella ritmica delle mie poesie.
Vanti due pubblicazioni di tue raccolte, una per LietoColle. Come è il tuo rapporto con l'editoria? Come pensi che un poeta ci si debba rapportare?
Ritengo ci siano troppe case editrici, sia grandi che piccole. Anzi, soprattutto piccole. Si pubblica troppo. Non che disapprovi la possibilità di pubblicare aperta a tutti, ma senza una ricerca stilistica della casa editrice, il danno è soprattutto per gli autori. L'atto di pubblicare è un punto di arrivo, non di partenza. Se un poeta mediocre fa uscire un libro, non avrà l'intenzione di migliorare, e questo è grave. Io credo che i rifiuti aiutino a crescere, e l'editoria a pagamento sotto questo aspetto è un limite. Quando io decisi di pubblicare, inviai manoscritti a tantissime case editrici, grandi e piccole. Mi ricordo che un redattore di Einaudi mi rispose per motivare il loro rifiuto a pubblicarmi, e io fui contenta di ricevere quei consigli. Mi guadagnai poi la mia pubblicazione vincendo il concorso di LietoColle. Quella non fu una grande esperienza, non rimasi contenta del lavoro svolto in casa editrice, mi sembra che non seguano i loro autori. Molto meglio Lampi di Stampa, che è un'agenzia di print on demand, quindi più chiara nell'offerta del servizio. È l'autore stesso a comporre il proprio libro, con ampia libertà di scelta. È un modo di agire che in casa editrice sarebbe rovinoso, ma in quel contesto invece è onesto, e soprattutto lo sai prima. In più, la pubblicazione ti costa molto ma molto meno di quanto verrebbe con un sedicente piccolo editore. Ciononostante, pubblicano pochissimi libri all'anno, perché effettuano una rigorosa selezione, a differenza di tante case editrici. Grazie a Lampi ho stretto amicizia con molti altri poeti, cosa che con LietoColle non si fa.
Il confronto fra pari aiuta a crescere meglio, giusto?
Certo! Io sono una abituata a dire ciò che pensa: si tratta di osservazioni basate sulla mia cultura e sul mio gusto, quindi valgono solo per me, non mi aspetto di imporle agli altri, le esprimo e basta. Questo può sembrare indelicato, invece, ad alcuni. Ripenso a tutte le volte in cui sono stata stroncata io, anche in maniera forte, e le trovo tutte delle occasioni in cui sono cresciuta, in cui ho trovato stimoli alla ricerca artistica. Magari per rabbia, ma mi sono smossa. Ecco, credo che per i poeti il rapporto tra pari sia salutare: se hai scritto una cosa insulsa, qualcuno deve fartelo notare. D'altra parte, quando uno invece ha scritto una cosa fantastica, trovo stupido trattenersi dal riconoscerglielo per invidia, come spesso succede.
Come si presenta ai tuoi occhi la scena poetica attuale, in Brianza, ma non solo?
Come dicevo prima, pubblica troppa gente, diventa sempre più difficile distinguere un poeta della domenica da uno che ha davvero qualcosa da dire. C'è un gran numero di poeti mediamente bravi, ma scarseggia il talento vero. La poesia per me ha davvero valore, è davvero arte, cioè, quando sei riuscito a scrivere qualcosa che è profondamente tuo, ma in un modo che suona bene, con le parole giuste, e con delle immagini tali da riuscire a impressionare anche un'altra persona. Il poeta deve risucire a dire le cose più ovvie in un modo che arricchisce il lettore, come Montale, come Szymborska. Ci sono poi quei poeti che personalmente non apprezzo, ma di cui non posso negare la padronanza artistica, come Amelia Rosselli. Un po' come Santana nella musica: non mi piace per niente, ma come posso dire che non sia bravo? Ecco, secondo me non c'è in giro gente così, al momento. Gente capace di riflettere sulla realtà ed estendere anche agli altri le proprie riflessioni, in modo utile: insomma il ruolo del vero intellettuale, la coscienza collettiva.
Hai mai pensato di dedicarti alla critica?
L'ho fatto, collaboravo con un blog che si chiamava LiberInVersi, ora chiuso (ha riaperto da poco, ndr). Il blog aveva lo scopo di dibattere su autori affermati o meno, e il dibattito era serio, senza peli sulla lingua. Si passava dalle gratificazioni alle osservazioni anche pesanti. Ad ogni modo, erano tutte sollecitazioni interessanti, senza timore di ferire l'orgoglio altrui, l'importante era il confronto.
Come può fare un poeta per promuovere i propri versi?
Esplorare internet, ci sono blog molto interessanti, come per l'appunto LiberInVersi. E poi, trovare non tanto dei maestri, quanto delle persone con un buon occhio critico che stimolino la loro inventiva. Ma non dannarsi a vivere la propria vita in nome dell'arte. Spesso la vita vera è meglio. Io una volta rinunciai a partecipare a un gran convegno di poesia, dove avrei potuto stringere contatti preziosi per la mia crescita artistica, per andare a vedere la squadra di pallavolo di una mia classe alla finale del torneo scolastico. All'epoca mi mangiai le mani al pensiero dell'occasione persa, ma nel tempo, rivedendo le mie ex alunne che tuttora vengono a trovarmi, mi chiedo se non sia stata la scelta più poetica che abbia mai fatto.